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GUERRA COMMERCIALE

Trade: se il decoupling arriva dagli USA

Davide Tentori
30 novembre 2022

La discussione che si è originata negli ultimi mesi relativa al futuro della globalizzazione, sulla scia del secondo shock subito dal sistema economico mondiale in meno di tre anni (la guerra in Ucraina nel 2022, la pandemia nel 2020), è stata caratterizzata in molti casi da speculazioni accademiche sul possibile riassetto delle relazioni commerciali e dalla formulazione di scenari più o meno catastrofici, come ad esempio nel caso del recente saggio di Nouriel Roubini “Megathreats”. Si tratta di un dibattito fondato? Alcune evidenze verificatesi nelle ultime settimane sembrano sostenere l’ipotesi di una crescente frammentazione, circoscritta però ad alcuni settori strategici per l’interesse e la sicurezza nazionale delle principali potenze. Si tratta dei settori ad alta intensità tecnologica e che vertono sulla produzione dei semiconduttori, rispetto alla quale i “motori” si stavano riscaldando da diverso tempo. Ora, con le recenti restrizioni commerciali introdotte dagli Stati Uniti nei confronti della Cina, si può dire che la corsa sia ufficialmente iniziata. Siamo entrati in una nuova Guerra fredda, stavolta di natura commerciale?

 

Cosa è successo

Il 7 ottobre il Department of Commerce statunitense ha introdotto una serie di misure restrittive all’export di semiconduttori di tecnologia più avanzati e finalizzati alla produzione di “supercomputer” da applicare in settori specifici quali difesa e armamenti. Le misure consistono anche in un’espansione della lista di aziende cinesi a cui è vietato l’acquisto di prodotti americani in questi settori se non previa autorizzazione (tramite licenza) da parte delle autorità USA e nell’impedimento per persone fisiche statunitensi di fornire assistenza alle aziende cinesi operanti nel settore.

La mossa di Washington cerca di raggiungere due obiettivi: da un lato ritardare lo sviluppo dell’industria cinese dei semiconduttori più avanzati (ovvero quelli sotto i dieci nanometri di dimensione), dall’altro colpire la modernizzazione del settore della difesa. Il tutto privando Pechino dell’accesso sia alle tecnologie sia al know-how (attraverso il capitale umano, che è per l’appunto oggetto delle restrizioni). Non si tratta della prima restrizione commerciale da parte degli USA in questo campo: la mossa si inserisce infatti nel solco già intrapreso delle misure che gli USA avevano adottato per colpire Huawei a partire dal 2020. In questo caso però le restrizioni all’export colpiscono non una sola azienda ma l’intero settore, arrivando a mettere i bastoni tra le ruote ad alleati (ad esempio Taiwan tramite il colosso dei chips TSMC) o addirittura ad aziende americane (es. Intel) dato che a causa di queste misure non potranno più operare in Cina.

È interessante notare che nemmeno Donald Trump si era spinto fino a questo punto: il presidente repubblicano aveva adottato una postura aggressiva nei confronti della Cina, ma sulla base di un approccio negoziale. L’attuale amministrazione, invece, ha colpito duramente senza timore di danneggiare gli interessi di attori economici USA o di Paesi partner.

 

Le possibili ricadute

A causa dell’elevatissima interdipendenza lungo la supply chain dei semiconduttori (un esempio molto chiaro e concreto di quello che significa oggi “globalizzazione”) non è semplice isolare le possibili conseguenze delle misure statunitensi su un attore rispetto agli altri. Cerchiamo però di definire alcuni punti per poi analizzare quali potrebbero essere le contromosse e dunque le prospettive future della competizione per la leadership tecnologica globale.

Innanzitutto, dal lato degli Stati Uniti ogni collaborazione industriale tra aziende americane e cinesi nel settore è destinata a terminare. Come effetto immediato delle nuove restrizioni, i cittadini USA che lavorano in Cina per aziende hi-tech si stanno licenziando. L’impatto sul settore interno sarà misto: negativo per le aziende fornitori di Pechino (ad esempio il 27% delle vendite di Intel sono in Cina), positivo per altre che soffrono (o soffrivano) di concorrenza diretta dalla Cina (ad esempio Micron). Nel frattempo, gli USA stanno cercando di rafforzare l’industria nazionale dei semiconduttori: a luglio la Casa Bianca ha lanciato il CHIPS and Science Act che prevede 50 miliardi di dollari di investimenti pubblici; a settembre Joe Biden ha inaugurato un nuovo stabilimento di chip di Intel in Ohio costato 20 miliardi di dollari. Inoltre, gli USA stanno sussidiando anche altri settori ad alta intensità tecnologica, come quelli delle energie rinnovabili attraverso l’Inflation Reduction Act, che ha però sollevato perplessità e rimostranze da parte dell’Unione europea che giudica il provvedimento un esempio di concorrenza sleale e minaccia di sollevare la questione direttamente al livello della World Trade Organization (WTO).

E il punto di vista della Cina? Il governo di Pechino non si è ancora espresso ufficialmente sulla questione, ma ritorsioni di natura economica non si possono escludere. Le maggiori aziende del Paese operanti nel settore hanno convenuto sul fatto che le mosse di Biden avranno un effetto molto dannoso per l’industria cinese di semiconduttori. Le principali aziende cinesi (SMIC e YMTC) potrebbero subire un ritardo nel percorso di catch-up tecnologico variabile da 2 a 5 anni, secondo le stime di alcuni esperti. Al momento, infatti, la produzione interna di chip è in grado di soddisfare solo il 15% della domanda domestica. Infatti, quella dei chip è la prima voce di import cinese (circa 350 miliardi di dollari), addirittura superiore al petrolio (circa 230 miliardi) di cui è di gran lunga il primo importatore mondiale.

