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Commentary
Tra corruzione e successione: il Sudafrica dopo Zuma
Rocco Ronza
25 ottobre 2017

Salvo imprevisti dell’ultima ora, il congresso nazionale dell’African National Congress (ANC) che si terrà nel prossimo dicembre dovrebbe porre fine alla carriera di Jacob Zuma come presidente del partito guidato al potere da Nelson Mandela nel 1994 e vincitore di tutte le elezioni tenute in Sudafrica dopo la fine dell’apartheid. L’elezione di un altro leader a capo dell’ANC non comporterà automaticamente la fine del mandato di Zuma come presidente del Sudafrica, che dovrebbe terminare con le elezioni previste nel 2019, ma potrebbe favorirne la sostituzione, come già avvenuto nel 2007, quando lo stesso Zuma sconfisse il suo predecessore Thabo Mbeki al congresso dell’ANC di Polokwane.

La fine dell’era Zuma arriverà al termine di una lunga e intensa campagna d’opinione, orchestrata dai media sudafricani e internazionali dalla fine del 2013, che ha fatto conoscere al mondo, fin nei minimi dettagli, una lunga scia di comportamenti discutibili, di abusi delle risorse pubbliche e di tentativi di manipolare le strutture e le procedure giudiziarie per evitare processi e condanne che hanno screditato, all’interno e all’esterno del paese, la figura del presidente e la classe dirigente del partito a lui più direttamente legata.

Nato nel 1942, ex prigioniero di Robben Island come Mandela e molti dei leader dell’ANC, Zuma non è mai piaciuto ai media internazionali. Sostenuto dal sindacato Cosatu e dal piccolo ma influente Partito comunista, alleato storico dell’ANC, l’attuale presidente era succeduto all’occidentalizzato e tecnocratico Mbeki – apprezzato dagli investitori internazionali e artefice della crescita di una borghesia nera – in quanto espressione dell’ala più popolare dell’ampia coalizione sociale che dal 1994 consente al partito di monopolizzare gran parte del voto dei neri (l’80% circa della popolazione) e di controllare la maggioranza assoluta dei seggi in parlamento. Poligamo (ha avuto sei mogli e più di venti figli), duro nel suo linguaggio populista e africanista, Zuma era stato salutato con favore dalla parte più povera della popolazione nera – marginalizzata sotto la presidenza Mbeki – che ha contribuito in misura decisiva alla sua elezione al vertice del paese nel 2009 e poi alla sua riconferma a larga maggioranza nel 2014.

In realtà Zuma, almeno nei primi anni della sua presidenza, aveva adempiuto bene al compito di tenere unito un partito che, dalla fine dell’apartheid, si era assunto il duplice compito di tranquillizzare i mercati con politiche economiche favorevoli alle imprese e, allo stesso tempo, di placare il disagio e la rabbia di un Sudafrica povero le cui condizioni, per molti versi, non appaiono migliorate dalla fine del regime segregazionista. Giunto al potere mentre la crisi economica internazionale riduceva i tassi di crescita e con essi i margini di spesa e di manovra dello Stato, Zuma, grazie alla sua fama di populista e a una buona dose di pragmatismo, aveva saputo fronteggiare la crescita della conflittualità sociale e la sfida che saliva alla sinistra dell’ANC, riuscendo a contenere anche la crescita degli Economic Freedom Fighters (Eff), il partito di sinistra antagonista favorevole alla nazionalizzazione delle miniere fondato nel 2013 (un anno dopo i sanguinosi scontri tra scioperanti e polizia nelle miniere di Marikana) da Julius Malema.

