Non era scontato. E forse anche su quello poggiava l’iniziale ottimismo di Vladimir Putin relativamente alla possibilità di promuovere un’operazione militare rapida e dai bassi costi, politici e militari, capace di rovesciare il governo ucraino, riportando il Paese sotto la tutela russa. E invece gli Stati Uniti e i loro alleati europei si sono immediatamente compattati in un blocco atlantico capace di ritrovare un’unità d’intenti da tempo assente, di isolare Mosca e di attivare misure non banali atte a punire duramente l’aggressore e sostenere, anche militarmente, l’aggredito.
Compatti contro Mosca, con interessi diversi
Certo, vi è una soglia oltre la quale gli USA e l’Europa non possono spingersi: quella che in qualche modo rischi di metterli in collisione diretta con la Russia, provocando una internazionalizzazione del conflitto dalle conseguenze potenzialmente terrificanti. E però ciò cui abbiamo assistito non era in alcun modo dato e inevitabile. Profonda era (e in una certa misura rimane) la diversità d’interessi tra Stati Uniti e Unione Europea rispetto alla Russia, di cui l’UE è – per distacco – sia la maggiore fonte d’investimenti diretti esteri sia il principale partner commerciale (contando per quasi il 40% del commercio estero russo, laddove gli USA si attestano attorno al 3-4%). Molto più forte era, ed è, la dipendenza energetica europea dalle risorse, gas e petrolio, di cui dispone Mosca e che costituiscono la maggioranza di quelle importate nella UE (circa il 30% del petrolio e il 40% del gas che arrivano nei Paesi dell’Unione Europea sono di origine russa). Minore, infine, era secondo i sondaggi l’ostilità di tante opinioni pubbliche nazionali europei nei confronti della Russia e dello stesso Vladimir Putin rispetto agli USA, con alcuni Paesi – Italia in particolare – contraddistinti dai sentimenti esplicitamente filorussi di alcuni pezzi non marginali del suo elettorato e mondo politico.
La brutale aggressione russa ha non solo messo la sordina a queste differenze ma sembra aver offerto uno dei collanti storicamente più funzionali nel cementare un’alleanza e darle una missione: l’esistenza di un nemico totale e assoluto, trasformatosi da interlocutore problematico e difficile in vera e propria minaccia esistenziale. Sotto una leadership statunitense abile anche nel condurre un’intensa campagna di diplomazia pubblica, i Paesi europei hanno rapidamente abbandonato remore e ambiguità, approvando piani accelerati di riarmo, trasferendo armamenti sosfisticati all’Ucraina per permetterle di resistere all’aggressione, concordando sanzioni senza precedenti contro la Russia e sospendendo programmi di collaborazione con Mosca a lungo presentati come strategicamente vitali e non negoziabili (è questo, ad esempio, il celebre caso del gasdotto Nord Stream 2, che attraverso il Mar Baltico collega la Germania alla Russia e rispetto al quale l’amministrazione Biden, con una concessione assai rilevante all’alleato tedesco, aveva inizialmente sollevato le sue resistenze in nome del ripristino di buone relazioni con l’Europa).
I motivi alla base della ritrovata coesione
Come si spiega questa rinnovata coesione transatlantica? Quanto è davvero solida? E che problemi si pongono per il suo futuro?
Le spiegazioni sono in una certa misura semplici. Quella di Putin è a tutti gli effetti una sfida estrema all’ordine securitario NATO-centrico e a leadership statunitense ripensato e adattato nell’Europa del dopo Guerra Fredda. È un atto radicale di revisionismo che, preoccupazione condivisa e legittima, potrebbe non limitarsi all’Ucraina e rispondere ad ambizioni ben più ampie, di ricostituzione di una larga sfera d’influenza russa in Europa centro-orientale o, addirittura, di espansione neo-imperiale. Non rispondere o accondiscendere – si ritiene a Washington e nelle principali capitali europee – significherebbe sacrificare qualsiasi capitale di credibilità: costituirebbe una forma contemporanea di appeasement controproducente e autolesionista. A ciò si aggiunge il carattere di una guerra nella quale è davvero facile distinguere l’aggressore dall’aggredito, il carnefice dalla vittima, chi i civili li bombarda e chi li vede morire. L’azione militare rapida e quasi indolore immaginata e presumibilmente prevista da Putin e dai suoi consiglieri ha rapidamente lasciato spazio a una guerra d’attrito nella quale questa natura binaria del conflitto si manifesta in maniera quasi plastica, alimentando quindi la denuncia di Putin e l’ostilità nei suoi confronti. Nelle democrazie dello spazio transatlantico cioè contribuisce, come è normale che sia, a uno schieramento politico sempre più anti-russo anche tra quelle forze politiche – si pensi in Italia alla Lega di Matteo Salvini o, in Francia, al Rassemblement National di Marine Le Pen – dove più comuni erano le posizioni filo-Putin.
