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Commentary

Tunisia: troppi partiti per la Rivoluzione

17 ottobre 2011

Le consultazioni del 23 ottobre prossimo per l’elezione dell’Assemblea costituente rappresentano la prima vera prova di democrazia nella nuova Tunisia uscita dalla Rivoluzione dei gelsomini, dopo 23 anni di dominio incontrastato dell’ex presidente a vita Zine al-Abidine Ben Ali. Il carattere popolare di una Rivoluzione “senza leaders” in combinazione con il dinamismo di una società civile composita fanno delle prossime elezioni un reale esercizio di democrazia al di là delle forme. Gli esiti sono però tutt’altro che scontati, in particolare a causa della frammentazione del sistema politico. Dopo decenni di partito unico, confermati nella sostanza anche dalle false aperture al multipartitismo di Ben Ali, una delle maggiori sfide per la nuova Tunisia rimane la cultura democratica, prima ancora della sua pratica. Gli oltre cento partiti politici che in questi mesi si sono andati formando dimostrano la grande vitalità di un paese che ha rovesciato una dittatura incentrata sul modello di modernizzazione autoritaria, ma nel contempo sollevano più di un timore per la governabilità del sistema. La scommessa è dunque per un passaggio che, attraverso la prova elettorale, porti da una Rivoluzione senza leaders a una nuova fase costituente nella quale emerga nel modo più ordinato possibile la nuova dirigenza del paese. In ogni caso la Rivoluzione tunisina ha già dimostrato nei fatti l’inconsistenza delle teorie neo-orientaliste che pretendono di vincolare la storia degli arabi a una visione dispotica della società che caratterizzerebbe la religione musulmana e a una storia di eccezionalità rispetto alla capacità di elaborare sviluppi sociali autonomi.

Dalla rivolta al voto

Alle elezioni del 23 ottobre i tunisini sceglieranno i 218 membri dell’Assemblea costituente nazionale che sarà chiamata a scrivere la nuova Costituzione tunisina e approvarla entro il termine di un anno dalla sua prima convocazione in seduta. In senso più ampio l’elezione della nuova Assemblea va a colmare quel vuoto politico e istituzionale seguito alla cacciata di Ben Ali che è stato riempito fino a ora non senza difficoltà dalle istituzioni transitorie: il presidente ad interim Foud Mebazaa, il governo di transizione presieduto oggi da Beji Caid el-Sebsi, la “Haute instance pour la réalisation des objectifs de la révolution, de la réforme politique et de la transition démocratique” che, raggruppando delegazioni dei maggiori partiti, ha lavorato in questi mesi come una sorta di consiglio consultivo e la “Instance Superieure Independante pour les Elections” (Isie) che ha invece assolto il compito di preparare le elezioni. Dalla cacciata di Ben Ali nel gennaio scorso, sono stati diversi i momenti di contestazione, anche violenta, delle istituzioni transitorie da parte della piazza. L’ottantaquattrenne Beji Caid el-Sebsi, forte della sua lunga esperienza di governo e della reputazione di riformatore dall’interno durante il passato regime, non ha evitato forti critiche per il suo approccio troppo prudente al corso rivoluzionario, così da indurre i suoi detrattori a ribattezzarlo il nuovo Ben Ali.

Il diritto a manifestare, spirito stesso della Rivoluzione, è stato effettivamente e ripetutamente limitato nei mesi scorsi, anche attraverso il ricorso alle forze dell’ordine, tanto che hanno finito per essere sciolti per ordine del governo i sindacati della Polizia che avevano preso posizione contro l’uso repressivo della forza pubblica. Anche da qui l’insofferenza di una parte dei tunisini verso una transizione che in questi mesi è parsa a tratti troppo lenta, incerta e lontana da quei problemi concreti della gente comune che hanno acceso nel dicembre 2010 la miccia della rivolta. Un regime di corruzione organizzata e generalizzata ha lasciato in preda a una forte crisi economica lo stesso paese che durante gli anni Ottanta veniva paragonato per la sua rapida crescita alle Tigri asiatiche. Ingiustizia sociale e sperequazioni economiche hanno caratterizzato il crepuscolo del regime di Ben Ali, dove la disoccupazione, specie quella giovanile, insieme alla continua crescita dei prezzi dei beni di prima necessità hanno scatenato la protesta. Il corso della Rivoluzione non è riuscito fino a ora a dare soluzioni concrete ai problemi che hanno portato alla rivolta tunisina, anzi la crisi economica si è acuita nei mesi scorsi a causa dell’incertezza generale del clima politico. Ancor più che nelle proteste al centro, la conferma delle esistenti tensioni sottotraccia vengono dalle zone rurali e particolarmente povere dell’interno del paese che sono rimaste per mesi fuori controllo, come nel caso noto di Gafsa.

