Negli anni a ridosso della crisi dei debiti sovrani nell’Eurozona, molti economisti hanno parlato di una possibile ‘giapponificazione’ dell’area, cioè della tendenza a mostrare caratteristiche simili a quanto osservato in Giappone nel ‘decennio perduto’ in termini di crescita reale bassa, persistente ed autoalimentante, associata a tassi di inflazione modesti o addirittura negativi, a rendimenti governativi contenuti e a curve piatte.
Con il lancio del programma di quantitative easing (QE) di titoli di stato da parte della BCE nel 2015 l’economia europea ha cambiato marcia e ha iniziato a crescere molto al di sopra del proprio potenziale, fino ad un picco di 2,4% nel 2017, spegnendo di conseguenza tale dibattito. Dalla metà del 2018 l’Eurozona sta invece conoscendo una nuova fase di stallo della crescita dovuta alla concomitanza di diversi fattori, fra cui le guerre commerciali fra Stati Uniti e Cina, con conseguente rallentamento del commercio globale.
Confrontando attentamente la situazione europea odierna con l’esperienza giapponese, emergono similitudini e differenze. Fra le similitudini segnaliamo:
- Entrambe le economie sono state colpite da una serie di shock di domanda negativi che hanno spinto i tassi ufficiali a zero o, nel caso del tasso di deposito europeo, addirittura in territorio negativo. Tali shock sono stati la crisi finanziaria del Sud-Est asiatico a fine anni Novanta nel caso del Giappone, mentre nel caso dell’Eurozona il fallimento di Lehman Brothers nel 2008 e la crisi dei debiti sovrani nel 2011-12. In entrambi i casi, forti avanzi di partite correnti hanno esposto le economie a shock esterni, come l’attuale guerra dei dazi o repentine fluttuazioni dei tassi di cambio.
- Entrambe le economie presentano debolezze strutturali come l’invecchiamento della popolazione con conseguente aumento del tasso di dipendenza (rapporto fra numero di persone sopra i 64 anni e quelle in età lavorativa) e riduzione del saggio di partecipazione della forza lavoro. Quest’ultimo influisce sulla crescita potenziale dell’economia deprimendola, insieme all’andamento della produttività.
- Tentennamenti e ritardi da parte delle autorità a intervenire hanno peggiorato la situazione. In Giappone non si è affrontato tempestivamente il problema dei crediti incagliati delle banche, mentre nell’ Eurozona si è creato un meccanismo unico di risoluzione delle crisi bancarie solamente dal 2012 e l’Unione bancaria resta ad oggi incompleta. In alcuni casi la politica fiscale può avere esasperato la situazione: in Giappone le autorità fiscali hanno precipitato la situazione con l’aumento della tassa sui consumi del 1997. In modo simile, la restrizione fiscale attuata nell’Eurozona per rimettere in sesto i bilanci statali dopo i salvataggi bancari sembra avere avuto un effetto prociclico di esasperazione della recessione.
La presenza di tali similitudini non significa tuttavia che una giapponificazione dell’Europa sia inevitabile. Sono infatti presenti anche differenze significative fra le due realtà:
- L’attuale scenario di inflazione nell’Eurozona è migliore di quanto osservato in Giappone a inizio anni Novanta. Infatti, in Europa si è riusciti a evitare la spirale deflazionistica. Inoltre, la struttura del mercato del lavoro europeo è più rigida di quella giapponese e difficilmente permetterà un calo dei salari simile a quanto osservato in Giappone.
- Inoltre, le autorità europee hanno davanti l’esempio del Paese del Sol levante e della banca centrale giapponese per riuscire a formulare risposte veloci a potenziali shock avversi. Di conseguenza, le aspettative di inflazione ed i prezzi degli asset si stanno mostrando più resistenti in Europa di quanto accaduto in Giappone.
