La Turchia si avvicina alle elezioni amministrative del 31 marzo con una economia in affanno. Proprio l’economia, che è stata uno dei principali punti di forza del Partito Giustizia e Sviluppo (Akp) in sedici anni di governo, costituisce la spina nel fianco del presidente Recep Erdoğan in vista del prossimo appuntamento elettorale. Se il mantenimento di alti tassi di interesse (al 24% da settembre 2018) da parte della Banca centrale è riuscito ad arrestare la svalutazione della lira turca e a fare scendere l’inflazione al 20%, dopo il picco del 25% toccato a ottobre 2018, la situazione economica del paese rimane difficile, la produzione industriale rallenta mentre cresce il disagio della popolazione di fronte all’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità. Le misure predisposte dal governo in questi mesi appaiono però più un tampone di breve periodo per evitare il calo di consensi alle urne.
La politica mediorientale continua a dominare l’agenda di politica estera del governo turco. Il focus principale rimane sulla vicina Siria, dove le ambizioni turche non sembrano convergere con gli interessi degli altri grandi attori esterni nonché partner di Ankara nel processo di Astana, Russia e Iran, anch’essi interessati a trarre vantaggio dal vuoto di potere che l’annunciato ritiro delle truppe statunitensi produrrà nel nord-est del paese. In generale, in Medio Oriente l’obiettivo della Turchia è di evitare l’emergere di attori ed equilibri in contrasto con i propri interessi geostrategici e di sicurezza. Al di là del Medio Oriente, le principali direttrici dell’azione esterna riguardano le relazioni con la Russia e gli Stati Uniti.
Quadro interno
La crisi valutaria di agosto 2018, con la lira turca ai minimi storici rispetto al dollaro, ha prodotto una netta riduzione della crescita economica nel terzo trimestre del 2018 all’1,6%, rispetto al 5,3% del secondo trimestre e al 7,2% del primo trimestre. In attesa del dato per l’intero 2018, le previsioni per il 2019 (Economist Intelligence Unit) indicano un tasso di crescita dell’1%, con una ripresa a partire dal biennio successivo. In questi mesi, la svalutazione della lira, unita al vertiginoso aumento dei prezzi dei generi alimentari, ha fatto registrare una forte riduzione dei consumi, con un conseguente calo delle vendite e una contrazione della produzione industriale del 5,7% (dato di ottobre) e del 7% nel settore manifatturiero.
Segnali preoccupanti per l’Akp in vista delle elezioni amministrative di fine marzo. Gli effetti negativi del deterioramento dell’economia potrebbero infatti avere ripercussioni sul voto ed erodere i consensi nei confronti del partito di governo. Alcuni sondaggi attestano già un calo del gradimento per l’Akp, che si aggirerebbe tra il 32 e 35%, rispetto al 42,6% delle elezioni politiche dello scorso giugno, pur confermandosi il primo partito del paese. La posta in gioco più importante sono le grandi città: Ankara e Istanbul, cuore economico e finanziario del paese, che contribuisce al 31% del Pil nazionale. Pur essendo entrambe le città amministrate da oltre vent’anni dal partito di Erdoğan, la vittoria qui potrebbe non essere così scontata nonostante i nomi di primo piano messi in campo, quali Binali Yıldırım, attuale presidente del parlamento ed ex primo ministro, e Mehmet Özhaseki, vice presidente dell’Apk, che corrono rispettivamente a Istanbul e nella capitale.
