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Nordafrica
Tunisia: attacchi terroristici e malore del presidente, cresce l’instabilità
Federica Zoja
28 giugno 2019

L'unica repubblica democratica del Nord Africa, presa alla gola da terrorismo e crisi economica, è a rischio destabilizzazione, ma la comunità internazionale non percepisce la gravità di quanto sta accadendo. 

Ieri, due attacchi terroristici - rivendicati in serata dall'organizzazione "Dawla" (ovvero il sedicente Stato Islamico) - hanno colpito il cuore di Tunisi. Si è trattato di due attentatori suicidi. Un agente di polizia è morto per le ferite riportate, mentre altre otto persone sono state raggiunte dalle deflagrazioni e versano in condizioni difficili. Poche ore più tardi, inoltre, il paese è stato ulteriormente scosso dalla notizia del malore - il secondo in dieci giorni - che ha colpito il Presidente della repubblica Beji Caid Essebsi, di 92 anni. Smentita la notizia del suo decesso, circolata presto sui media arabi, la segreteria presidenziale e il figlio Hafedh (numero uno di Nidaa Tounès) hanno rassicurato sul miglioramento in corso, ma è evidente che un piano B per il dopo Essebsi - concordato fra le principali anime politiche del paese - è ormai indispensabile. La giornata di ieri ha quindi messo a nudo tutte le debolezze della Tunisia, che da anni affronta un processo di transizione politica e sociale.
 
Dalla rivoluzione dei Gelsomini del 2011 in poi, la Tunisia ha subìto svariati attentati di matrice terroristica islamica: tra i più gravi, quello del 18 marzo del 2015 al museo del Bardo, a Tunisi, seguito, poco più di quattro mesi dopo, il 26 giugno, dal raid sulla spiaggia di Sousse, località balneare cara soprattutto a turisti britannici e olandesi. Oltre 60 le vittime complessive, di cui 4 italiani.
Dopo un periodo di calma apparente, la minaccia jihadista ha ricominciato a farsi sentire lo scorso anno, nel mese di ottobre: una donna si è fatta esplodere nel centro della capitale ferendo 15 persone, tra cui 10 agenti. Anche ieri, a quanto si apprende dai primi riscontri investigativi, uno dei due attentatori suicidi sarebbe stata una donna. 
 
Per la Tunisia, il pericolo dell'islamismo armato giunge da più parti e ha i connotati dei miliziani asserragliati sulle montagne al confine con l'Algeria, ma non solo. La piccola repubblica è stata la base di partenza - volontariamente oppure no, è tutto da chiarire - per una cifra esorbitante di foreign fighters verso i teatri della guerra mediorientale. Stime supportate da fonti di intelligence incrociate attestano la partenza di almeno 5 mila fra uomini e donne per Siria e Iraq; secondo altre stime potrebbero essere addirittura 8 mila. Fra di loro, alcuni avrebbero scalato la gerarchia del sedicente Stato Islamico, raggiungendo posizioni apicali sia sul campo di battaglia sia nella struttura amministrativo-politica del "Daesh" (acronimo dispregiativo con cui in arabo è indicata l'organizzazione terroristica). E dopo la débacle territoriale a Raqqa e Mosul, una tranche consistente dei combattenti di origine tunisina avrebbe ripiegato verso il Sinai egiziano e la Libia. Oltre novecento ex combattenti, inoltre, sono già rientrati in Tunisia, con grande preoccupazione delle autorità.
Sono queste cellule radicali quiescenti che ora preoccupano di più: forti della loro esperienza sul campo e dell'autorevolezza guadagnata nel circuito radicale, i foreign fighters di ritorno potrebbero non solo saldarsi con i miliziani locali, ma pure guidarli verso un salto di qualità nella capacità offensiva. 
 
