“È stato un negoziato duro e onesto, siamo orgogliosi degli sforzi fatti, nessuno poteva scommetterci”. Con queste parole il presidente Donald Trump ha annunciato la firma della fase uno dell’accordo con la Cina. Un accordo che non risolve lo scontro commerciale ma pone fine per il momento ad una pericolosa escalation che ad agosto aveva subito un’ulteriore accelerazione con l’inserimento di Pechino nella lista dei currency manipulator e la minaccia di nuovi dazi americani. Si tratta dunque di una tregua, in attesa della “fase due”, la più complessa, vera prova del nove di questa détente commerciale. Ma quali sono i contenuti dell’accordo e le motivazioni sottostanti? Quali le reazioni e intenzioni cinesi? Quali conseguenze per l’Unione europea?
Contenuto dell’accordo
Nonostante si pensasse all’inizio che il suo contenuto potesse essere vago, l’accordo firmato il 15 gennaio è piuttosto specifico ed oneroso nei confronti di Pechino. Nei sette capitoli che lo compongono vengono infatti elencate tutte le misure che la Cina dovrà intraprendere per “scongiurare” una ripresa dell’offensiva commerciale americana, contenendo al suo interno anche un “Bilateral Evaluation and Dispute Resolution Arrangement” creato allo scopo di valutare l’effettiva implementazione dell’accordo e dirimere eventuali controversie che ne potrebbero nascere. Un elemento questo fortemente osteggiato inizialmente da Pechino.
Nello specifico il primo capitolo contiene le prescrizioni alla Cina per l’implementazione di un sistema legale effettivo di protezione ed enforcement delle principali questioni legate al rispetto della proprietà intellettuale, brevetti, marchi, indicazioni geografiche. Si prevede inoltre un obbligo in capo a Pechino di provvedere entro 30 giorni ad un “action plan” dettagliato con misure e tempi di attuazione delle misure proposte.
Il secondo capitolo riguarda invece gli impegni cinesi a porre fine ai trasferimenti forzosi di tecnologia e proprietà intellettuale, soprattutto a livello locale dove le autorità continuano a vincolare l’approvazione d’investimenti esteri al trasferimento di tecnologia.
Il terzo capitolo si concentra invece sulle questioni alimentari e sull’impegno delle parti ad aprire maggiormente i rispettivi mercati e a cooperare in tema di sicurezza alimentare.
Il quarto capitolo riguarda i servizi finanziari ad assicurativi, con la Cina che si impegna ad allentare i limiti legislativi per le operazioni provenienti da operatori esteri e a rendere liberamente fruibili i servizi stranieri di pagamento elettronico.
Il quinto capitolo tratta delle questioni macroeconomiche e impegna le due parti ad evitare svalutazioni competitive e manipolazioni del cambio, impegnandosi altresì a rendere trasparenti le informazioni relative alle riserve di valuta estera, lo stato della bilancia dei pagamenti e i dati trimestrali relativi alle esportazioni e importazioni.
Infine il sesto capitolo, è forse quello dove gli organi di informazione si sono soffermati maggiormente perché impone alla Cina di acquistare, nel biennio 2020-21, $200 miliardi a prezzi di mercato di merci americane in più rispetto alla baseline del 2017. Si tratta di una prescrizione particolarmente onerosa, la cui effettiva attuazione è da molti messa in discussione per una lista di prodotti piuttosto specifica, e che riguarderebbe $77,7 miliardi prodotti del settore manifatturiero, $32 miliardi di prodotti agricoli, $52,4 miliardi di prodotti energetici e $37,9 miliardi in servizi made in USA.
Conseguenze per gli Stati Uniti
L’accordo arriva in una fase molto delicata per la politica statunitense, ma con tempistiche favorevoli per il Presidente Trump in vista delle elezioni di novembre.
In primo luogo la firma della fase uno dell’accordo commerciale con la Cina avviene proprio nello stesso giorno in cui la Camera americana ha votato la trasmissione al Senato dei documenti relativi all’impeachment. Una tempistica che consente al Presidente di poter utilizzare l’accordo come una vittoria personale che ne accresce la sua legittimità a livello politico tale da poterla usare in campagna elettorale contrapponendola alle accuse contenute nella richiesta di impeachment.