Con l’uscita di scena di Zuma, il compito di evitare il collasso del partito di governo e con esso la destabilizzazione di quella che, nonostante tutto, resta la più solida democrazia e l’economia più avanzata del continente africano passerà a uno dei sette candidati che corrono per la successione. I più accreditati sono due. Da una parte, l’ex ministro, ex presidente dell’Unione Africana ed ex moglie di Zuma Nkosazana Dlamini-Zuma, più rispettata dell’ex coniuge, ma considerata la candidata in pectore del presidente uscente e come tale troppo condizionata per dare il senso di una forte discontinuità con il passato; dall’altra, l’ex sindacalista, ora uomo d’affari Cyril Ramaphosa. Nato nel 1950, Ramaphosa pare ben attrezzato, almeno sulla carta, per tentare di riconciliare le due anime del blocco sociale e della coalizione di interessi su cui si è fondata finora l’egemonia dell’ANC. Da un lato, la storia della sua ascesa nel sindacato nero, nella seconda metà degli anni Ottanta, fino al ruolo prestigioso e delicato di capo negoziatore per l’ANC, nelle trattative con il governo bianco, ne fanno un candidato accettabile per Cosatu, Partito comunista e ala sinistra del partito, che lo avevano già sostenuto nel 1997 ai tempi della successione di Mandela e sembrano oggi aver trovato in lui un’alternativa all’ormai scomodo Zuma. Dall’altro, la brillante carriera come uomo d’affari che l’ex sindacalista si è costruito dopo il 1997 e che lo ha portato a diventare uno degli individui più ricchi del Paese, con un patrimonio personale stimato in oltre 600 milioni di dollari, può rassicurare i capitali privati sul fatto che un governo da lui guidato non potrà allontanarsi troppo dalle politiche business-friendly adottate fin qui da tutti i governi del Sudafrica post apartheid. Nel suo percorso di avvicinamento all’appuntamento di dicembre, Ramaphosa ha mostrato anche una certa abilità, reinserendosi gradualmente nella vita politica e nel partito senza compromettersi troppo con Zuma, ma ottenendo ugualmente la nomina a suo vice dal 2012.

Se è vero che la scelta di una leadership più legittimata di quella di Zuma appare oggi la questione più importante da risolvere per immaginare il futuro degli equilibri politici del Sudafrica, è vero anche che la situazione politica appare in movimento anche per altre ragioni. Il modello affermatosi alla metà degli anni Novanta, basato sul monopolio del voto nero da parte dell’ANC e sul contrappeso al potere del governo offerto da magistratura e media, alleati a un settore privato ancora dominato dai bianchi, sembra essere ormai entrato in una crisi che sarebbe sbagliato ricondurre solo alla corruzione del presidente e dei suoi accoliti. In particolare, la crescita di una classe media e di una borghesia nera, nelle quali molti analisti economici ripongono (forse a torto) le speranze per una prossima ripresa dell’economia sudafricana, sembra aver rimesso in movimento l’intero quadro politico. Approfittando della crisi della presidenza Zuma, il partito di opposizione Democratic Alliance (DA), che fino alle elezioni del 2014 aveva catalizzato il voto delle tre minoranze (bianchi, meticci e indiani) e si era dimostrato capace di governare le aree a maggioranza bianca e meticcia di Città del Capo e della provincia del Western Cape, si è lanciato in una campagna di rapida “trasformazione razziale” che ha portato al vertice del partito una serie di giovani (e spesso sconosciuti) dirigenti neri. Anche se la politica di africanizzazione ha già iniziato a suscitare malumori all’interno del partito e della sua base, il buon risultato dei candidati della DA nelle elezioni municipali dell’agosto 2016 in alcune grandi aree metropolitane, come Johannesburg e Pretoria, sembra confermare che il monopolio del voto nero da parte dell’ANC non può più essere considerato fuori discussione. D’altro canto, le ampie coalizioni attorno ai sindaci della DA, cui hanno partecipato tutti i partiti di opposizione, appaiono come un risultato fragile e provvisorio del clima creato dalla mobilitazione anti-Zuma: resta tuttora da dimostrare che un fronte politico che escluda l’ANC possa mai arrivare a costruire anche a livello nazionale una coalizione sufficientemente ampia e solida da sostituire il partito di governo garantendo lo stesso livello di stabilità politica. Più che la fine dell’era dell’African National Congress, il tramonto della presidenza Zuma potrebbe segnare l’inizio di una fase contraddistinta da fluidità e frammentazione, in cui la stabilità di governo richiesta dall’economia e dai mercati internazionali potrebbe passare, più che dall’affermazione di una nuova egemonia paragonabile a quella stabilita dall’ANC ai tempi di Mandela e di Mbeki, dal ritorno a governi di coalizione e a pratiche di power-sharing che il Sudafrica sembrava aver abbandonato dall’uscita del National Party di De Klerk dal primo e ultimo governo di unità nazionale, nell’ormai lontano 1997.

 

Rocco Ronza, Università Cattolica

 

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