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Il commento

Trump Presidente degli Stati Divisi d’America

Massimo Teodori
05 giugno 2020

La diffusione in tutta l’America della protesta per l’uccisione dell’afroamericano George Floyd con l’intrusione di saccheggi e incendi di bande criminali, ha evidenziato più ancora del passato l’anomalia della presidenza Trump. L’ambigua gestione della pandemia e il collasso economico-occupazionale con la riduzione del consenso per il presidente hanno ulteriormente radicalizzato la sua politica tesa a consolidare l’immagine dell’uomo forte capace di dominare il caos.

Di fronte al dramma del momento, Trump continua ad essere il presidente degli “Stati divisi d’America”, come titolava il “Time” quando nel dicembre 2016 lo indicava come il personaggio dell’anno. Incapace di tenere insieme i molteplici segmenti sociali, etnici e culturali del paese, l’unica figura rappresentativa dell’unità nazionale anche in questo periodo ha operato per accentuare la divisione tra bianchi e non-bianchi, tradizionalisti ed emarginati, nativisti e immigrati, urbani e rurali, mentre sulla scena politica si è approfondito il solco tra il governo federale e gli Stati governati dai democratici. Emergendo dal fiume carsico del razzismo, endemico nei distretti di polizia specialmente in alcuni Stati e città, l’assassino in divisa di Minneapolis ha ritenuto di poter avere mano libera nel clima generale del paese che al vertice non ha mai condannato apertamente gli abusi della polizia sui neri né ha represso i gruppetti nazistoidi che hanno impugnato le armi anche in sedi istituzionali. Il presidente, di fronte alla legittima protesta degli afroamericani, se pure inquinata da gruppi violenti e disperati, invece di tentare di dialogo con le leadership più consapevoli delle comunità nere per un’opera di riconciliazione, ha reagito con il linguaggio che gli è più congeniale, la forza. Ha minacciato l’intervento dell’esercito (cosa diversa dalla Guardia nazionale a disposizione dei governatori degli Stati), contestato anche dal segretario alla Difesa Mark Ester e dal suo predecessore generale Mattis; ha esaltato la retorica delle armi e perfino dei cani feroci; ed ha accentuato l’offensiva verbale sui social tesa ad infiammare gli animi piuttosto che a sedare i riots.

Sono le elezioni del 3 novembre a dettare la hybris del presidente che ritiene lo scontro il terreno a lui più favorevole per massimizzare il consenso. La strategia Law and Order non è tanto intesa a ristabilire l’ordine fondato sulla legge, quanto a dare l’impressione di essere un leader pronto a difendere gli americani angosciati dagli antagonisti politici descritti come sovversivi. L’istintiva logica populista e nativista del presidente divide gli americani in “noi” e “loro”, in amici da difendere e nemici da abbattere. Di qui l’impulso a ricorrere frequentemente al concetto di “nemico”: sono nemici i democratici che vengono assimilati ai gruppuscoli estremi di sinistra “antifa”, e va considerato come un nemico il “virus cinese” su cui scaricare la guerra commerciale in atto con la Cina. Devono invece essere lusingati come amici gli evangelici (in specie elettori bianchi, d’età non giovane, residenti nelle piccole città del sud e dell’ovest e nei sobborghi metropolitani) a cui è diretto il messaggio del presidente che esibisce platealmente la Bibbia mentre cammina dalla Casa Bianca alla vicina chiesa di St.John facendosi largo tra i manifestanti a colpi di manganello e di gas lacrimogeni.

L’uscita dalla Organizzazione mondiale della sanità prendendo a pretesto la critica alle omissioni del vertice sull’origine dell’epidemia, ha costituito l’occasione per Trump di snobbare l’opinione degli esperti e svalutare la funzione della organizzazione multinazionale. L’abbandono della OMS, disapprovata dal dr. Antony Fauci e dalla comunità scientifica, trae origine dall’idea del comandante che ritiene di avere il diritto di decidere anche nel merito di questioni scientifiche. Il singolare indirizzo di politica estera che fa capo ad America First considera le strutture multinazionali – in passato chiavi di volta dell’egemonia internazionalista degli Stati Uniti con gli strumenti del diritto – una superfetazione da assoggettare ai rapporti bilaterali che consentirebbero all’America di affermare senza alcun vincolo la propria potenza economica e militare. Dopo avere abbandonato i trattati sull’ambiente e sul nucleare dell’Iran, sottoscritti da Obama insieme alle principali potenze del pianeta, e nell’ignoranza dei motivi politico-democratici che originariamente furono posti alla base delle alleanze quali l’Atlantica, il presidente ha coerentemente cancellato anche l’Organizzazione della sanità, mosso dalla medesima concezione prevalentemente commerciale dei rapporti internazionali.

Nell’ultima settimana hanno avuto particolare rilievo sia per l’informazione che per la democrazia liberale, alcuni eventi relativi ai social. Twitter ha cancellato il post aggressivo del presidente - “se saccheggiano, noi spariamo” - mentre Facebook lo ha pubblicato per volontà di Zuckerberg adeguandosi ai voleri di Trump che aveva accusato i social di trascurare la politica conservatrice. La questione dei social presenta dilemmi non facilmente risolvibili: dove deve finire la libertà di informazione e dove deve cominciare il controllo della verità e della bontà del messaggio? Non è però senza significato che di fronte a Trump, attivo con messaggi social spregiudicati e aggressivi, è nata la contromossa dei dipendenti di Facebook che, per la prima volta, hanno scioperato sul diritto al controllo dei messaggi violenti. I giovani di Facebook hanno così testimoniato quanto profonda sia in America la funzione dell’informazione come cane da guardia del potere.

Ad oggi i sondaggi indicano che le possibilità di rielezione di Trump sono ridotte. Tuttavia è difficile valutare se la dimensione economica e di classe costituisca ancora un importante fattore che influenza il voto, oppure se sta divenendo determinante il peso della guerra culturale nella dimensione etnico-antropologico. Nei cinque mesi che intercorrono da qui a novembre possono accadere molte cose nel clima teso che domina l’America. Trump che finora ha emanato diversi ordini presidenziali illiberali, non ha tuttavia alterato le basi politico-istituzionali del paese: il Bill of Rights, il Rule of Law, e i Checks & Balances, perno del liberalismo americano, che funzionano da deterrente nel conflitto tra presidenza federale e governatori degli Stati. Nel minacciare l’intervento dell’esercito, il presidente si è richiamato all’Insurrection Act del 1807 che, al tempo, aveva ben altro significato. Le leggi d’emergenza sono sempre pericolose per la vita democratica, ed oggi la paura può provocare reazioni istituzionali incalcolabili. La campagna dei repubblicani contro il voto per posta accusato di essere portatore di brogli, segnala come si possono distorcere le normali procedure elettorali che, oltre il presidente a novembre riguardano la Camera dei Rappresentanti e un terzo del Senato con la possibilità di mutare radicalmente gli equilibri politici. Come in passato, le sorti dell’Occidente democratico e liberale non sono disgiunte da quelle d’oltreoceano. Se gli Stati Uniti riprenderanno il cammino secondo quel che ne “Il Genio americano” ho definito la capacità all’interno di una trasformazione democratica attenta alle disuguaglianze, e all’ambizione sulla scena internazionale di guidare la difesa delle democrazie europee dall’assalto del populismo autoritario, allora si potrà guardare a novembre con una qualche speranza.

 

Massimo Teodori è Professore di Storia e istituzioni degli Stati Uniti, autore del libro “Il Genio americano. Sconfiggere Trump e la pandemia globale” Rubbettino, 2020

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