In secondo luogo la firma dell’accordo arriva soprattutto in una fase nella quale l’economia americana inizia a dimostrare segnali di rallentamento. Nonostante una crescita prevista per il 2020 superiore del 2% (il tasso di crescita più alto dei paesi del G7) e fondamentali economici incoraggianti sia per quanto riguarda l’inflazione (inferiore al 2%) che il tasso di disoccupazione (a livelli minimi del 3,5%) è infatti la stessa Federal Reserve nel suo Beige Book a parlare di una crescita che negli ultimi sei mesi del 2019 ha rallentato la sua corsa. Sintomi confermati anche dall’indice ISM PMI (United States ISM Purchasing Managers Index) che registra l'entità dell'attività manifatturiera negli Stati Uniti, sceso al di sotto delle aspettative del mercato. Anche le previsioni relative alla produzione industriale, nonostante i risultati positivi di novembre, sono piuttosto incerte di fronte al ridursi degli effetti prodotti dalla politica espansiva del presidente americano e all’accentuarsi delle tensioni commerciali. Tensioni che secondo stime del FMI avrebbero portato, in caso di un aumento generalizzato dei dazi del 25% sul totale degli scambi commerciali USA-Cina ad una contrazione degli scambi bilaterali nel breve periodo del 20-30% e ad una riduzione del Pil nell’ordine dello 0,3-0,6% per gli Stati Uniti e dello 0,5-1,5% per la Cina.
Di qui l’importanza per Trump di questo accordo che pur non ponendo fine alla guerra commerciale, contribuisce a ridurre le tensioni e soprattutto, qualora venisse effettivamente attuato, a dare un’ulteriore spinta all’economia americana e alle chances di rielezione di Trump. Da una parte infatti il capitolo dell’accordo che prevede acquisti da parte della Cina di beni e servizi americani in due anni per un valore superiore a $200 miliardi, corrisponde ad un aumento delle esportazioni americane del 78%, tanto in settori tradizionali come quello agricolo, energetico e manifatturiero, che rappresentano importanti basi elettorali quanto in settori come quello finanziario, informatico, TLC e acquisto brevetti e proprietà intellettuale. In particolare è proprio la parte relativa alla protezione della proprietà intellettuale, brevetti e tecnologia statunitense ad occupare la parte più sostanziosa dell’accordo quasi a dimostrare quanto la vera “competizione” tra i due paesi si gioca proprio su questo tema. Senza dimenticare che con il bilateral evaluation and dispute resulution arrangement gli USA si tengono le mani libere nel riprendere l’offensiva commerciale nei confronti di Pechino nel caso di mancato rispetto degli impegni presi.I negoziatori americani hanno più volte manifestato infatti la loro frustrazione di fronte al fatto che in ogni round negoziale si ottenevano concessioni da parte di Pechino ma che allo stesso tempo si ritrovavano spesso come nel gioco dell’oca sempre allo stesso punto, dovendo ridiscutere altre nuove misure adottante nel frattempo dalla controparte cinese.
Conseguenze per la Cina
Da parte sua, la Cina sta trattando con cautela la “fase uno” dell’accordo. Da una parte, l’impegno di Pechino ad acquistare $200 miliardi di prodotti e servizi americani rendono il deal un po’ troppo condiscendente verso gli Stati Uniti. Dall’altra, la conferma che sarà il vice-ministro degli esteri Liu He a partecipare alla “grande cerimonia di firma” promessa dal Presidente Trump manda un messaggio forte a Washington, e sottolinea come la Cina sta firmando quest’accordo perché deve, non perché vuole. Come riportato da Taoran Notes, un account social affiliato alla lontana al Ministero del Commercio, questo deal non mette fine alla guerra commerciale, al contrario, ne rappresenta un “primo round di gioco”. Sul “secondo round”, tuttavia, nessuna delle parti sembra avere le idee chiare, nonostante gli osservatori internazionali si aspettino una maggiore operatività. Durante una conferenza stampa del 14 gennaio scorso, Liao Yan, vicedirettore della “Commissione centrale per gli affari economici e finanziari”, ha sottolineato che Pechino vede il deal come un modo per salvaguardare gli interessi fondamentali delle aziende cinesi sia in Cina che negli Stati Uniti, e che