Sono stati soprattutto i militari a giocare un ruolo decisivo per evitare che il corso rivoluzionario precipitasse nel caos: forte di soli 40 mila uomini, l’esercito tunisino non può certo vantare il peso, la storia e la tradizione di custode della nazione come nel caso di quello egiziano, eppure proprio attraverso la difficile prova della Rivoluzione l’esercito è emerso rafforzato nella sua valenza di forza nazionale per essere riuscito a rimanere neutrale rispetto alle diverse parti politiche e a garantire l’ordine pubblico. In modo simile a quanto successo al Cairo sono stati piuttosto la Polizia e i servizi del passato regime, circa 130.000 in totale, a essere fortemente delegittimati per la collusione con il vecchio sistema di potere e per averne a tratti reiterato i metodi violenti di repressione. L’elezione della Costituente si colloca allora in un quadro di forte fragilità istituzionale e sociale con l’obiettivo di riscrivere dalle fondamenta il contratto sociale e politico alla base dello stato tunisino e far uscire così il paese dalla provvisorietà.

Dopo essere state programmate in un primo momento per il 24 luglio, le elezioni tunisine sono state definitivamente fissate per domenica 23 ottobre. Si è molto speculato sulla stampa tunisina circa le ragioni del rinvio: era un dato di fatto l’impreparazione generale del paese al voto, prima di tutto da un punto di vista tecnico, ma il rinvio ha contribuito a torto o a ragione a confermare i timori di quanti protestavano contro un’involuzione conservatrice della Rivoluzione. Secondo alcuni osservatori il rinvio delle elezioni sarebbe stato dettato in realtà dal tentativo di far guadagnare tempo prezioso ai partiti laici e progressisti nel tentativo di contrastare l’avanzata del partito islamista al-Nahda, ma è invece probabile l’esatto contrario: il rinvio è avvenuto per ragioni di ordine pratico, mentre è stato il partito islamista a trarre indirettamente un vantaggio politico se si considera che il rinvio ha reso parte della campagna elettorale il mese del Ramadan, offrendo più di un’occasione ad al-Nahda di aumentare la sua popolarità. Sicuramente l’ipotesi di un nuovo rinvio che, a dar credito ad alcune fonti, sarebbe stata presa in considerazione nei mesi scorsi non è stata giustamente ritenuta praticabile perché avrebbe gettato il paese nel caos e sicuramente avrebbe alimentato il crescere di una spirale di violenza che con fatica si è tenuta sotto controllo nei mesi scorsi.

Gli elettori tunisini sono stati suddivisi in 33 distretti elettorali, 27 in Tunisia (approssimativamente uno per ogni circoscrizione amministrativa) e 6 per l’estero (2 per la Francia, 1 rispettivamente per Italia, Germania, paesi arabi e America). In omaggio alla legislazione particolarmente avanzata nella protezione dei diritti delle donne, le liste presentate devono contare almeno il 50% di donne al loro interno, mentre il 25% deve essere composto da giovani sotto i trent’anni. La compilazione delle liste elettorali si è rivelata particolarmente difficile sia per l’inattendibilità dei dati pregressi, sia per l’impossibilità di provvedere a un nuovo censimento nazionale a causa del pochissimo tempo a disposizione. Per la nuova legge elettorale tunisina hanno diritto di voto attivo tutti i cittadini tunisini che abbiano compiuto i 18 anni, salvo i militari, i detenuti e coloro che sono attualmente sotto processo per collusione con il passato sistema di potere. L’elettorato passivo è stato invece vincolato al compimento del 23° anno, con la specifica esclusione di un certo numero di ex uomini e funzionari di Ben Ali. Nell’incertezza dei dati disponibili, la Isie ha lanciato una campagna di iscrizione pubblica con l’intento di verificare e integrare le liste esistenti. Al di là della problematica tecnica, il dato politico deludente e sconcertante è che entro il primo termine fissato per il 2 agosto solo 1.700.000 dei probabili 7 milioni di aventi diritto al voto (senza contare il milione all’estero, circa il 20%) si era registrato. Alla nuova scadenza prorogata al 14 agosto erano 3.882.727 i votanti registrati: più del doppio di sole due settimane prima, ma ancora troppo pochi rispetto alla stima generale. Le autorità tunisine sono state allora obbligate a dichiarare che anche gli aventi diritto al voto non registrati nelle liste potranno votare alle elezioni, presentandosi al seggio con un documento di identità valido.