Infine, ha agito il convincimento che – risultando impossibile non schierarsi – fosse indispensabile per i partner di Washington essere pienamente coinvolti nell’iniziativa transatlantica per poter avere voce in capitolo nei negoziati che accompagnano inevitabilmente l’incedere degli eventi militari e che decideranno il futuro dell’Ucraina e dei rapporti con la Russia. Non si spiegherebbe altrimenti l’attivismo dei principali Paesi europei, Francia e Germania su tutti, e della stessa Unione Europea che ha utilizzato anche questa crisi per cercare di ritagliarsi un proprio autonomo profilo in materia di politica estera e di sicurezza.
Sul breve periodo, questa coesione transatlantica sembra avere sortito degli effetti anche se le due variabili cruciali – propedeutiche alla sua stessa realizzazione – sembrano essere stati gli errori di calcolo di Putin e l’inattesa, e certo straordinaria, resistenza ucraina. Allo stallo e alla drammatica escalation che ne sono conseguiti hanno nondimeno contribuito le iniziative degli USA e dei loro alleati europei, aiutando l’Ucraina, contribuendo a gestire il monumentale esodo di profughi provocato dal conflitto e, soprattutto, adottando sanzioni pesantemente punitive che hanno spinto la Russia sull’orlo del default.
E però le incognite rimangono, alcune piccole crepe in questa coesione transatlantica hanno iniziato a manifestarsi, e la guerra e quel che ne seguirà sono destinati a mettere il fronte euro-americano di fronte a questioni nuove e complesse.
Alla prova di nuove sfide
Per convenienza analitica, possiamo raggruppare queste sfide in tre grandi categorie, ognuna con la sua specifica temporalità.
La prima, immediata, è come gestire due Europe che, sia pure riunite dalla guerra, continuano ad avere posizioni diverse. Da un lato c’è un fronte di Paesi in Europa centro-orientale, guidati dai Baltici e dalla Polonia, che invoca un innalzamento ulteriore della soglia dell’intervento euro-statunitense anche a costo di rischiare una pericolosissima internazionalizzazione del conflitto. Fronte che, in caso di sconfitta russa, difficilmente accetterà di non farla seguire da politiche pesantemente punitive nei confronti di Mosca. E fronte che tende ovviamente a entrare in rotta di collisione con chi – Germania e Francia in particolare – adotta una linea diversa e, soprattutto nel caso del Presidente francese Emmanuel Macron, continua a cercare una qualche soluzione negoziale. Sullo sfondo resterà poi la questione immensamente complessa dell’eventuale apertura del percorso di adesione dell’Ucraina alla UE, rispetto al quale queste divergenze sono altresì nette e visibili.
La seconda, di periodo invece medio, rimanda alla effettiva conciliabilità degli interessi statunitensi ed europei, ovvero alla complementarità o meno delle loro politiche securitarie. Si è giustamente sottolineato come la crisi abbia indotto finalmente l’Europa a uscire dal torpore e accettare di aumentare investimenti e capacità militari. E però ciò è appunto avvenuto dentro un contesto di coesione transatlantica e leadership statunitense: dentro un rilancio della NATO, insomma, più che attraverso le forme di autonomia strategica europea spesso invocate da Macron (non ultimo per rafforzare il peso relativo della Francia nella UE e bilanciare così il primato tedesco).
La terza è quella invece più futuribile e concerne gli equilibri globali e la loro governance. La guerra in Ucraina è stata usata dall’amministrazione Biden come validazione di un discorso e di un’ideologia di politica estera per il quale il confine fondamentale che divide oggi la comunità internazionale è quello tra democrazie e autoritarismi: tra un rinnovato fronte euro-statunitense e i loro tanti alleati nel mondo da un lato e il possibile asse tra Cina e Russia dall’altro. Si tratta di una narrazione binaria, semplicistica e non poco problematica, come proprio la diplomazia di questa guerra – e il graduale coinvolgimento della stessa Cina – ben ci mostrano. Una narrazione che sembra dimenticare come questa grande comunità di democrazie non dispone più delle risorse – economiche, militari, demografiche – per condurre e vincere crociate globali; che ripensare e aggiornare gli strumenti di governance del sistema internazionale impone il coinvolgimento di tutti gli attori del sistema; che la profondità dell’integrazione economica mondiale rende quasi impossibile circoscrivere conflitti come quello ucraino, come ben evidenziano proprio i riverberi radicali e immediati delle misure adottate contro la Russia; e che, infine, questo ricompattamento transatlantico guidato dagli Stati Uniti più che a una nuova leadership democratica ed euro-statunitense rischia di preludere alla formazione di un sistema d’interdipendenze “tribali” e regionalizzate: un mondo – volatile e non poco pericoloso – diviso in blocchi competitivi, antagonistici e mobilitati gli uni contro gli altri.