Tutto è iniziato a metà febbraio: il 14 l’indice di Borsa Dow Jones toccava il suo massimo storico: 29.398 punti. La disoccupazione negli Stati Uniti era al 3,5% e il numero di casi confermati di Covid-19 era zero. Il 16 febbraio, per la prima volta da quando Donald Trump era entrato in carica, il consenso per la sua azione come presidente superava il dissenso: 49% di favorevoli e 48% di contrari. Si noti che normalmente circa il 55% degli americani disapprovava la sua gestione contro il 43-44% che invece gli era favorevole, quindi febbraio è stato il momento di maggior consenso in tutta la sua presidenza.
Poi è arrivato il Covid-19 e nel giro di 10 settimane 48 milioni di americani hanno perso il lavoro. La disoccupazione “reale” (non quella sottostimata da metodi di calcolo assai imperfetti) era balzata al 25% della forza lavoro, un livello storico raggiunto soltanto nell’abisso della Grande depressione, nel 1932. Ancora il 4 marzo Trump dichiarava a Fox News “Our economy is doing fantastically.” Una settimana fa, gli americani sembravano essersi accorti soltanto parzialmente del disastro provocato dall’inerzia e dalla incapacità dell’amministrazione Trump: ancora il 39% degli intervistati gli accordava la sua fiducia, contro il 57% che lo criticava.
Il punto di partenza della nostra analisi dev’essere quindi il fatto che Donald Trump ha legato il suo successo a un ambiente già caratterizzato da una forte polarizzazione politica tra democratici e repubblicani, una polarizzazione che continua a sostenerlo, sia pure in misura minore del passato. Il voto del 2016 aveva del resto confermato che alle elezioni presidenziali gli elettori repubblicani votano per i candidati repubblicani e che gli elettori democratici votano per i candidati democratici, quale che sia il loro giudizio sui dirigenti del partito e l’orientamento del singolo elettore durante la lunga stagione delle primarie.
Trump è stato fin dal 2016 un presidente di minoranza: su scala nazionale ricevette circa 3 milioni di voti in meno di Hillary Clinton ma, come vinse nel 2016, potrebbe rivincere quest’anno grazie all’antidemocratico meccanismo del collegio elettorale che affida l’elezione del presidente non direttamente ai cittadini ma a pacchetti di delegati eletti stato per stato. Un sistema che sovrarappresenta gli stati rurali e conservatori, a danno delle città e delle minoranze etniche. Va ricordato che ben due degli ultimi tre presidenti (George W. Bush e appunto Donald Trump) sono stati eletti da una minoranza dei votanti. Un fenomeno che dalla fondazione della repubblica in poi si era verificato solo nel 1876 e nel 1888.
I motivi della distorsione sono due: primo, nel collegio elettorale ogni stato ha diritto a un numero di delegati pari alla somma dei deputati e dei senatori che lo rappresentano in Congresso. Poiché ogni stato, per quanto piccolo, ha diritto ad avere due senatori ne consegue che il collegio elettorale sovrarappresenta i piccoli stati e sottorappresenta i grandi stati: oggi i 3 voti ciascuno di Alaska, Delaware, South Dakota, North Dakota, Montana, Vermont e Wyoming equivalgono insieme al 4% circa dell’organo che elegge il presidente (21 delegati su 538), mentre la popolazione di questi sette stati equivale a circa l’1,5% del totale degli abitanti degli Stati Uniti.
È soltanto una piccola differenza? Al contario: nelle 15 elezioni presidenziali dal 1960 ad oggi ben 5 volte il margine dei consensi ottenuti dai due candidati è stato inferiore al 3%, cioè alla differenza che esiste tra la popolazione e la rappresentanza elettorale di quei soli sette stati. Quindi un’elezione su tre (nel 1960, 1976, 2000, 2004 e 2016) si è decisa sul filo di lana e non solo nel 2000 ma anche nel 2016 è stato eletto il candidato che aveva ottenuto meno voti su scala nazionale.