I limiti della campagna per la registrazione hanno rivelato, probabilmente in anticipo sull’esito elettorale, la scarsa capacità dei principali attori politici di agire all’interno di una Rivoluzione nata dal basso e al di fuori di contesti istituzionalizzati. Le ragioni della difficoltà nell’espletare un passaggio tanto fondamentale per il processo di transizione democratica vanno ricercate prima di tutto nella mancanza di familiarità con le procedure della democrazia in un paese che esce da decenni di autoritarismo e poi la mancanza di un’appropriata conoscenza dei termini della questione da parte di tanti tunisini, specie quelli meno istruiti. Inoltre per iscriversi alle liste e poi per votare bisogna essere in possesso di un documento di identità valido che molti tunisini hanno smarrito o non hanno mai avuto semplicemente perché non gli era mai servito: chiederlo o richiederlo ha un costo (20 o 30 dinari) che evidentemente per molti costituisce un lusso difficile da concedersi, anche in vista dei benefici promessi dalla democrazia. Vi è poi chi ha ritardato la propria iscrizione o non l’ha fatta per protestare contro le istituzioni transitorie, il corso della Rivoluzione e la sua eccessiva politicizzazione a discapito di soluzioni concrete di fronte alla crescente crisi economica. Va infine registrata l’apatia di tanti giovani e giovanissimi tunisini verso il voto: non si tratta certo di una forma di protesta organizzata, ma del risultato quasi annunciato di quella frustrazione che caratterizza l’intera generazione nata sotto la presidenza di Ben Ali (l’unico presidente che essa abbia mai conosciuto), interessata alla ricerca del successo personale, economico e di status sociale, piuttosto che impegnata nella difesa dei valori di un rinnovato senso civico. Per tanti la Rivoluzione è stata prima di tutto una sorta di liberazione personale, anche personalissima, e non è affatto facile o scontato ricondurre una tale dimensione a quella più alta dell’impegno pubblico.

Alla ricerca di una leadership

Nella costellazione dei 110 partiti tunisini nati dopo la Rivoluzione è difficile identificare i futuri dirigenti del paese: sono oltre 1.400 le liste presentate per quasi 11.000 candidati tra indipendenti e concorrenti per formazioni partitiche in senso proprio. Sono almeno tre gli orientamenti politici predominanti: le diverse anime della sinistra laica, progressista e riformista, le forze liberali e quelle islamiste. Sono le prime a scontare la maggiore difficoltà a radicarsi nell’elettorato. L’ex Partito comunista, nato tra gli italiani della comunità storica di Tunisia, ha preso oggi il nome di Ettajdid ed è entrato nel Polo democratico modernista con altre forze della sinistra. Dopo aver intrapreso negli ultimi anni un processo di rinnovamento interno, l’Ettajdid era stato legalizzato, di fatto, con l’occasione delle elezioni presidenziali del 2004 quando presentò un proprio candidato per le ultime tra le consultazioni truffa del vecchio regime. Nonostante la sua lunga storia di militanza e di contestazione del passato regime, l’Ettajdid sconta il dato di fatto di rappresentare un’avanguardia intellettuale e sociale che fatica a dialogare con le masse lungo un difficile percorso inteso a rifondare una cultura popolare di sinistra. La base naturale del partito, il mondo del lavoro, continua significativamente a essere meglio rappresentata dai sindacati. È più in generale tutto il Polo che, per aver impostato la sua campagna politica sul tema della laicità dello Stato, fatica a raccogliere consensi intorno a un programma, in effetti, ben più articolato e dal taglio fortemente sociale (riduzione della disoccupazione, sussidi per gli indigenti, borse di studio per gli studenti). Almeno una parte di questa élite laica e progressista acculturata alla scuola francese (tanto da utilizzare più il francese dell’arabo) ha finito per perdere il contatto con una società in rapido mutamento e segnata da evidenti processi di ri-arabizzazione e ri-islamizzazione.

