Il comizio a Tulsa (Oklahoma) che avrebbe dovuto segnare la ripresa della campagna elettorale di Donald Trump dopo la pausa forzata imposta dall’emergenza COVID-19 si è rivelata un’esperienza piuttosto deludente. Qualunque sia la causa, le poche migliaia di partecipanti all’evento che si è svolto nel BOK Center (6.200 persone circa, meno di un terzo della capienza della struttura) hanno contribuito a dare un tono dimesso e a confermare l’immagine di un presidente uscente sempre più isolato dal resto del paese. Sul piano dei contenuti, il comizio ha rilanciato i temi consueti della retorica trumpiana, facendo leva sui disordini delle ultime settimane e sulla minaccia di una ‘sinistra radicale’ di cui il suo sfidante in pectore, l’ex vicepresidente Joe Biden, sarebbe solo una marionetta e rispetto al cui dilagare la sua rielezione rappresenterebbe l’unica barriera. Sul piano della politica internazionale sono proseguiti gli attacchi contro la Cina che hanno caratterizzato le ultime settimane e che hanno trovato ancora una volta il fulcro nella presunta responsabilità di Pechino per la diffusione di una pandemia che, in alcuni Stati (Texas, Florida e proprio Oklahoma), sembra mostrare una recrudescenza negli ultimi giorni.
Per molti aspetti, insomma, si è trattato di uno spettacolo già visto. Depurato dai riferimenti all’attualità immediata, il discorso di Tulsa non si allontana molto da quelli che hanno punteggiato la campagna elettorale del 2016 e ricalca, nelle linee di fondo, quelli che hanno segnato l’inizio della campagna per il voto del prossimo novembre. La differenza maggiore è, piuttosto, nel contesto generale all’interno del quale si colloca la performance del Presidente. Il COVID-19 ha impattato pesantemente sugli Stati Uniti. La pandemia e le sue ricadute economiche hanno messo in discussione quelli che fino a pochi mesi fa erano considerati i maggiori successi dell’amministrazione Trump: i risultati economici (in particolare la crescita costante e la compressione del tasso di disoccupazione ai minimi storici) e la promessa di una maggiore sicurezza per i cittadini statunitensi di fronte al crescere dell’instabilità e delle tensioni internazionali. Oggi, invece, gli Stati Uniti si trovano ad attraversare forse la più grave crisi economica della loro storia, sul piano internazionale appaiono sempre più isolati e su quello interno sperimentano tensioni sociali e politiche giunte a livelli preoccupanti.
Ovviamente, non si tratta solo dell’effetto di COVID-19. Piuttosto, il diffondersi della pandemia ha accelerato/amplificato fenomeni che da tempo erano in fermento nel Paese, al di là della politica e delle divisioni dei partiti. Lo stesso Trump è, per certi aspetti, un prodotto di questi fenomeni. La critica all’establishment e alla ‘politica politicante’ di Washington sono state un trampolino importante nella corsa che lo ha portato alla Casa Bianca. Altrettanto importante è stata la capacità di fare leva sulla paura di ampi strati sociali di sperimentare un impoverimento assoluto o relativo, in un momento in cui le logiche dalla delocalizzazione produttiva da una parte, l’impatto non sempre lineare delle azioni implementate dell’amministrazione Obama dopo la crisi finanziaria del 2007-2008 dall'altra hanno messo in discussione quelli che erano tradizionalmente percepiti come equilibri economici consolidati. In forme diverse, queste tensioni sono presenti ancora oggi e continuano a operare in un sistema politico che si è ulteriormente polarizzato. Se da una parte l’attacco alla ‘sinistra radicale’ rappresenta uno dei ‘topoi’ della retorica presidenziale, dell’altra la ‘pregiudiziale antitrumpiana’ sembra, infatti, essere diventato il principale collante di un Partito democratico nel quale le divisioni sono sempre più profonde.
Il nuovo protagonismo della piazza è anch’esso, in un certo senso, figlio di queste dinamiche. La mobilitazione seguita alla morte di George Floyd e gli incidenti che l’hanno accompagnata rappresentano solo l’ultimo anello di una catena che può essere fatta risalire almeno fino alle violenze che nel 1991 sono esplose a Los Angeles dopo il pestaggio da parte della polizia cittadina del taxista di colore Rodney King (3 marzo). Dalla fine degli anni Duemila, gli episodi di questo genere si sono moltiplicati. Un elenco parziale comprende le rivolte di Oakland (California) nel 2009; Anaheim (California) nel 2012; Ferguson (Missouri) nel 2014; Baltimora (Maryland) nel 2015; di nuovo Ferguson, sempre nel 2015; Milwaukee (Wisconsin) nel 2016; Charlotte (North Carolina) e Saint Louis (Missouri) nel 2017; e Memphis (Tennessee) nel 2019. In molte di queste occasioni, le proteste si sono accompagnate a più ampi movimenti d’opinione (primo fra tutti ‘Black Lives Matter’, salito agli onori della cronaca proprio in occasione delle vicende di Ferguson del 2014), portatori di istanze tese non solo alla revisione di norme e assetti sociali ma, più profondamente, alla rilettura della stessa esperienza storica statunitense e delle dinamiche che presiedono alla sua rielaborazione.
