La campagna presidenziale 2016 si è configurata come la più anomala degli ultimi decenni. Il successo alle primarie democratiche del “socialista” Bernie Sanders e la conquista della candidatura repubblicana del “populista” Donald Trump hanno significato la comparsa di personaggi eccentrici rispetto alle principali tradizioni politiche dei due partiti.
L’ascesa di Trump, fuori e contro buona parte della classe dirigente repubblicana, va inquadrata nel deterioramento delle condizioni socioeconomiche e nella riproposizione di una forte identità bianca in settori della popolazione americana. La crisi del 2008 ha lasciato dietro di sé l’impoverimento della classe media bianca e l’aumento dell’ineguaglianza tra ricchi e ceti medio-bassi insieme al timore per il futuro di molti giovani.
Il fenomeno Trump non è però del tutto nuovo nella storia politica degli Stati Uniti perché alla base del suo successo vi sono le ricorrenti tendenze dell’anti-intellettualismo e dell’anti-elitismo che anche in passato hanno rappresentato una potente molla politica “contro Washington”. Molto più che a Ronald Reagan, il tycoon può essere ricondotto al lontano movimento nativista Know-Nothing, che a metà ‘800 intendeva limitare l’influenza degli immigrati, e al governatore della Lousiana, il demagogo Huey Long che, pur sembrando un ciarlatano e buffone, si dimostrò durante il New Deal un astuto politico capace di sfruttare la rabbia dei bianchi delle classi meno abbienti di fronte alla Depressione.
A noi tuttavia pare che sia stata una parte importante degli attuali repubblicani ad aprire la strada a Trump sull’onda della progressiva radicalizzazione del partito. Gli esponenti del Tea Party, una vaga etichetta che denomina la parte più conservatrice e bigotta del partito, hanno conquistato nell’ultima stagione la maggioranza in Congresso imponendo uno scontro senza precedenti con la Presidenza. La drastica opposizione a Obama, accusato di essere un presidente “illegale”, formalmente per questioni di nascita ma sostanzialmente per il colore della pelle, è stata il presupposto del successo di Trump che ha ancor più accentuato la logica dell’attacco frontale.
La sua campagna finora imperniata su parole d’ordine generiche ha toccato alcune vene profonde dello spirito americano: con il populismo ha esaltato la distanza dai “politicanti di Washington” a cui sono stati assimilati i rivali del suo partito; con il protezionismo ha istigato la classe media impoverita contro le élite di Wall Street; con l’isolazionismo ha polemizzato contro la globalizzazione e la Cina, responsabili dei danni ai lavoratori americani. E, con l’esaltazione della “grande America”, ha fatto leva sull’orgoglio sciovinistico della nazione bianca contro il presidente nero “che va in giro per il mondo a chiedere scusa”.
Così la principale chiave della fortuna di Trump è stata il richiamo all’identità del gruppo bianco, ritenuto in declino sotto la pressione demografica e l’aumento del peso dei non-bianchi. La polemica contro gli immigrati e i diversi (messicani, islamici, neri) che ha sfiorato anche l’antisemitismo, il richiamo alla “legge e ordine”, l’esaltazione delle armi per tutti, e la solidarietà alle polizie locali sotto l’attacco razziale, sono stati tutti elementi del puzzle identitario che ha fatto leva su quella parte dei bianchi che, con Trump, si sono sentiti al centro della vita politica americana contro le suggestioni del multiculturalismo.
A favore di Trump si è mobilitato nelle primarie un nuovo elettorato repubblicano, intenso e militante che tuttavia non rappresenta più di un quarto di quello necessario a vincere il voto popolare finale dell’8 novembre. Ora, colui che è stato nominato candidato repubblicano alla convention di Cleveland, dovrà portare a votare sia l’altra parte dei potenziali elettori repubblicani che fin qui non lo hanno appoggiato, sia un settore significativo dei registrati “indipendenti” che, alla resa dei conti, farà pesare il piatto della bilancia elettorale da una parte o dall’altra.
Per fare il pieno repubblicano, Trump dovrà inoltre recuperare il sostegno di quella nomenclatura del partito che gli è estranea. Un’operazione tutt’altro che facile che non potrà che procedere insieme alla riappropriazione di alcuni dei temi tradizionali del Grand Old Party. È tuttavia probabile che, dati gli eventi delle ultime settimane, il riacutizzarsi degli scontri razziali valorizzerà il peso dell’identità bianca agitata magistralmente da Trump. La fase cruciale della campagna elettorale che può riservare altre sorprese inizierà, tuttavia, solo a settembre.
Massimo Teodori, storico e americanista