La rivoluzione porta la libertà, o la promette: già così ha una responsabilità formidabile i cui esiti ultimi sono tutt’altro che scontati. Tutte le rivoluzioni fanno ancora più fatica a portare pane e lavoro a chi le ha sognate o realizzate. Cosa prevaleva nel movimento che partendo da un villaggio anonimo ha investito Tunisi e la Tunisia ed è culminato nell’esautoramento di Zine El Abidine Ben Ali? Finora si è trattato soprattutto di libertà ma non è detto che l’intendenza seguirà. Le elezioni da sole non sono neppure un punto d’arrivo.
Il governo provvisorio, stretto fra l’obbligo di dare quanto prima il segno del cambiamento e la necessità di non disperdere tutte le speranze in una transizione affrettata e fasulla, ha indetto le elezioni in tempi relativamente rapidi, rinviandole di quel tanto per permettere ai partiti di organizzarsi, e aspetta il 23 ottobre incrociando le dita. Si sono iscritti nei registri elettorali circa la metà degli aventi diritto e non si sa quanti voteranno realmente (secondo il censimento del 2004 quasi un terzo degli abitanti nelle zone rurali sono analfabeti). Il campo politico è una nebulosa: si sono registrati più di cento partiti, nati per lo più negli ultimi mesi. Semplificando, si delinea una lotta a tre fra i resti del partito al potere con Ben Ali, i portavoce delle classi medie modernizzanti impazienti di affermare la loro leadership e l’islamismo politico. A differenza di Ennahda, il partito islamico, che ha le credenziali in regola come forza d’opposizione almeno dagli anni Ottanta ma che non ha avuto un ruolo significativo nelle manifestazioni di piazza in cui si è materializzata la rivoluzione, gli altri due poli non corrispondono a un solo partito ma si dividono in tante correnti di cui è difficile valutare la consistenza e l’appeal.
Poiché non si deve eleggere un presidente o un parlamento in senso stretto ma un’Assemblea che dovrà soprattutto redigere la Costituzione, i numeri possono non essere così importanti. Siamo ancora nel regno della libertà più che in quello del pane. Tutto il contenzioso, nella fase presente, che dovrebbe durare un anno, potrebbe ridursi alla lettera e allo spirito del primo articolo della Carta fondamentale in cui si definirà la nuova Tunisia. Le formule sono in parte esercitazione retorica e in parte impegno programmatico. La repubblica e un sistema rappresentativo di tipo multipartitico non sono in discussione. Le parole saranno pesate con il bilancino quando si dovrà collocare l’Islam nel passato e nel futuro della Tunisia. Visto il ruolo che si è auto-assegnato il governo di Ankara – preso di sorpresa dalle “primavere arabe” ma pronto a proporsi come modello di Stato “ordinatore” in questo autunno di vendemmie con la maturazione delle prime conclusioni – si può pensare a una contesa fra Erdogan e Atatürk. O, rapportandosi piuttosto alla storia tunisina degli anni Cinquanta, fra Habib Bourguiba e Salah Ben Youssef. Sarà difficile per tutti sconfessare le scelte di principio del “combattente supremo” e d’altra parte un paragone fra Rashid Gannouchi, il capo riconosciuto di Ennahda, e Ben Youssef sarebbe forzato: nel conflitto mortale (alla lettera, purtroppo) fra i due massimi esponenti del Néo-Destour nel momento cruciale di abrogare il colonialismo francese e articolare gli istituti della Tunisia indipendente entravano fattori che oggi ap paiono un po’ sfuocati. Bourguiba diffidava di chi allora passava per essere il protetto di Nasser e lo temeva in quanto rivale. Il mutamento più appariscente intervenuto in questo mezzo secolo riguarda la gerarchia fra i valori d’importazione, fatti propri dal Néo- Destour e personalmente da Bourguiba, e il richiamo dell’Islam come fattore di autonomia e legittimazione. Anche l’Algeria ha pagato lo scotto di un movimento nazionale che una volta accantonato Messali Hadj, il “padre della patria” mancato, aveva creduto di muoversi tutto dentro un alveo post-francese. Nel confronto, la maggiore stabilità del Marocco deve sicuramente qualcosa alla funzione di un sovrano che è anche il “principe dei credenti”.
Se la Tunisia è uscita dalla crisi di successione senza una guerra e senza uno sconvolgimento irreparabile è perché lo Stato, l’esercito e la società hanno acquisito una solidità, da ricondursi all’esperienza del Néo-Destour sopravvissuta anche agli abusi del potere di un uomo o di un clan, che è incorporata non solo nei testi scritti ma nella consapevolezza degli individui e della collettività. Sarebbe assurdo se – in una situazione di convinta adesione di tutti gli attori alle regole democratiche per rimediare ai guasti di una deriva autoritaria che non dava spazio alle nuove élites e alle nuove generazioni perdendo il contatto con l’evoluzione sociale e demografica del paese – il pluralismo dovesse scadere nel manicheismo rinnegando componenti essenziali dell’identità tunisina, che si è sempre nutrita della diversità dei suoi cittadini e di una storia a più strati ma anche di un disegno propriamente nazionale da condividere come garanzia di partecipazione ed eguaglianza per tutti. Nessuno può arrogarsi di detenere il monopolio della democrazia e della modernità. In Tunisia la cittadinanza alla pari è vissuta come un dato di fatto: la sua prima Costituzione risale al 1860. Destour significa Costituzione e fu la denominazione di un partito con alla testa borghesi e notabili sostanzialmente conservatori che per primi si posero il problema della sovranità salvo essere scalzati dai “giovani tunisini” che, volendo osare di più, fondarono il Néo-Destour.
Nelle condizioni della Tunisia e del Medio Oriente la paura dell’islamismo non è un atteggiamento soltanto esteriore. Per un altro verso, tuttavia, quella “paura” non deve essere brandita come la classica profezia che si auto-realizza fino a far balenare l’abisso della sindrome “algerina”. Il rischio di inquadrare la lotta politica in una prospettiva appena mascherata di paternalismo se non di ingerenza è effettivo. Il colpo di tuono della guerra contro la Libia, comunque giustificato, tradisce la volontà dell’Europa di non “perdere” il Nord Africa. Il fallimento conclamato e ormai consumato degli schemi euro-mediterranei sbilanciati a favore del Centro è un buon motivo perché le scelte della Tunisia come dell’Egitto siano lasciate il più possibile alla libera competizione delle forze interne: dopo tutto, il “conflitto” è più congeniale alla democrazia di ogni unanimismo di facciata.