Il caos politico in cui versa la scena tunisina in un anno di appuntamenti elettorali strategici aggrava la situazione, prestando il fianco più debole della giovane democrazia ai suoi nemici.
Il prossimo 6 ottobre, circa 8 milioni di aventi diritto saranno chiamati a rinnovare il parlamento e, il 10 novembre, a eleggere un nuovo presidente.
Fino all'inizio del mese di maggio, la fotografia che media e sondaggi restituivano al mondo era più o meno la seguente: ormai svuotato di energie e pure di deputati, il partito modernista liberale Nidaa Tounès ("L'appello della Tunisia", fondato nel 2012 da Béji Caid Essebsi, poi divenuto presidente nel dicembre del 2014), aveva finalmente ritrovato slancio con un nuovo progetto politico coadiuvato anche da figure dell'opposizione di sinistra, fondando il partito Tahya Tounès ("Viva la Tunisia"). Nata a fine gennaio, la nuova sigla aveva il volto giovane e ambizioso del premier Youssef Chahed, in rotta con gli Essebsi e Nidaa da un anno e mezzo. 
E gli islamisti moderati di Ennahda ("La Rinascita")? Primo partito in parlamento e vincenti alle amministrative dell'estate 2018, erano dati ancora in testa dai sondaggisti a metà maggio. Detto questo, il patto fra laici liberali e islamisti moderati pareva destinato a rinnovarsi, anche in assenza dei due grandi vecchi della politica tunisina: il raìs Essebsi e il leader islamista Rached Ghannouchi, entrambi volontariamente fuori corsa.
 
Ma con il passare dei mesi, lo spettro di un voto anti-sistema si allunga su quel compromesso che finora ha retto il sistema tunisino post-rivoluzionario.
Secondo i dati del centro studi Sigma Conseil, pubblicati dalla testata "Maghreb", alle presidenziali di novembre la maggioranza dei tunisini potrebbe dare la propria preferenza a candidati indipendenti, sganciati dai due partiti che hanno accompagnato i primi passi del paese dopo la cacciata dell'ex presidente Zine el-Abidine Ben Ali.
Il discusso magnate della comunicazione Nabil Karoui guida i sondaggi, con una percentuale di voto vicina al 25 percento, seguito dal costituzionalista Kaïs Saïed (23 percento). 
Abir Moussi, presidente del Partito Dusturiano Libero, sarebbe terzo nella corsa al palazzo di Cartagine, di poco davanti al premier Chahed, anche se non ha ancora annunciato la candidatura. E forse non la presenterà mai: dal 30 percento di intenzioni di voto di febbraio, i sondaggi ora lo fanno scendere al 7. Sempre meglio di Moncef Marzouki, ex Presidente della repubblica (nei sondaggi al 6 percento).
Di riflesso, se oggi Nabil Karoui fondasse un partito - ipotesi più che probabile e attesa a breve - la nuova formazione sbaraglierebbe tutti. In nome del cambiamento. Contro la crisi economica e sociale che non accenna a dare respiro. La sigla di Karoui, a scatola chiusa, sarebbe votata da un terzo degli elettori, seguita di quasi 15 punti percentuali dagli islamisti di Ennahda. A distanza, la galassia polverizzata di laici, liberali, progressisti più o meno di sinistra o destra.
E non è detto che Ennahda non perda altri elettori, sull'onda delle indagini della Procura di Tunisi che stanno ricostruendo le responsabilità dei vertici nel processo di reclutamento di aspiranti foreign fighters per il vicino Oriente e pure il coinvolgimento del direttivo negli assassinii Brahmi e Belaid.
 
La guerra dei sondaggi infuria, i partiti del sistema non riconoscono i nuovi competitor e mettono in discussione le cifre, forse troppo esasperate. Ma che si tratti di un frangente di estrema fragilità lo dimostra proprio la recrudescenza della minaccia islamista, pronta ad affondare l'odiato esperimento democratico tunisino.
Un altro fendente ad un equilibrio politico e sociale assai fragile potrebbe giungere dall'uscita di scena anticipata del capo dello Stato. 
 

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MENA Tunisia terrorismo
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AUTORI

Federica Zoja
Giornalista

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