Dov’è finito il partito di Lincoln? Donald Trump, che nel 2016 ha conquistato con la forza (metaforicamente) il GOP, adesso con la forza (letteralmente) sta cercando di impedire che gli venga portato via. L’assalto al Campidoglio, per un’eloquente coincidenza, è avvenuto il 6 gennaio: è stata l’Epifania di un conflitto. Le violenze che hanno scioccato il mondo hanno rappresentato infatti la manifestazione più concreta di uno scontro che in realtà divide da tempo i conservatori americani.
Prima che i manifestanti irrompessero a Capitol Hill, al Congresso era in corso la procedura di riconoscimento formale della vittoria di Biden. L’opposizione di una parte dei repubblicani poteva apparire come un attacco ai democratici, ma nella sostanza rappresentava una sfida tutta interna alla destra. I conservatori si stavano contando. Un’operazione piuttosto facile, considerando la scarsa propensione dei trumpiani per le sottigliezze: chi non fosse stato con loro sarebbe stato chiaramente e inevitabilmente contro. Anche questo termine, “trumpiani” (o trumpisti, come si dice a volte), pur essendo un brutto neologismo in giornalistichese, è diventato ormai imprescindibile, dal momento che “repubblicano” non è più un sinonimo di “sostenitore di Trump”, e viceversa.
Quel fatidico 6 gennaio, al Congresso, c’erano da una parte la posizione di Mitch McConnell e dall’altra le mozioni dei senatori capeggiati dal texano Ted Cruz. McConnell, il più influente tra i membri del GOP, voleva che si prendesse atto della sconfitta di Trump; Cruz e compagni, invece, si erano fatti portabandiera dell’opposizione matta e disperatissima a ogni tipo di riconoscimento della vittoria di Biden. In mezzo c’era Pence, il fedele vicepresidente che Trump ha ripagato mettendolo in una posizione scomodissima e chiedendogli di fare ciò che in nessun modo avrebbe potuto fare: rifiutarsi di sancire la vittoria democratica. Alla fine Pence si è beccato una pubblica accusa di codardia, che di questi tempi è come finire al centro di un mirino tutt’altro che metaforico. Non è un mistero, infatti, che i parlamentari repubblicani non ortodossi rispetto alla linea del presidente uscente stiano ricevendo minacce e intimidazioni.
Com’è andata, alla fine, per i trumpiani? Abbastanza bene per quanto riguarda la Camera, male per quanto riguarda il Senato, peggio se ai risultati del 6 gennaio aggiungiamo i pochi, ma pesantissimi, voti espressi dai deputati repubblicani contro Trump nel giorno dell’impeachment. Il partito ha mollato il presidente. Vorrebbe mollarlo, perlomeno, perché tra il dire e il fare c’è di mezzo la nutrita, compatta e irriducibile massa di cittadini che ha creduto a Trump durante la campagna elettorale e che continua a sostenerlo in questa folle crociata contro il risultato del voto. Difficile dire quanti dei 74 milioni di americani che hanno votato per Trump a novembre credano ancora all’irregolarità del voto. Ci soccorre però un sondaggio commissionato da Vox e realizzato tra l’8 e l’11 gennaio: il 74 per cento degli elettori repubblicani si dice tuttora preoccupato dalle irregolarità elettorali.
Sono questi gli americani che tengono a galla Trump. Ma chi sono, concretamente? È un popolo variegato, che sfugge a definizioni troppo rigide, e lo è diventato ancora di più in questi quattro anni. Non tutti gli elettori di Trump sono dei facinorosi, e tra di loro c’è sicuramente chi ha votato come ha votato per semplice fedeltà al partito. Quasi tutti i trumpiani, però, sono convinti che qualcuno stia strappando loro il paese dalle mani. Dal maccartismo a oggi, seguendo il filo rosso di organizzazioni come la John Birch Society, nella destra americana è stata sempre presente una frangia schierata contro le così dette élite. Bisogna capirsi: quando i trumpiani si riferiscono ai membri delle élite non stanno parlando necessariamente di chi è ricco, stanno parlando di chi è influente. I politici liberal, gli scrittori, i giornalisti, i manovratori delle big tech, gli attori e i cantanti famosi, stanno dando al paese una forma in cui gli elettori di Trump non si riconoscono.
Nel partito repubblicano non è una tendenza nuova questa di sfruttare le pulsioni di un’America convinta di essere stata messa da parte: la “strategia del sud” perseguita dal GOP durante la campagna di Nixon si basava in buona parte su un’altra causa persa in partenza, quella di coloro che rimpiangevano i tempi del segregazionismo. Anche se non tutti i movimenti pro-Trump possono essere definiti suprematisti, la razza resta un elemento chiave della faccenda: si tratta di organizzazioni radicate nell’identità bianca, che avvertono la crescita demografica delle (per ora) minoranze come un affronto mortale al paese così come lo concepiscono.
L’insofferenza di quest’America è stata colpevolmente sottovalutata, così com’è stata sottovalutata la minaccia del terrorismo interno di estrema destra. Entrambi i fenomeni hanno subito una brusca accelerazione con lo sviluppo dei social e poi con la pandemia. Negli anni la rabbia contro i politici è divenuta rabbia contro la politica genericamente intesa, e infine contro le istituzioni. L’attacco al Campidoglio stupisce meno se si ripensa alla politica di Newt Gingrich negli anni Novanta e alle posizioni del Tea Party, qualche anno dopo. I politici del Tea Party che si sono candidati al Congresso non l’hanno fatto per cercare di cambiare il sistema, ma per distruggerlo dall’interno.
Molti repubblicani hanno corteggiato negli anni questo tipo di estremismo, a volte retorico a volte reale; l’hanno fatto per calcolo politico o, nel migliore dei casi, per la convinzione di non avere alternative: adesso si ritrovano con una matassa difficile da sbrogliare. C’è chi è pronto a cavalcare ancora il trumpismo (i figli del presidente uscente, per esempio, ma anche Ted Cruz e Josh Hawley) e chi, come Liz Cheney, vuole invece disintossicare il GOP. De-trumpizzare il partito non sarà facile, soprattutto se si vuole contenere una probabile emorragia di voti. Bisognerà emarginare gli estremisti recuperando i trumpiani meno agguerriti, quelli che hanno vissuto l’assalto al Campidoglio con disagio più che come una chiamata alle armi. Presto per dire chi vorrà assumersi questo gravoso compito. Certo è che questo qualcuno prima di unire dovrà dividere, tracciare una linea che separi gli uni dagli altri. Chi vuole riportare l’armonia nel GOP può farlo solo combattendo una guerra. Vengono in mente le parole dell’evangelista: “Non sono venuto a portare la pace, ma la spada”.