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Diplomazia USA

Trump e i Balcani: il non-accordo tra Kosovo e Serbia

Giorgio Fruscione
07 settembre 2020

È stato presentato come “Accordo storico” – l’ennesimo dell’amministrazione Trump – ma di storico ha ben poco. E, di fatto, non è nemmeno un accordo. Il meeting di venerdì scorso alla Casa Bianca tra il premier del Kosovo Avdullah Hoti e il presidente serbo Aleksandar Vucic sancisce solo la vittoria della dottrina di Donald Trump in politica estera, imponendola unilateralmente a Belgrado e Pristina, non offrendo un reale progresso ai rapporti tra i due paesi.

Tra i due litiganti, Israele gode

Nonostante fosse stato presentato come accordo per la “normalizzazione economica”, i giorni precedenti all’incontro era stata creata molta più aspettativa e, tra i media in Serbia, erano circolate diverse speculazioni: alla vigilia il presidente Vucic avrebbe ricevuto pressioni affinché accettasse il punto che prevedeva il mutuo riconoscimento tra Kosovo e Serbia. In particolare, si avvertiva che qualora Trump avesse partecipato all’incontro si sarebbe arrivati alla firma senza tergiversare. Trump alla fine ha partecipato, ma invece del riconoscimento tra Belgrado e Pristina, si è arrivati al mutuo riconoscimento tra Kosovo e Israele.
Il documento finale contiene diversi punti che apportano pochi benefici diretti ai due paesi balcanici, ma smuovono invece gli equilibri in Medio Oriente, bilanciandoli in favore dell’asse tra Washington e Tel Aviv, anzi Gerusalemme. Serbia e Kosovo si sono infatti impegnate ad aprire le proprie ambasciate nella Città Santa: risultando, rispettivamente, il primo paese europeo e il primo “a maggioranza musulmana” – come enfatizzano alla Casa Bianca – a compiere tale mossa.
Inoltre, i due paesi inseriranno Hezbollah nelle proprie liste di organizzazioni terroristiche. Sono questi gli esiti più importanti del meeting di Washington: una vittoria per Israele, anche se non vi ha partecipato, e dell’unilateralismo che fa seguito al piano di pace di Trump per il Medio Oriente.

 

Un goccio di normalizzazione in un’insalata di impegni

I primi punti del documento prevedono la realizzazione dei collegamenti stradali e ferroviari tra Belgrado e Pristina, come già sancito a febbraio scorso. Inoltre, si prevede la regolarizzazione del passaggio di frontiera di Merdare; così come l’impegno di entrambi i paesi ad aderire alla “mini-Schengen”, area di libero scambio voluta l’ottobre scorso tra Albania, Nord Macedonia e Serbia. Si tratta degli unici punti che possono timidamente contribuire alla normalizzazione degli scambi commerciali dopo lo stop di un anno e mezzo seguito all’imposizione di Pristina di dazi del 100% sulle merci serbe e bosniache. Eppure, a tal proposito non vengono forniti ulteriori dettagli o linee guida. Che non mancano invece per il lancio della cooperazione con la US International Development Finance Corporation (DFC) e la EXIM per la realizzazione delle suddette infrastrutture e di altri progetti. Ma si tratterà più di una cooperazione tra Stati Uniti e Serbia, dove la DFC aprirà una nuova sede, che di una normalizzazione dei rapporti col Kosovo.
Sul fronte internazionale, infine, i due paesi hanno sottoscritto una moratoria di un anno: Pristina non farà nuove domande di ingresso in organismi internazionali, mentre Belgrado interromperà la campagna diplomatica per far ritirare il riconoscimento della sovranità del Kosovo. Un punto che rivoluziona il ruolo di partner degli Stati Uniti, che fin qui erano stati il principale sponsor dell’indipendenza kosovara.