Questo problema sarebbe meno significativo se gli stati attribuissero i loro delegati nel collegio elettorale proporzionalmente al numero dei voti ottenuti dai candidati. Al contrario, in tutti gli stati gli elettori presidenziali sono eletti dai cittadini su liste bloccate, con il metodo Winner-Take-All, cioè chi ottiene un solo voto popolare in più del secondo arrivato conquista tutto il “pacchetto” dei delegati. Fanno eccezione il Maine e il Nebraska, che permettono la divisione degli elettori presidenziali fra i candidati maggiori.
La conseguenza è quella di creare maggioranze artificiose nel collegio elettorale grazie a piccolissimi spostamenti di voti in singoli stati: nel 2016 Trump fu eletto grazie a un microscopico vantaggio di circa 70.000 suffragi in tre stati: Wisconsin, Michigan e Pennsylvania. Su scala nazionale avevano votato quasi 130 milioni di americani, di cui 65.853.514 per Hillary Clinton.
Come si sa la vittoria di Trump non era stata prevista dai sondaggi, che avevano sottovalutato la fedeltà dell’elettorato repubblicano a un candidato che si era imposto nelle primarie contro l’establishment del partito. I polls avevano notevolmente sottostimato il consenso di Trump negli stati di tradizione repubblicana: in 19 stati vinti da Trump la sua quota di voto popolare era stata sottostimata di oltre il 5%, in molti casi di oltre il 10%. Un dato che rivelava la fedeltà di molti elettori conservatori alla loro tradizionale affiliazione politica e la loro determinazione nel “fermare la Clinton a ogni costo”. Nei cosiddetti swing states i sondaggi avevano mediamente sottostimato il consenso di Trump di circa il 3% e, di conseguenza, il candidato repubblicano ha infine prevalso in sette degli otto stati “in bilico”.
Troviamo una conferma nel fatto che, nel 2016, appena 32 circoscrizioni elettorale della Camera su 435 sono state decise da un margine di voti inferiore al 10%. Si tratta di numeri che hanno mostrato la graduale crescita della tribalizzazione della politica americana. È più corretto parlare di tribalizzazione che di polarizzazione perché questo processo ha una forte componente geografica: sulle coste e nelle grandi città si vota democratico, in tutto il resto del paese repubblicano. Il “voto di appartenenza” a favore di Hillary Clinton era chiaramente visibile negli stati tradizionalmente democratici quali California, Hawaii, New York e Massachusetts. Lo stesso è accaduto in territori come Washington, New Jersey, Connecticut, Illinois e New Mexico. Si tratta di nove stati che hanno sempre votato democratico nelle ultime sei elezioni presidenziali.
Queste le tendenze di lungo periodo: tre blocchi di stati democratici: la costa pacifica, la costa atlantica fino al Maryland, il Midwest. Sull’altro fronte i repubblicani potevano contare su due grossi blocchi di stati: il Sud (tutti gli stati ex-confederati più Kentucky, West Virginia e Tennessee) e i territori delle praterie fino alle Montagne Rocciose. I cambiamenti demografici, tuttavia, hanno eroso la base elettorale repubblicana in Virginia, Nevada, Colorado e New Mexico, che ora pendono verso i democratici, mentre Ohio e in Florida sono aperti ad ogni risultato e quindi realmente decisivi.
Nel 2020, questo panorama politico relativamente stabile cambierà? Secondo tre scienziati politici tedeschi: “alle crisi finanziarie fanno sempre seguito importanti cambiamenti nel comportamento elettorale che, in pratica, contribuiscono ad alti livelli di instabilità politica. La polarizzazione politica è cresciuta sia dopo le crisi economiche del XIX che del XX secolo"[1]. Se questa teoria dovesse essere confermata ci si dovrebbe aspettare una larga vittoria del candidato democratico Joe Biden ma numerosi altri fattori entrano in gioco, che analizzeremo nelle prossime settimane.
[1] Manuel Funke, Morris Schularik e Cristoph Trebesch, “Going to Extremes: Politics after financial crisis 1870-2014”, European Economic Review