Va poi considerata la prospettiva di Taiwan, dove sono basati i principali produttori per i microchip più avanzati. Da un lato, Taipei può ora utilizzare in senso strategico questo vantaggio rafforzando ulteriormente la propria azienda campione TSMC (che da sola detiene il 55% della produzione globale di chip). Ma dall’altro lato l’isola potrebbe considerare negativamente le misure americane: gli USA vogliono che TSMC aumenti i propri investimenti negli USA, ma il governo taiwanese resiste anche perché non vuole perdere quote di export sul mercato cinese.

E infine c’è ovviamente l’Europa. L’UE al momento è l’attore più in ritardo nella partita dei semiconduttori. Lo European Chips Act al momento ha messo sul piatto solo 15 miliardi di euro. Nel frattempo, stanno arrivando investimenti privati significativi che porteranno alla creazione di poli dei semiconduttori anche in Italia, come dimostrano i recenti annunci di Intel, STMicroelectronics e Tower Semiconductor. Tali risorse non sembrano però sufficienti rispetto a quanto Stati Uniti e Cina possono stanziare. Per l’UE rafforzare le supply chains con gli USA sembrerebbe una strada obbligata, ma le imprese statunitensi non rispettano le stesse regole del gioco: il riferimento, come si accennava prima, è ai sussidi e aiuti di Stato che vengono forniti alle aziende americane attraverso l’Inflation Reduction Act. La Commissaria alla Concorrenza Margrethe Vestager si è lamentata pubblicamente e ne ha discusso con l’omologa statunitense Katherine Tai; sicuramente il tema della concorrenza sleale sarà al centro della terza riunione del Trade and Technology Council programmata a dicembre, nel tentativo di trovare un accordo che eviti un’escalation al WTO.

 

Il decoupling arriva… ma da Occidente?

Negli ultimi anni si è parlato molto di decoupling della Cina rispetto all’Occidente. In realtà, con queste misure sono gli USA che dimostrano di voler accelerare il distacco dal sistema produttivo cinese facendo leva sulle vulnerabilità e i ritardi di Pechino. L’approccio di Biden verso la Repubblica popolare sembra più “ideologico” e meno incline a negoziazioni/compromessi rispetto a quello di Trump. Se l’obiettivo è anche quello di ridurre l’enorme deficit commerciale di Washington nei confronti della Cina, va detto che tali misure potrebbero funzionare  solo per i settori tech considerati “strategici” e che sono stati oggetto di restrizioni commerciali. L’import dalla Cina in questi settori è crollato negli ultimi anni, ma per converso sono aumentate le importazioni di molti altri prodotti non soggetti a dazi o altre barriere (in genere beni manufatti di basso/medio valore aggiunto).

Dunque, cosa accadrà? Molto probabilmente assisteremo a una crescente divisione in blocchi, con regionalizzazione di filiere quantomeno nei settori hi-tech. Per la Cina l’export pesa sempre meno in rapporto al Pil (oggi è al 20% rispetto al 35% del 2007) e la tendenza tra i vari blocchi sarà quella di rendersi meno dipendenti gli uni dagli altri. Attenzione però, perché se da un lato gli USA cercano di tagliare fuori la Cina dalle fasi “a valle” della filiera dei chip, Pechino controlla ancora quelle “a monte”, ovvero le materie prime necessarie per realizzare i semiconduttori (la Cina detiene il 35% della capacità di raffinazione globale di nichel, tra il 50-70% di litio e cobalto e oltre il 90% di terre rare). Inoltre, non è affatto scontato che gli alleati occidentali seguano gli USA in questo allontanamento dalla Cina. Le aziende cinesi produttrici di semiconduttori dipendono in maniera vitale dalle importazioni di componenti chiave e stanno cercando nuovi fornitori alternativi agli USA. Aziende giapponesi come Hitachi e Tokyo Electron potrebbero subentrare a quelle americane e non è escluso che Pechino potrebbe cercare nuovi fornitori anche in Europa: del resto, la recente visita di Scholz a Xi Jinping ha testimoniato che la Germania non è disposta a rinunciare ai propri enormi interessi in Cina. Nel frattempo, la taiwanese TSMC ha annunciato che amplierà il proprio stabilimento in Arizona per produrre chip ancora più piccoli e performanti (fino a 3 nanometri di dimensione!). La parola d’ordine, però, non sembra essere “sostituzione” bensì “diversificazione”, dato che il colosso taiwanese non vuole perdere l'accesso al mercato cinese.

La strategia degli USA non è dunque priva di rischi. In questo momento, anche alla luce delle difficoltà economiche cinesi, sa di poter avere un margine di vantaggio su Xi Jinping limitatamente a questi settori: infatti, nonostante il parziale “disgelo” bilaterale che c’è stato ai margini del G20 di Bali, gli USA hanno affondato nuovamente il colpo definendo Pechino, nel recente rapporto annuale della US-China Economic Security and Review Commission, come una “potenza ostile”, arrivando persino a ventilare l’ipotesi di revocare a Pechino lo status di nazione più favorita in ambito WTO. Tuttavia, tirare troppo la corda in questo ambito rischia di aprire un altro fronte commerciale con l’UE, proprio in un momento in cui le dispute di alcuni anni fa sembravano essere definitivamente archiviate. Washington dunque non riuscirà a realizzare la “nuova globalizzazione” che ha in mente se non cercherà un coordinamento preventivo ed efficace con i propri alleati.

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Davide Tentori
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