Sono fenomeni complessi, che faticano ad essere incanalati nei processi istituzionali e in cui le rivendicazioni politiche si intrecciano con quelle sociali ed economiche, connettendo i diversi piani di una ‘questione razziale’ ancora largamente irrisolta. D’altra parte, le vicende di questi giorni hanno messo in luce con crescente chiarezza come la ‘piazza’ sia una realtà multiforme e variegata, nella quale si muovono anime diverse e come, in questo contesto, la distinzione fra ‘destra’ e ‘sinistra’ -- che, peraltro, negli Stati Uniti assume spesso un significato diverso che in Europa -- tende a sfumare. Il dibattito sulla responsabilità delle violenze – attribuita dall’amministrazione alle forze della ‘sinistra radicale’ e dal fronte democratico al crescente attivismo dei movimenti della ‘destra alternativa’ ('alt-right’) -- è indicativa di questa ambiguità. Nelle violenze che hanno punteggiato gli Stati Uniti dopo la morte di George Floyd, le due componenti si sono trovate spesso fianco a fianco, in nome di una critica radicale dell’ordinamento politico che mette in difficoltà tanto il Partito democratico quanto quello repubblicano e che definisce una situazione che -sparigliando gli allineamenti tradizionali - mette in difficoltà anche Donald Trump e la sua strategia ‘antipolitica’.
Ci sono tutti questi elementi – in un modo o nell’altro – dietro alla deludente esperienza di Tulsa. La difficile gestione dell’emergenza e le polemiche che hanno segnato i rapporti fra la Casa Bianca e gli Stati hanno influito negativamente sull’immagine di Trump come leader ‘dei tempi difficili’. Le difficoltà economiche hanno cancellato bruscamente le previsioni di pochi mesi fa, secondo cui “con un tasso di disoccupazione ai minimi storici da cinquant’anni, l’ulteriore crescita si tradurrà in un aumento dei salari e permetterà a un maggior numero di americani di condividere i benefici di un’economia in crescita”. Anche la proposta di un ‘decoupling’ dell’economia statunitense da quella cinese, presentata dal Presidente come la soluzione per ‘isolare’ il sistema produttivo USA dalle vulnerabilità legate alla dipendenza dalle attuali catene globali di fornitura, rischia di tradursi più in un costo che in un beneficio. Negli scorsi anni, gli imprenditori statunitensi hanno investito molto in Cina, sia in un’ottica di delocalizzazione produttiva, sia con un occhio rivolto agli sviluppi del mercato cinese. Sul fronte dei consumi, poi, l’introduzione di dazi sulla componentistica importata se da una parte potrebbe portare a risultati nel medio/lungo periodo, nel breve periodo finirebbe soprattutto per condizionare negativamente il prezzo di prodotti finiti.
A questi problemi si sommano quelli di una società di cui COVID-19 ha messo in luce le debolezze. Nonostante le somme messe a disposizione dal Congresso e dalle istituzioni finanziarie, il sistema sanitario e del welfare statunitensi hanno evidenziato, in questa occasione, molti dei loro limiti strutturali. Limiti che in molte occasioni la ‘barriera del colore’ ha contribuito ad amplificare. Anche di fronte a queste sfide l’azione della Casa Bianca è apparsa inadeguata, come l’opposizione democratica ha in più occasioni rimarcato, sia per bocca di Joe Biden (le cui proposte sul tema della gestione dell’emergenza, pure non sono prive di ambiguità), sia attraverso ‘testimonial’ ad hoc, primo fra tutti l’ex Presidente Obama. Ancora negli scorsi giorni, Obama ha rimarcato con toni insolitamente duri i limiti delle politiche dell’amministrazione di fronte all’emergenza COVID-19 e il pericolo che – a suo dire – una rielezione di Donald Trump comporterebbe per i fondamenti stessi della democrazia statunitense. Al netto della retorica, si tratta di attacchi assai irrituali, che, con il loro ripetersi, offrono un segno importante del grado di tensione raggiunto oggi dal dibattito pubblico.
Quella di fronte a Donald Trump appare, quindi, una strada in salita, anche alla luce di una recrudescenza della pandemia che, negli Stati Uniti, ha già fatto registrare oltre 2.300.000 casi e oltre 121.000 morti. A favore del presidente, invece, giocano soprattutto due fattori: da una parte, la possibilità non ancora sfumata di avviare un credibile processo di ripresa economica entro l’autunno, dall’altra il timore che le violenze e i saccheggi delle scorse settimane hanno alimentato in una parte dell’elettorato e la domanda di ‘legge e ordine’ che questo ha portato con sé. Se la proposta del Presidente di schierare l’esercito per porre fine alle violenze degli inizi di giugno ha sollevate critiche sostanzialmente compatte dell’establishment militare e dell’opposizione democratica, la reazione dell’opinione pubblica è stata in buona parte diversa e – in prospettiva elettorale – decisamente incoraggiante. Anche a questo si lega l’enfasi posta, nel discorso di Tulsa, sulla difesa dei ‘valori americani’. Resta da capire se e quanto questa svolta ‘Law & Order’ potrà essere sostenuta fino al voto di novembre specie a fronte di una progressiva normalizzazione della situazione e quanto essa possa essere un credibile sostituto di una ripresa economica che tardasse ad arrivare.