l’accordo rimane in linea con gli obiettivi generali del PCC di riformare e modernizzare lo sviluppo economico del paese. Tuttavia, rimane chiaro anche a Pechino che un decoupling dagli Stati Uniti è “inimmaginabile”, visto l’alto livello di integrazione tra le economie dei due paesi. In primis, la Cina si trova a far fronte a un’economia al ribasso il cui tasso reale di crescita al 2024 è previsto al 5.5% secondo il Fondo Monetario Internazionale. Una percentuale che contravviene allo standard di crescita fissato dal PCC nel 2014, il cosiddetto “New Normal”, che prevede un tasso di crescita annuale di almeno il 6%. La stessa legittimità politica di Xi—da qualche mese identificato come il “leader del popolo” nella stessa accezione che era stata di Mao—rimane legata allo sviluppo economico del paese. Inoltre, la Cina ha reso note le sue preoccupazioni per gli squilibri economici che, sul lungo periodo, sarebbero stati scatenati dalla guerra commerciale. Pertanto, nonostante gli svantaggi, la firma del deal rimane una scelta obbligata per Pechino. Tutta l’enfasi posta sul fatto che si tratti di un “primo round” sottolinea quanto la Cina stia oggi guardando alle elezioni americane del prossimo 3 novembre e l’accordo, quindi, sia un modo che Pechino ha per tergiversare. Allo stesso tempo, questo deal sorvola gli argomenti più spinosi come i sussidi statali e la tutela del mercato, strumenti su cui la Cina fa tradizionalmente affidamento per rafforzare le sue aziende.
Conseguenze per l’Europa
L’Unione europea non sarà immune dagli effetti derivanti dalla conclusione dell’accordo. Gli scambi dell’UE con Cina e Stati Uniti rappresentano infatti un terzo dei volumi complessivi del commercio europeo (17,2% con Washington e 15,4% con Pechino). La guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti aveva prodotto, nel corso dell’ultimo anno, una parziale diversione del commercio con i due Paesi che avevano sostituito le importazioni reciproche con quelle provenienti da Paesi terzi, come l’Unione europea. Nel 2019, le importazioni americane di prodotti cinesi colpiti da tariffe sono diminuite in media del 25%. Secondo stime UNCTAD ad esempio nel primo semestre 2019, gli Stati Uniti hanno sostituito l’import da Pechino con $21 miliardi da altri Paesi, Europa in primis. Di questo importo, l’Unione europea ha intercettato circa $2,7 miliardi, in particolare nel settore dei macchinari per l’industria. La conclusione dell’accordo potrebbe quindi ridurre progressivamente le maggiori esportazioni europee verso Stati Uniti e Cina, portando ad un aumento progressivo dei reciproci acquisti. Inoltre, l’impegno cinese ad acquistare prodotti americani per un valore di $200 miliardi potrebbe andare a svantaggio e in sostituzione dei prodotti europei: l’UE soffrirebbe in particolare nel campo dei beni industriali e agricoli: i cinesi si impegnano ad aumentare gli acquisti dagli Stati Uniti rispettivamente di $77,7 e $32 miliardi.
L’accordo potrebbe però portare anche benefici per gli europei, che godrebbero delle promesse riforme strutturali da parte cinese, parte di questa prima fase dell’accordo. Modifiche sostanziali nel campo della fine dei trasferimenti forzosi di tecnologia, di una maggiore protezione della proprietà intellettuale e di un aumento dell’accesso al mercato cinese dei servizi finanziari sono tasselli che vanno nella direzione di un level playing field più volte richiesto dalle autorità europee alla controparte cinese. Bruxelles, inoltre, trarrebbe benefici dall’allentamento delle tensioni commerciali globali che si tradurrebbe, nel medio periodo, in una maggiore crescita del volume degli scambi internazionali e quindi, in una maggiore crescita economica. Allo stesso tempo però l’allentamento delle tensioni sino-americane potrebbe indurre Trump a volgere lo sguardo in direzione dell’Europa e procedere all’imposizione delle già minacciate tariffe del 25% sulle auto europee, se un accordo complessivo con l’UE non venisse raggiunto. Un’eventualità che si tradurrebbe in notevoli danni per i produttori e per l’intera economia europea, e contribuirebbe ad ulteriore raffreddamento dei rapporti transatlantici.