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Commentary

Tra Teheran e Riyadh, la battaglia per Sana'a

Armando Sanguini
03 febbraio 2015

Quando alla fine del 2011 ‘Ali ‘Abd Allah Saleh fu costretto a lasciare il potere che deteneva da 33 anni e ‘Abd Rabbih Mansur Hadi, suo vice da 16 anni, ne prese il posto, sanzionato dalle elezioni del 2012, parve ai più che anche per lo Yemen, liberatosi come Tunisia, Egitto e Libia del proprio autocrate, s'inaugurasse una feconda primavera. 

Ne era soddisfatta in particolare l’Arabia Saudita che aveva fatto un notevole lavorio per giungere a questo sbocco, ma anche il Gruppo degli “amici dello Yemen” alla cui formazione anche l’Italia aveva contribuito. Sbocco che tra l’altro le avrebbe consentito di proseguire nella sua azione anti al-Qaida nella Penisola Arabica (Aqap) e di controllo del Gruppo sciita (zaydita) Houthi attestato a ridosso del confine e sospettato di essere in qualche modo attratto nell’orbita di Teheran. 

Ma, da un lato, non si erano fatti i conti con Hadi rivelatosi inadeguato rispetto alle sfide che avrebbe dovuto fronteggiare: dalla frammentazione del tessuto clanico e tribale alla dilagante corruzione, dalla sicurezza alle disastrose condizioni socio-economiche, etc. Dall’altro, si era lasciato che le agende degli “Amici dello Yemen”, Stati Uniti in testa, finissero per dare priorità alla minaccia terroristica di Aqap – che pure meritava grande attenzione per la sua riconosciuta pericolosità locale e globale – rispetto a quella della ricostruzione complessiva del quadro istituzionale e di governo del paese. Sottovalutando il fatto che la strategia dei droni usata al riguardo, dava risultati limitati ma generava un sempre più diffuso risentimento popolare. 

Nella visione saudita inoltre, pur contemplando barriere, e non solo politiche, con lo Yemen, faceva premio la nevralgica deriva siriana e quella irachena nella quale Riyadh vedeva la possibilità di regolare i conti con Teheran, il suo grande competitor regionale, sottraendole il controllo di Damasco e rimettendo in discussione gli equilibri di Baghdad, sotto il vessillo dello scontro settario sunniti/sciiti. 

La successiva insorgenza dello Stato Islamico e d’oriente diventato poi Califfato di al-Baghdadi, inseriva un ulteriore fattore d'inquietudine, per Riyadh subito e per gli altri attori successivamente.  

Su questo sfondo di crescenti complessità, è comprensibile che abbia prevalso una valutazione benevola, forse troppo, dell’andamento del Dialogo nazionale – promosso dalla Risoluzione 2051 delle Nazioni Unite – piagato da episodi di violenza, proteste di massa e rigurgiti separatisti nel sud, e delle sue conclusioni, giunte con fatica nel gennaio del 2014 e marcate da un consenso più di facciata che reale. 

Si sono altresì trascurate le ricadute derivanti dalla concessione dell’immunità a Saleh e ai suoi familiari, quale contropartita per la sua uscita di scena e abilmente utilizzata per recuperare influenza e tessere un’alleanza, temibile anche se forse meramente tattica, con gli Houthi, suoi antichi nemici.

Questi fattori, interni, regionali e internazionali, hanno offerto terreno fertile per la crescita del movimento Houthi che, guarda caso, proprio a partire dal 2014 manifesta un’impressionante capacità di espansione, passando dall’essere realtà belligerante, ma locale, a forza capace di estendere il suo controllo a parti importanti del nord e della costa e soprattutto ad occupare Sana’a (settembre) con l’indiretta complicità delle forze armate e dell’incertezza delle altre forze politico-tribali. Ne è riprova quasi surreale il fatto che mentre ciò avviene, si firma l’Accordo di pace e di condivisione del potere nazionale sulla cui asserita violazione da parte di Hadi – sull’assetto federale del paese in sei anziché in due parti e sulla ripartizione dei poteri di governo - si consuma tra dicembre e gennaio il secondo e definitivo strappo: l’occupazione dei Palazzi del potere e l’estromissione-dimissioni di Hadi.

In quale misura questa scalata di potere degli Houthi può essere attribuita a Teheran? Che il suo sostegno, politico e militare, vi sia stato – e continui – è fuor di dubbio. Da sempre attenta ad ampliare la sua orbita di influenza, ha verosimilmente incoraggiato quel gruppo nel momento in cui se ne è presentata la congiuntura più propizia. E ha colto l’opportunità di staccare comunque il dividendo di un’ulteriore spina nel fianco della rivale Arabia saudita. 

Ma che sia stato decisivo è discutibile; non foss’altro che per essere già fortemente impegnata su altri fronti politici, militari e di sicurezza: dal negoziato sul nucleare alla sfida dell’ISIS, dal sostegno ad Assad, ecc. 

Per Riyadh si tratta invece di una deriva dichiaratamente intollerabile che dimostrerebbe ad abundantiam il disegno settario di Teheran tra Medio Oriente e Golfo. Si evoca lo spettro dell’accerchiamento, della spada di Damocle di uno Yemen controllore delle porte del Mar Rosso e dunque dei traffici che vi transitano, ivi compresi il gas e il petrolio delle monarchie. Si ricorda la persistente sollecitazione agli sciiti interni e bahreiniti. 

Ma dietro a questa esasperazione vocale c’è soprattutto irritazione e frustrazione per il fatto che la dinamica yemenita complica una deriva regionale che si è andata facendo assai meno favorevole, per Riyad, di quanto non si sperasse dal 2011. E più incerta nell’incrocio delle agende degli altri soggetti regionali e internazionali interessati: dagli Usa alla Russia, da Israele alla Turchia. 

Poco è di conforto, in questo contesto, la convergenza di fatto nella lotta ai gruppi jihadisti di derivazione qaedista o meno, perché alla loro ombra si stanno sviluppando contrastanti quanto opachi esercizi settari. In cui rileva ad esempio il fatto che gli Houthi siano acerrimi nemici di Aqap, ben più temibili dei primi per Riyadh oltre che per Washington, come la convergenza con Teheran rispetto all’Isis.  

Intanto il gruppo Houthi, pur dominus della situazione, non sembra voler spingere verso un ulteriore strappo, rischioso nel contesto politico e tribale del paese e del tutto fuori luogo rispetto ad un sud assai lontano dalle sue possibilità di controllo.  

Saleh non si sta esponendo, forse in attesa di essere in qualche modo “chiamato” magari con l’interposta persona del figlio. E le ore passano all’insegna di manifestazioni di piazza ma anche di frenetici contatti fra i principali partiti politici, fra loro e l’Inviato dell’Onu Jamal Benomar, in consultazione con il Consiglio di Sicurezza e i principali partner regionali, Arabia Saudita compresa e l’occhio attento di Teheran. 

Si evoca un governo di salvezza nazionale, mentre torna in primo piano la priorità della minaccia terroristica con l’ennesimo attacco americano con droni. D’intesa con gli Houthi.

Insomma, in questa congiuntura di grande liquidità e incertezze per i futuri assetti della regione, lo Yemen s'inserisce come ulteriore fattore di rischio terroristico e settario oltre che di confronto tra Teheran e Riyadh. 

Armando Sanguini, ISPI Scientific Advisor, già Ambasciatore d’Italia in Tunisia e Arabia Saudita.

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Autori

Armando Sanguini
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