A vantare un ampio e consolidato seguito popolare è invece il partito islamico al-Nahda, “rinascita” in arabo. Dopo essere stati sottoposti a una dura repressione da parte del regime di Ben Ali, gli esponenti dell’Islam politico tunisino lottano oggi per un progetto di società e Stato che ponga la religione al centro della riflessione politica e dell’interazione sociale. Lasciando cadere le teorie complottiste di chi sostiene esservi una regia dei movimenti radicali islamici dietro le primavere arabe, gli islamisti tunisini sono stati sorpresi dalla Rivoluzione al pari degli altri movimenti politici, anche se hanno dimostrato a differenza di tanti altri una grande capacità di (ri)organizzarsi in brevissimo tempo. Al-Nahda conta sul vantaggio di poter fare affidamento per i suoi scopi politici sull’ampia e ramificata rete delle charities musulmane, che hanno avuto e continuano ad avere un ruolo importantissimo nell’offrire tutta una serie di servizi di assistenza agli strati più deboli della società tunisina. Al suono dello slogan «alzati e prega», al-Nahda sta consolidando il suo peso politico attraverso una politica sociale (i suoi detrattori la definirebbero populista) che si fonda su una serie di grandi o piccole donazioni in favore dei bisognosi, svolte nel nome dell’Islam, ma intese a guadagnare consenso politico.

Tra i dibattiti che hanno alimentato la discussione pubblica nei mesi scorsi quello sulla neutralità politica delle moschee trasformate in arene politiche è stato sicuramente uno dei più accesi e, allo stesso tempo, uno dei più rivelatori. Al-Nahda ha, infatti, favorito direttamente o indirettamente un cambio generalizzato degli imam nelle moschee con il preciso obiettivo di orientare politicamente la comunità dei fedeli attraverso imam simpatetici al movimento islamista. Nella Tunisia di Ben Ali di tradizione fortemente laica gli imam erano nominati dal potere politico, cosicché è stato relativamente facile dopo la Rivoluzione reclamarne la sostituzione con l’accusa, a torto o a ragione, di una loro stretta connivenza con l’ex dittatore. Un po’ paradossalmente quelle forze politiche che rivendicano la laicità come base dello Stato hanno offerto un buon argomento per neutralizzare la proposta di reintrodurre uno stretto controllo da parte del ministero degli Affari Religiosi sulle nomine degli imam: se laicità deve essere, allora lo Stato deve tenersi fuori dalla nomina degli imam a tutto vantaggio di al-Nahda che invece agisce indistintamente e contemporaneamente come movimento religioso e politico, massimizzandone i vantaggi. Non per caso al-Nahda in questi mesi ha rivendicato alla sua struttura organizzativa anche il controllo delle opere pie e delle donazioni per i poveri che rimangono sotto il controllo del ministero degli Affari Religiosi e sono potenziali competitori della sua rete assistenziale.