Proprio nelle due principali città del paese, a febbraio, il governo ha autorizzato l’apertura di punti gestiti dalle autorità locali per la vendita di prodotti alimentari a costi dimezzati con l’obiettivo di contrastare l’aumento dei prezzi (arrivato a gennaio al 31%) e contenere il malcontento della popolazione. Si tratta dell’ultima di una serie di misure adottate dalle autorità turche per alleviare gli effetti negativi del rallentamento dell’economia, soprattutto sui ceti meno abbienti della popolazione, e mantenere la propria base di consenso in vista della tornata elettorale. Nello specifico, tali misure riguardano l’aumento del salario mensile minimo a 2.020 lire turche (381 dollari); l’allocazione di 62,1 miliardi di lire per progetti di assistenza sociale, lo sconto del 10% sulle bollette di gas e luce e la riduzione dell’iva su generi alimentari e medicine. Sono inoltre stati estesi fino a fine marzo gli incentivi fiscali sulla vendita di auto, elettrodomestici e mobili. Tutto ciò ha portato a un aumento della spesa pubblica che però appare difficilmente sostenibile nell’attuale situazione economica del paese. Proprio per gestire le difficoltà economiche l’Assemblea nazionale turca a metà gennaio ha attribuito a Erdoğan “poteri di emergenza” che gli consentono di adottare tutte le misure necessarie a evitare che “sviluppi negativi” nel paese contagino il sistema finanziario. Tale decisione darebbe mano libera al presidente in materia economica, rafforzando la sua posizione rispetto alla Banca centrale, sulla cui autonomia gli investitori non hanno mancato di sollevare dubbi nel corso dell’ultimo anno, in particolare prima che l’istituzione monetaria decidesse di aumentare i tassi di interesse a dispetto dei moniti del presidente sulla necessità di mantenere tassi bassi.
Come nelle elezioni di giugno, anche questa volta l’Akp correrà insieme al Partito del movimento nazionalista (Mhp), mentre sul fronte delle opposizioni il Partito buono (Iyi Parti) di Mural Akşener ha dichiarato il proprio sostegno ai candidati del Partito repubblicano del popolo (Chp) a Ankara e Istanbul. Nessuna alleanza invece verrà formata con la formazione curda, il Partito democratico dei popoli (Hdp) che dal canto suo si è unito ad altre formazioni curde per riuscire a ottenere una percentuale di consensi, soprattutto nelle province dell’Anatolia sud-orientale a maggioranza curda, superiore all’8 % delle amministrative del 2014 e pari a quella delle legislative di giugno (11,6%). Vale la pena ricordare che negli ultimi anni il governo ha commissariato tutte le amministrazioni locali a guida curda per presunti legami dei sindaci con il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), considerato un’organizzazione terroristica da Turchia, Unione europea e Stati Uniti. Prosegue sul piano interno lo scontro tra forze di sicurezza turche e militanti del Pkk, ripreso nel 2015. Secondo il ministero degli Interni turco, nel 2018, 1.801 terroristi sono stati uccisi e 641 catturati, mentre sono state 88 le perdite tra le forze di sicurezza.
I nomi del Chp per le due principali municipalità metropolitane (trentuno in tutto) del paese sono stati resi noti a dicembre. Si tratta di Mansur Yavaş, fuoriuscito del Mhp e già candidato del Chp nel 2014 sempre ad Ankara, e di Ekrem İmamoğlu per Istanbul. Nonostante sia attualmente alla guida del distretto di Beylikdüzü nella parte europea della città, İmamoğlu non è un personaggio conosciuto al grande pubblico al pari dell’ex primo ministro Yldırım.
In questa fase pre-elettorale, inoltre, continua e si inasprisce la stretta del governo nei confronti di quelli che vengono considerati i “nemici interni”. A più di due anni e mezzo dal tentativo di colpo di stato in Turchia proseguono le epurazioni di presunti affiliati all’organizzazione di Fethullah Gülen, il predicatore islamico in esilio volontario negli Stati Uniti dalla fine degli anni Novanta, accusato di essere il responsabile del fallito golpe. A febbraio, più di mille persone sono state arrestate, in un’unica operazione da parte delle forze di polizia, con l’accusa di appartenere all’organizzazione gulenista, Feto, che in Turchia viene considerata terrorista al pari del Pkk. Secondo la stampa turca, da luglio 2016 circa 160.000 persone – inclusi giornalisti e accademici – sono state arrestate nel paese, mentre altre 150.000 sono state sollevate dai loro incarichi nelle istituzioni dello stato. Inoltre, negli ultimi tempi la campagna contro Feto si è intensificata anche oltre i confini della Turchia, colpendo gli appartenenti all’organizzazione in quei paesi, dal Gambia al Kosovo, dove la presenza gulenista, soprattutto attraverso le scuole, si era maggiormente radicata nel coro degli anni.
