L’Etiopia per ora non cede e intende procedere alla seconda fase del riempimento della diga GERD sul Nilo. Le operazioni sono previste per luglio, una mossa portata avanti nonostante le proteste del Cairo e di Khartum. Le due capitali temono che la riduzione del flusso d’acqua abbia conseguenze disastrose sul piano economico, sociale e demografico. Già sono in sofferenza e un calo delle forniture potrebbe essere fatale, infatti parlano di una minaccia alla sicurezza nazionale. Gli etiopi, invece, ritengono che il bacino artificiale sia necessario alla crescita del proprio sistema e non appaiono disposti a fare troppe concessioni. C’è dunque una fase di stallo, resa ancora più seria dalla moltiplicazione di conflitti nella regione. Vediamo i punti principali.
Primo. Davanti alla sfida unilaterale Egitto e Sudan chiedono una mediazione ampia, con USA, Unione Europea, Unione Africa e Repubblica Democratica del Congo (RDC) in qualità di presidente di turno dell'Unione Africana. L’obiettivo è quello di internazionalizzare la gestione della crisi coinvolgendo il Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Addis Abeba è disponibile solo ad un intervento dell’Unione Africana, ed è convinta di avere una posizione di vantaggio e pensa che ogni rinvio finirà per determinare il suo successo.
Secondo. Gli egiziani, da mesi, cercano appoggi nei paesi lungo il bacino del grande fiume e nel continente. Da segnalare i contatti (con la promessa di accordi economici) in Burundi, RDC e Tanzania. In quest’ultimo paese sempre gli egiziani partecipano alla costruzione dello sbarramento artificiale sul fiume Rufiji. La manovra serve anche per contendere il passo ad analoghe iniziative della Turchia, decisa ad estendere la sua influenza.
Terzo. Il presidente egiziano al Sisi vuole portare dalla sua parte il maggior numero di stati offrendo scambi, supporto (anche militare, dove serve) e intese. Molto ampia la collaborazione con il Sudan, l’altro protagonista dello scontro che, nei mesi scorsi, era sembrato avere dei ripensamenti. Il generale ha appena visitato il paese e insieme ai dirigenti ha espresso in modo netto l’opposizione a qualsiasi «fatto compiuto». Messe da parte vecchie ruggini, i due partner hanno firmato un patto di difesa e condotto esercitazioni comuni. Legami che assumono un significato particolare visti gli scontri tra le forze di Khartum e Addis Abeba nell’area di Fashaga. Alcuni osservatori temono che la contesa territoriale in questa zona si trasformi in conflitto aperto. La crisi collaterale in Tigray, con le denunce di massacri, rende più esposta l’Etiopia. Che risponde sulla scacchiera: il premier Abiy Ahmed e il presidente eritreo Isaias Afewerki si sono recati a Juba, capitale del Sud Sudan.
Quarto. L’Arabia Saudita e gli Emirati non hanno escluso di svolgere un ruolo per favorire una soluzione. Sono attivi in questo quadrante. Interessante ricordare come nel giugno di un anno fa Riad abbia affermato che la sicurezza idrica di Sudan ed Egitto riguarda l’intera famiglia araba.
Quinto. C’è l’attesa per le mosse della nuova Casa Bianca. Donald Trump aveva mediato, senza ottenere però grande successo, uno stop seguito dal congelamento degli aiuti in favore dell’Etiopia, ritenuta la responsabile del fallimento. Ora Joe Biden ha riattivato quel programma rinnovando però l’impegno per il negoziato. È un segnale per gli egiziani? Anche Vladimir Putin si è infilato nella contesa provando ad organizzare un meeting, ma ha incontrato le medesime difficoltà. E nel frattempo si è dedicato ai propri obiettivi finalizzando l’intesa per una base a Port Sudan.
È evidente come i contrasti regionali creino dei varchi per battaglie strategiche e si intreccino con altri dossier. Alcuni focolai si sovrappongono, offrono opportunità per scambi di favore tra governi ma innescano anche concorrenza. Nel mondo senza blocchi c’è spazio per tanti.