All’attivo del partito islamista c’è anche il legame complesso e per tanti versi controverso con le reti dell’Islam internazionale. Parte considerevole del denaro che al-Nahda utilizza per la sua campagna politica e per la sua rete di sicurezza sociale arriva dall’estero: particolarmente generosi sono stati i finanziamenti provenienti dall’Arabia Saudita. Ha fatto e continua a far discutere (o preoccupare) il legame degli islamisti tunisini con l’Islam wahhabita saudita. La legislazione sul finanziamento dei partiti approvata nel luglio scorso ha limitato la possibilità di ricevere finanziamenti dall’estero, tanto da suscitare una reazione durissima da parte di al-Nahda che si autosospese per un breve periodo dalla “Haute instance pour la réalisation des objectifs de la révolution, de la réforme politique et de la transition démocratique” e più o meno scopertamente favorì una serie di proteste contro le istituzioni transitorie nella capitale e in alcune regioni del Sud del paese. A eccitare ulteriormente il clima politico e a dar credito a una crescente deriva fondamentalista del movimento islamista tunisino ha contribuito poi la dichiarazione del leader di al-Nahda, Rached Ghannouchi, che durante un’intervista rilasciata al Cairo il 3 agosto alla trasmissione televisiva Sabah el-khir ya Masr (Buongiorno Egitto), ha detto: «Il califfato è l’obiettivo ultimo» al quale aspirare. Una simile dichiarazione, resa proprio all’inizio del mese del Ramadan e al Cairo dove i Fratelli musulmani sono una delle principali forze politiche uscite dalla Rivoluzione egiziana, ha avuto come effetto immediato quello di mettere in allarme tutti i partiti laici in Tunisia. Nonostante la dichiarazione sia stata poi parzialmente rivista dagli esponenti del partito a Tunisi, che hanno parlato piuttosto del modello turco come fonte di ispirazione per la transizione tunisina, il Ramadan è iniziato in un clima di forte tensione, con la chiusura di moltissimi degli esercizi commerciali della capitale, scena inconsueta se si pensa alla tradizionale laicità della Tunisia di Ben Ali.

Per tanti tunisini la Rivoluzione ha rappresentato anche, forse soprattutto, la possibilità di manifestare apertamente e senza più timori il proprio essere musulmani praticanti e rivendicare una maggiore islamizzazione della società. Tuttavia proprio il modo non lineare, a volte contradditorio, con cui al-Nahda ha nei mesi scorsi svolto la sua opera politica rivela come siano diverse le voci all’interno del movimento e tra quanti si riconoscono in un progetto di società connotata in termini maggiormente religiosi. L’idea di resuscitare il califfato non si risolve semplicemente in un richiamo alle tradizioni dell’Islam, ma tradotto in termini politici significa proporre una religione che è anche Stato, con tutte le problematiche che ne seguono inevitabilmente per un genuino processo di democratizzazione della Tunisia. Non è affatto scontato che questo progetto sia condiviso dalla base popolare di al-Nahda, mentre è ragionevole pensare che sia espressione di una corrente particolarmente rigorista, forse in accordo con il movimento salafita che in senso proprio sta al di fuori del partito. Se al-Nahda pretende di monopolizzare la spinta rivoluzionaria di cambiamento politico, deve allora scendere a patti con quelle componenti sociali che hanno prodotto la scossa rivoluzionaria dal basso e hanno espresso tutta la loro insofferenza, tanto da immolarsi, non per la difesa dell’Islam o per la causa dei popoli arabi, bensì per la frustrazione prodotta da una società prigioniera di un processo di modernizzazione autoritaria che si stava svolgendo a spese dei più per gli interessi di pochi. Al-Nahda non ha, in effetti, un preciso programma politico, al di là della sua identificazione con l’Islam, e questo è sicuramente un limite nei confronti di tanti tunisini che chiedono a tutte le forze politiche una forte concretezza di fronte ai problemi del paese. Inoltre non è affatto pacifico che l’Islam tunisino sia disposto a farsi portatore di istanze tanto radicali che non appartengo alla sua storia. Un indice di “resistenza” può essere trovato nella stessa vicenda della sostituzione degli imam che non si è affatto limitata a un primo turno di sostituzioni, ma ha al contrario sperimentato ulteriori avvicendamenti, dando credito a una discussione in atto all’interno dell’Islam tunisino.