Relazioni esterne
La Siria rimane il principale focus della politica regionale di Ankara. Attraverso la partecipazione al processo di Astana, insieme a Russia e Iran, la Turchia sta cercando, con non poche difficoltà, di ritagliarsi uno spazio di influenza sul futuro assetto della Siria post conflitto. Se qui l’obiettivo della Turchia rimane immutato – contenere le istanze autonomiste dei curdi siriani ed evitare che questi, in virtù dei loro legami con il Pkk, possano costituire una minaccia alla sicurezza del paese, fornendo basi e supporto logistico all’organizzazione separatista – le divergenze di interessi tra gli attori coinvolti complicano i piani di Ankara. Infatti, nonostante l’annuncio del ritiro delle truppe statunitensi dal nord della Siria (zona di Manbij) dato dal presidente statunitense Donald Trump lo scorso dicembre sia stato accolto con grande favore dalle autorità turche, che pensavano così di potere finalmente avere mano libera in quella parte del paese, Ankara non è ancora riuscita ad attuare il suo intervento militare per “liberare” l’area dalle forze curde e creare zona cuscinetto al suo confine meridionale. Tuttavia, qui l’ostacolo principale non sembra più essere rappresentato dagli Stati Uniti, che con il consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton avevano chiesto garanzie per le Unità curde di protezione popolare (Ypg), importanti alleati sul terreno nella lotta allo Stato islamico (IS) in Siria, quanto piuttosto dai giochi tra Mosca, Teheran e Damasco. Al summit di Sochi dello scorso 14 febbraio, infatti, i due principali alleati di Bashar al-Assad hanno affermato che ogni intervento militare turco deve essere concordato con il regime siriano. Impresa non di poco conto considerato che il dialogo tra Ankara e Damasco è stato interrotto nel 2011 e la strada per ricucirlo si presenta tutta in salita, dopo che per anni la leadership turca ha sostenuto il regime change appoggiando gruppi dell’opposizione siriana. Divergenze all’interno del trio di Astana permangono anche sul futuro di Idlib, ultima roccaforte dei ribelli anti-Assad. Lo scorso settembre la Turchia, nel timore che un intervento armato dell’esercito siriano provocasse una nuova ondata di rifugiati in territorio turco (oltre 3,6 milioni i siriani presenti nel paese), era riuscita a convincere Mosca a spingere per la firma di un cessate il fuoco con la promessa di liberare la provincia dalle forze jihadiste, facendo leva sulle milizie moderate. Tuttavia, di fatto ciò non è avvenuto e le forze legate ad al-Qaida hanno consolidato la loro presenza.
La Turchia deve dunque giocare bene le sue carte nella partita siriana e può senz’altro contare su alcuni asset, primo tra tutti la presenza di propri “boots on the ground” nel nord della Siria grazie alle operazioni militari “Scudo dell’Eufrate” e “Ramo d’ulivo”, lanciate rispettivamente nel 2016 e nel 2018. Al di là della Siria, la Russia rimane un importante partner economico ed energetico per Ankara, che sta cercando di ampliare la cooperazione con Mosca anche al settore militare con l’acquisto del sistema di difesa missilistico S-400, tra la forte opposizione di Washington, preoccupata del fatto che i russi possano acquisire informazioni sensibili sulla tecnologia militare della Nato. Per questa ragione il Congresso americano sta esercitando pressioni sulla Turchia perché non proceda all’acquisto della tecnologia russa – la prima consegna sarebbe prevista per la primavera del 2019 – che potrebbe costare ad Ankara l’adozione di sanzioni nei suoi confronti. Il Congresso americano a inizio gennaio ha infatti approvato una disposizione che ritarda la consegna dei caccia F-35 fino alla presentazione da parte dell’amministrazione Trump di un rapporto su possibili sanzioni alla Turchia.