Gli altri punti del documento non contribuiscono alla normalizzazione politica tra Belgrado e Pristina, e offrono poco sotto il profilo economico. In particolare, vengono messe insieme questioni che hanno poco a che fare tra loro e hanno dubbia rilevanza per la regione balcanica. Ad esempio, Kosovo e Serbia si impegnano a “lavorare con i 69 paesi che criminalizzano l’omosessualità, per promuoverne la decriminalizzazione”. Un punto che non si capisce cosa c’entri con la normalizzazione economica tra i due paesi, né come essi possano contribuire in tale battaglia, visti anche i problemi domestici di discriminazione contro i soggetti LGBT. Più interessante risulta invece l’impegno a proibire la tecnologia 5G, e a smantellarla là dove sia già presente, così come la diversificazione nel rifornimento energetico. Si tratta di due punti particolarmente rilevanti per la Serbia e che potrebbero incidere sulle sue relazioni con Cina e Russia, in virtù dei loro rapporti con Belgrado in questi due settori. Anche qui prevale la dottrina Trump e la guerra commerciale contro Pechino, nel tentativo di arginare la crescente presenza cinese nella penisola balcanica.

 

Una strana diplomazia, tra umiliazioni e brutte figure

Quello che è certo è che quello tra Kosovo e Serbia non è un accordo. I due paesi non hanno siglato nulla in modo congiunto. Lo rende evidente anche la strana prassi diplomatica, che non ha seguito i classici riti da protocollo: non c’è stata una cerimonia ufficiale, Hoti e Vucic non si sono stretti la mano, né hanno fatto una foto con il presidente statunitense. Sembrano dettagli superficiali, ma testimoniano la natura dell’incontro, che è terminato con la sigla di due singoli e distinti documenti, uno per parte. Ma non si tratta nemmeno di una serie di accordi bilaterali tra i due paesi e gli USA, bensì di una lettera di intenti che impegna entrambi nei confronti degli Stati Uniti.
A coronare, infine, quello che l’amministrazione americana vuole presentare come una specie di pax balcanica in vista delle presidenziali di novembre, una serie di gaffe di Donald Trump, che ha superficialmente commentato dicendo che tra Kosovo e Serbia “c’erano molti scontri, mentre ora c’è un sacco di amore”. Infine, su Twitter, il presidente americano ha elogiato il mutuo riconoscimento tra Kosovo e Israele, facendo confusione con la geografia e trascurando il carattere secolare dello stato kosovaro: “Un’altra grande giornata per il Medio Oriente […] altre nazioni islamiche e arabe seguiranno [il Kosovo]”.
In Serbia, infine, molti ritengono che il presidente Vucic sia stato umiliato – anche per la dinamica dell’incontro, che vedeva il presidente serbo seduto su una piccola sedia davanti a Trump, come se venisse interrogato a scuola – e che lui stesso abbia avuto poco carisma. È diventato virale il video della reazione di Vucic mentre Trump annuncia il trasferimento dell’ambasciata a Gerusalemme, come se il presidente serbo non avesse letto la clausola presente nelle due pagine del documento. E a infierire sulla Serbia è stata persino la Russia, alleato fraterno di Belgrado. Sulla sua pagina Facebook, la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, ha deriso Vucic consigliandogli, quando alla Casa Bianca siede come se lo stessero interrogando, di emulare Sharon Stone nella celebre scena di Basic Instinct.

 

Quale futuro per il dialogo?

Era chiaro sin dalla vigilia che non si dovessero investire troppe speranze sul futuro del dialogo guidato dagli Stati Uniti, che riconfermano l’impressione di volerne fare un tornaconto per la campagna elettorale di Trump, esaltando il suo ruolo di paciere delle relazioni internazionali.
D’altro canto, la situazione di Kosovo e Serbia oggi sembra quasi più aggravata. Infatti, l’esito più importante di venerdì, cioè lo spostamento dell’ambasciata a Gerusalemme, è contrario alla posizione dell’Unione Europea, a cui i due paesi devono adeguarsi. E continuare nel percorso di allineamento all’UE è quanto gli stessi Hoti e Vucic hanno sottoscritto proprio stamattina a Bruxelles, dove è ripreso il vero processo di normalizzazione dei rapporti. Un processo che va avanti dal 2013, ma i cui scarsi risultati hanno facilitato l’intromissione statunitense, quindi il prolungamento dello status quo e una mancanza di reale progresso nel percorso di riconciliazione.

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AUTORI

Giorgio Fruscione
ISPI Research Fellow

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