Il Parti démocrate progressiste (Pdp) è l’altro grande favorito alla vigilia delle elezioni. Fondato nel 1983 con il nome di Rassemblement socialiste progressiste è stato ufficialmente legalizzato nel 1988. Sono raggruppati intorno al suo leader, Ahmed Nejib Chebbi, diverse forze dai liberali laici ad alcuni islamisti progressisti. Come al-Nahda, il Pdp trae la maggior parte dei fondi dai suoi importanti legami con l’estero, soprattutto con la Francia e la comunità dei tunisini espatriati che potrebbero garantire un bacino di voti prezioso per il partito. Il Pdp ha presentato un programma incentrato sulle libertà e sui diritti fondamentali, compresi quelli delle donne, piuttosto che sulla laicità dello Stato; questa scelta ha garantito al Pdp una presa di distanza dalla retorica populista degli islamisti, ma al tempo stesso gli ha permesso di sottrarsi alla contrapposizione manichea tra laicità e confessionalità dello Stato che ha invece caratterizzato gran parte delle campagne politiche del Polo e di al-Nahda. Il Pdp ha riconosciuto la gravità della crisi economica e ne ha indicato alcune soluzioni nella scelta di decentralizzare l’apparato del nuovo Stato, proponendo così una storica rottura con il centralismo politico e amministrativo che la Tunisia ha ereditato dall’ex potenza coloniale francese.

***

Uno dei grandi interrogativi delle elezioni ormai alle porte è se i risultati che ne usciranno rafforzeranno la transizione democratica tunisina o se invece riveleranno l’ingovernabilità del corso rivoluzionario. La scelta per un sistema elettorale marcatamente proporzionale rappresenta la volontà di dare un segno netto di discontinuità con un passato dove ogni differenza di posizione era artificiosamente ricomposta all’interno del partito unico, ma il rischio di favorire la frammentazione del sistema è reale. I timori sono tanto più comprensibili se si pensa che le intenzioni di voto registrate in diversi sondaggi indipendenti rivelano una grande indecisione dell’elettorato tunisino di fronte al gran numero di candidati. L’astensionismo rappresenta un’altra variabile da tenere in considerazione, specie se si ricorda la prova deludente della campagna di registrazione alle liste elettorali.

Tra i molti simboli e sigle dei partiti politici possono poi camuffarsi facilmente gli esponenti dell’ex partito di regime, il Rassemblement Constitutionnel Démocratique. La scommessa elettorale non è, infatti, solo o semplicemente quella di trovare dirigenti affidabili per una transizione ordinata alla democrazia, ma soprattutto di trovarne di nuovi, non compromessi con il vecchio regime. Le dichiarazioni dell’attuale capo del governo Beji Caid el-Sebsi che, smentendo le voci di un suo ritiro a vita privata dopo la conclusione della fase transitoria, si è autocandidato per un seggio ministeriale sono indicative.

L’altra grande variabile che potrà incidere sul voto e soprattutto sulla governabilità del sistema a urne chiuse rimane il rapporto con l’Islam. La semplificazione, anche fin troppo ovvia e che tuttavia ha caratterizzato il dibattito politico nei mesi trascorsi, è stata quella di intendere il confronto tra islamisti e riformisti laici come quello tra forze antidemocratiche oscurantiste e forze democratiche. La demonizzazione di al-Nahda ha finito con ogni probabilità per far guadagnare consensi agli islamisti, invece di servire la causa dei partiti laici. Sicuramente al-Nahda si confermerà come uno dei principali partiti tunisini, resta da vedere se riuscirà davvero a essere il primo: sicuramente potrà contare su un ampio seguito nel Sud del paese e nei distretti rurali, ma nelle grandi città il suo peso è più limitato. Stime credibili danno gli islamisti al 25-30% dei consensi, risultato che sarebbe sicuramente sufficiente a rendere al-Nahda un partner essenziale per il governo del paese e contestualmente porterebbe ad accogliere nella scrittura della nuova Carta costituzionale alcune delle sue istanze confessionali. L’inserimento nel testo costituzionale di riferimenti all’Islam e alla Shari’a costituirebbe un cambio storico rispetto alla storia laica del paese che però le altre forze politiche non sembrano essere intenzionate o capaci di evitare. In ogni caso l’inclusione degli islamisti nel sistema politico è la sola via praticabile per prevenirne la radicalizzazione e per dar prova della reale democraticità del sistema. A far giustizia del populismo al quale si appellano movimenti come al-Nahda saranno al più le politiche discusse e adottate per far fronte ai diversi problemi concreti del paese.

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