Quanto all’Iran, se la Turchia intende evitare che Teheran consolidi la sua influenza in Siria, così come in Iraq e Libano, i due paesi si trovano, seppur con i dovuti distinguo, sullo stesso fronte di opposizione alle mire egemoniche dell’Arabia Saudita sullo scacchiere mediorientale. L’uccisione del giornalista del Washington Post Jamal Khashoggi nel consolato saudita a Istanbul lo scorso ottobre ha segnato una ulteriore distanza tra Ankara e Riyadh in un contesto di relazioni diplomatiche già tese per il sostegno turco sia alla Fratellanza musulmana nella regione sia al Qatar nella crisi che lo vede contrapposto ad Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein ed Egitto da oltre un anno e mezzo. L’asse con il Qatar si mantiene dunque come il principale perno delle relazioni di Ankara nell’attuale contesto mediorientale in cui la leadership turca mira a contrastare l’affermazione di attori egemoni e di visioni regionali contrapposte ai propri interessi. Tuttavia, per quanto contraria alla politica regionale saudita, nelle relazioni con Riyadh Ankara si muove con grande cautela, considerati i miliardari investimenti sauditi che la Turchia non può permettersi di perdere.
Negli ultimi anni, in generale, si è assistito a una politica più muscolare da parte della Turchia che ha gradualmente sostituito il soft power che aveva contraddistinto la sua postura regionale nel decennio precedente. L’approccio muscolare non riguarda soltanto gli interventi militari in Siria e i bombardamenti alle postazioni del Pkk nelle montagne dell’Iraq settentrionale, ma anche altri contesti come il Mediterraneo orientale, dove Ankara non ha esitato a mandare delle navi per difendere gli interessi energetici dei turco ciprioti e i propri nei giacimenti di gas contesi a largo di Cipro. Secondo fonti stampa, che però non trovano conferma ad Ankara, sembrerebbe che la Turchia si prepari a effettuare delle esercitazioni navali nel Mediterraneo orientale per mandare un segnale forte ai membri dell’Eastern Mediterranean Gas Forum (Egitto, Israele, Cipro, Grecia, Italia, Giordania e Autorità Palestinese) che intendono effettuare esplorazioni energetiche nella regione, comprese le zone contese.
Nonostante le dispute sul gas, segnali di distensione sembrano profilarsi nelle relazioni con la Grecia dopo la visita del primo ministro Alexis Tsipras in Turchia a inizio febbraio. Sebbene non siano stati conclusi accordi su nessuno dei fronti aperti – dal trattamento delle minoranze etniche nei rispettivi paesi alle questioni di demarcazione territoriale, al controllo dei confini comuni, ai diritti di sfruttamento economico di zone a sovranità contestata e, non da ultimo, alla questione di Cipro – l’incontro tra il primo ministro greco e il presidente Erdoğan è stato considerato un passo importante nel processo di miglioramento dei rapporti bilaterali.
Una fase di tensione si è invece aperta con la Cina dopo che il governo di Ankara è tornato a esprimersi duramente nei confronti del trattamento riservato dalle autorità di Pechino agli uiguri, minoranza musulmana turcofona concentrata nella regione cinese dello Xinjiang. Dopo avere rappresentato una delle principali criticità politiche a livello bilaterale, negli ultimi anni la questione uigura era passata sotto traccia nella retorica ufficiale del governo turco, interessato a trarre vantaggio dagli ingenti investimenti cinesi nell’ambito della “Belt and Road Initiative” (Bri), la nuova via della seta cinese che ha identificato nella Turchia un importante snodo di collegamento terrestre e marittimo tra l’Asia e il Mediterraneo orientale. Se la difesa dei musulmani nel mondo è tradizionalmente uno dei cavalli di battaglia del presidente Erdoğan, anche in chiave elettorale, resta da vedere quali saranno le ripercussioni sulla cooperazione economica bilaterale e sui progetti di investimenti cinesi in Turchia.