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ENERGIA

Transizione green: ostaggio di guerra

Massimo Nicolazzi
01 aprile 2022

C’era una volta la decarbonizzazione. E la sua priorità per la salvezza del mondo. Poi fu la guerra; e mentre scriviamo ancora dura. E non è chiarissimo se acceleri il nostro distacco dai fossili oppure non rischi di prolungare il nostro esserne ostaggi.

Con quel che sta significando e significherà per famiglie e imprese la spirale dei prezzi del fossile (petrolio e gas ci toccano più da vicino; ma anche il prezzo del carbone è ai massimi storici) che oggi ne siamo ostaggi è ormai convinzione generale. E che qualcosa, anche indipendentemente dal tema ambientale, ci si debba provare a fare è pure evidente. Non possiamo reggere la volatilità di risorse che ancora costituiscono l’80% delle fonti dell’energia che ci è disponibile. E posto che non possiamo in futuro controllare la volatilità, l’unico percorso possibile è quello di ridurne l’impiego sostituendole con altro.

 

Tutta colpa della guerra?

In punto di volatilità può servire sottolineare come l’ascesa al cielo dei prezzi con la guerra c’entri abbastanza poco. Il gas ad aprile 2021 era a 18 €/MWh; il 21 dicembre ha toccato 128. E il 21 Dicembre nessuno o quasi si immaginava l’imminenza dell’invasione.  Poi è vero che la guerra lo ha fatto brevemente schizzare fino a 227; ma il problema preesisteva. Il picco del 2021 era alimentato da fattori di mercato che avevano creato la tempesta perfetta; il picco di guerra dall’abitudine del mercato ad anticipare ciò che poi spesso non succede. Tutti ad anticipare la chiusura dei rubinetti; mentre in realtà dall’inizio della guerra i volumi che ci sono arrivati dalla Russia anche via Ucraina sono sia pur leggermente aumentati. L’anomalia della guerra è che è andato temporaneamente in scena in prima mondiale uno spettacolo in cui, a parità di consumi, i prezzi salivano al crescere dell’offerta.

E così il gas, nel giro di dodici mesi, è aumentato di prezzo del 600%; nel mentre il petrolio si limitava a raddoppiare. Il che però è bastato a mettere in questione il funzionamento della nostra logistica e in particolare dell’autotrasporto.

La guerra accentua in definitiva una volatilità che comunque è ormai e per tante ragioni una caratteristica strutturale del mercato dei fossili. Ci dà solo una ragione di più per farne a meno appena possibile; e dunque in questo senso dovrebbe essere considerata un potenziale acceleratore di transizione.

 

Non c’è transizione senza sostegno pubblico

Qui però cominciano i problemi. Il primo è che la transizione, se la lasci al mercato, neanche va a incominciare. Serve un “sostegno pubblico” che, in tutte le forme (dal sussidio alla concessione al finanziamento e a quant’altro) in cui può declinarsi, finisce per tradursi o in aumento dei prezzi (la carbon tax si incorpora nel prezzo del bene; e la remunerazione del capitale del concessionario finisce diritta sulla bolletta della “Signora Gina”) o in aumento del debito pubblico. Veniamo da un Covid ancora in corso; e siamo alla verticalizzazione del grafico del prezzo dell’energia e ad una ripartenza che potrebbe non essere momentanea della spinta inflattiva. La voglia di transizione la guerra forse l’aumenta; ma ci obbliga a impegnare altrove fondi che ci servirebbero a finanziarla. Il lockdown ha costretto alla moltiplicazione dei sostegni al consumo; e il rincaro del fossile a sostegni di limitazione della povertà energetica e di supporto alla mobilità. Il Green Deal europeo aveva fatto da levatrice a fondi di resilienza; e poi la spesa è stata spesa di resistenza.

 

Questione di tecnologia

Poi c’è un problema tecnico, o meglio tecnologico. Molte cose che senza i fossili non siamo ancora capaci di fare; e molte cose che per fare a meno dei fossili dobbiamo cambiare.