Nonostante tali differenze, l’Eurozona resta in una posizione vulnerabile a nostro avviso e le autorità devono restare vigili. Infatti, con il rallentamento economico in atto, può essere sufficiente un ulteriore shock per spingere l’area in recessione (ad esempio, l’imposizione di dazi da parte degli Stati Uniti sulle importazioni di auto europee oppure una ‘hard Brexit’). In assenza di un’adeguata risposta a tale shock, il rischio di caduta in una spirale di bassa crescita e bassa inflazione che si autoalimentano è elevato.
Oggi l’inflazione è generalmente più bassa a livello globale di quanto non fosse negli anni Novanta e questo mette l’Eurozona in una particolare posizione di vulnerabilità. Le maggiori banche centrali mondiali – fra cui la BCE – non sono riuscite a raggiungere il proprio target di inflazione negli ultimi anni, con i dati effettivi a lungo sotto target. Inoltre, dopo un periodo di ripresa coinciso con il recupero dell’attività economica del 2016-17, le aspettative di inflazione nell’Eurozona hanno recentemente iniziato a scendere di nuovo, tanto da spingere la BCE ad annunciare un nuovo stimolo monetario. In ogni caso, lo spazio ancora disponibile alla politica monetaria per stimolare ulteriormente la crescita nell’ Eurozona appare limitato.
Anche i tassi reali globali sono generalmente più bassi oggi di quanto non fossero negli anni Novanta, compreso il cosiddetto ‘tasso reale neutrale’, cioè quel tasso che permette a un’economia di crescere a potenziale e all’inflazione di essere a target. Quest’ultimo è un concetto puramente teorico ed è difficile da misurare, ma riveste comunque un’importanza significativa nella condotta della politica monetaria. Infatti, dalla sua stima dipende la misura del grado di stimolo monetario. In uno scenario di tassi globali bassi, shock deflazionistici possono facilmente trasformarsi in problemi strutturali.
Contrariamente all’esperienza giapponese, la situazione europea rivela anche complesse sfide istituzionali. Infatti, nell’Eurozona i paesi in deficit fiscale sono costretti a restringere la politica fiscale in risposta a shock avversi, esacerbando la debolezza economica con politiche procicliche. Contemporaneamente, i paesi con spazio fiscale non sono obbligati a usarlo per stimolare la domanda domestica. In conclusione, non esiste oggi nell’Eurozona un meccanismo istituzionale che garantisca una posizione fiscale aggregata dell’area adatta a evitare una recessione. Quindi, quando si manifestano shock negativi, l’Eurozona presenta la tendenza ad aggiustarsi al ribasso, con un calo della domanda aggregata dell’intera area, disinflazione e tassi di interesse in calo, verso una ‘trappola della liquidità’ in stile giapponese.
Inoltre, una riduzione della domanda nei paesi periferici dell’area a fronte di un aumento dei loro risparmi andrà a sommarsi a un eccesso di risparmio strutturale nei paesi core, contribuendo alla creazione di sbilanci a livello globale.
A livello politico, una delle principali sfide per la nuova Commissione Europea che si installerà a novembre sarà quella di completare e riformare l’architettura istituzionale europea. Sebbene la nuova Presidente della Commissione Ursula Von der Leyen appaia propensa a intraprendere tale strada, il percorso non sarà facile anche a causa dell’elevata frammentazione nel nuovo Parlamento europeo.
Infine, lo spettro della giapponificazione pone la domanda di quale sia il rimedio più adatto: un’ulteriore dose della stessa medicina (politica monetaria espansiva insieme ad un allentamento di politica fiscale) sarà appropriata oppure rischia di diventare parte stessa del problema? Quale potrebbe essere una terapia alternativa?
Nel caso dell’Eurozona pensiamo che la medicina tradizionale possa ancora giocare un ruolo importante, con l’avvertenza che il ‘dosaggio’ fra politica monetaria e fiscale debba però cambiare. Infatti, è ora il turno della politica fiscale di dare un contributo maggiore rispetto a quanto accaduto in passato. Anche le riforme strutturali dovranno fare progressi significativi, soprattutto in quei paesi periferici che sono rimasti indietro su tale strada, come l’Italia.