Restiamo per esempio al gas. In qualche settore hard to abate per un po’ resta insostituibile. Aspettando l’idrogeno “Godot” l’ILVA senza gas chiude; e così di seguito per altri usi industriali. Nel civile la “Signora Gina”, che a fine mese ci arriva solo per oculatezza, dubito cambi boiler e cucina a gas giusto perché spinta da patriottismo climatico; e le pompe di calore, seppure dovrebbero essere obbligatorie per le nuove costruzioni, si dubita possano e magari celermente sostituirsi alle caldaie. Infine l’elettrico. Dove, aspettando che gli accumulatori accumulino, non riusciremo per un po’ a fare a meno del gas per il bilanciamento della rete.

L’uscita deve essere possibilmente rapida; ma necessariamente progressiva. Di quanto gas abbiamo bisogno e per quanto dovrebbe essere definizione che accompagna la transizione. Ricordandoci che non possiamo agire solo sul lato dell’offerta. Se cessiamo di produrre c’è il rischio che l’insostituibile scarseggi; con conseguenze che rischiano di far impallidire i prezzi di oggi e tutte le conseguenze del caso.

Qui però la guerra ha cambiato la priorità visuale. Prima il focus era tout court climatico. Il disegno del modo più efficiente e insieme rapido (ammesso e non concesso che le due cose vadano assieme) di decarbonizzazione. Adesso la priorità visuale è cambiata. Non solo quanto, ma “quale” gas.

 

Dipendenza o equilibrio?

Il 24 febbraio mi è cambiato il mondo. Mio nonno ha perso un occhio nella Prima Guerra Mondiale. Papà era partigiano. Anche grazie a loro sono arrivato alla mia (quasi) veneranda età senza mai contemplare la possibilità stessa di una nuova guerra europea (la Jugoslavia, a torto o a ragione, l’abbiamo tutti vissuta come un conflitto locale). Il 24 febbraio è stata la mia prima volta.

Sin lì avevo respinto quasi con fastidio il parlare di nostra “dipendenza” dalla Russia. Nel 2021 la Russia ha incassato quasi 231 miliardi di dollari dall’esportazione di idrocarburi (e un po’ più di 25 da quella di carbone). Le relative entrate fiscali hanno rappresentato sino al 50% dell’intero budget federale. Noi ci riscaldiamo e produciamo piastrelle (e altro…); e loro si finanziano welfare e investimenti. Più che dipendenza mi pareva condizione di equilibrio. Poi il 24 febbraio abbiamo toccato con mano che importando i loro fossili, oltre al welfare, gli finanziamo anche la guerra; e per di più una di quelle guerre di potenza per il controllo e la conquista di territorio che ritenevamo in Europa tipologia bellica estinta nell’altro secolo.

Abbiamo sanzionato. Sapendo peraltro che quella che per il governo russo sarebbe stata “la” sanzione non la potevamo sanzionare. Lo stop all’importazione di idrocarburi dalla Russia potevano sanzionarlo entusiasticamente solo coloro (USA, Canada…) che appunto già non importano idrocarburi russi. Noi, che stiamo in Europa dalle parti del 40% di import di gas e del 20% di petrolio, al massimo adelante con juicio (y si puedes…). 

Da qui il panico dei mercati per la potenziale chiusura del rubinetto. Però occorre rovesciare la trama. Eccetto che per disperazione, non sarà il fornitore a chiudere. Quello che dal fossile incassa è quello che nella condizione dell’oggi lo tiene in vita.

La palla è nel nostro campo. La chiusura possiamo deciderla (quasi) solo noi. Si può cercare di renderla progressiva; ma il 24 febbraio la rende comunque in prospettiva doverosa.

La priorità climatica si fa priorità politica. Il gas insostituibile deve diventare gas “altro” dal russo. Poi sappiamo che domattina non potremmo permettercelo, e che in caso il prossimo inverno dovremmo - secondo le stime più accreditate - ridurre di botto i nostri consumi di un 15%. E sappiamo anche che, se marciamo progressivamente ma inequivocabilmente verso l’uscita, potremmo a un certo punto indurre il fornitore alla rappresaglia disperata della chiusura. Percorso doveroso; ma comunque rischioso.

Se non morire almeno rabbrividire per Kyiv è comunque un rischio che dobbiamo prenderci se non vogliamo ridurre a parola il nostro reagire. Non so se la guerra infine aiuterà o meno la spinta alla decarbonizzazione.

So però che ci lascia come legato l’imperativo della derussificazione del fossile che ci resta.

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AUTORI

Massimo Nicolazzi
ISPI e Università di Torino

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