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Commentary

Turchia: la geopolitica di Erdoğan

Valeria Talbot
11 febbraio 2020

Dal Medio Oriente al Nord Africa attraverso il Mediterraneo orientale, la Turchia sta cercando di affermare la propria influenza in una regione in profondo riassetto e ancora fortemente instabile. Mossa tanto dall’ambizione di assurgere al ruolo di potenza regionale quanto da precisi interessi geopolitici, securitari ed energetici, Ankara si è spinta a giocare più partite su tavoli molto diversi. Se non è facile dire se ci sia una “grand strategy” dietro le mosse e le ambizioni turche, non si può negare che la Turchia sia uno degli attori più attivi e assertivi dello scacchiere mediorientale e che la sua politica muscolare, dalla Siria alla Libia fino alle controverse esplorazioni energetiche al largo di Cipro, abbia sollevato non pochi interrogativi, e timori, negli altri paesi della regione e nelle potenze occidentali.

Da quando l’AKP – il Partito Giustizia e Sviluppo guidato da Recep Tayyip Erdoğan – è giunto al governo alla fine del 2002, il Medio Oriente è diventato terreno privilegiato della politica estera di Ankara. Sono tuttavia lontani gli anni in cui la Turchia, aspirante power broker nelle crisi regionali e promotrice di una politica di “zero problemi con i vicini”, veniva indicata come “modello” per i paesi arabi in transizione dopo le rivolte del 2011.

Negli ultimi anni Ankara si è invece trovata in un progressivo isolamento, da cui sta tentando a fatica di uscire, dovuto sia al deterioramento del contesto regionale sia a politiche rivelatesi controproducenti e non da ultimo a un’azione esterna sempre più connotata ideologicamente a sostegno della Fratellanza musulmana. Questo l’ha portata alla rottura delle relazioni diplomatiche con l’Egitto di Abdel Fattah al-Sisi, all’allontanamento da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, accesi oppositori del movimento, e a un allineamento con il Qatar in quella che fino a ora si è configurata come una politica “win-win” per entrambi: sostegno militare turco al piccolo emirato da un lato, capitali qatarini all’economia turca in affanno dall’altro.

L’attivismo di Ankara si inserisce dunque all’interno della più ampia competizione per l’influenza in Medio Oriente e Nord Africa. Competizione che negli ultimi anni ha visto in prima linea Arabia Saudita e Iran, con i rispettivi alleati, e che ha spinto Ankara a intervenire per mettere un freno alle aspirazioni egemoniche altrui e allo stesso tempo preservare i propri interessi in quei teatri di crisi dove questi sono maggiormente a rischio.

La partita più importante per la Turchia continua a giocarsi in Siria. Dopo avere sostenuto per anni il composito fronte dei gruppi di opposizione al regime di Bashar al-Assad, la sfida principale per Ankara oggi è quella di assicurarsi voce in capitolo nel futuro assetto e nella ricostruzione della Siria, la cui pacificazione tuttavia appare ancora lontana. In quest’ottica, a partire dall’inizio del 2017, il governo turco ha lavorato con Russia e Iran nel processo di Astana per una soluzione negoziale del conflitto, dopo che l’intervento militare russo a fianco di Damasco ha allontanato la prospettiva di un rovesciamento del regime siriano. Ciò non ha comunque impedito alla Turchia di intervenire militarmente, attraverso tre operazioni – agosto 2016, gennaio 2018 e ottobre 2019 – nel nord della Siria per neutralizzare quella che, agli occhi di Ankara, rappresenta una grave minaccia alla propria sicurezza nazionale, e cioè la formazione lungo il suo confine meridionale di una fascia territoriale sotto il controllo delle Unità di protezione popolare (YPG). Le milizie curde, che hanno costituto il principale alleato degli Stati Uniti sul campo nella lotta allo Stato islamico in Siria, sono invece considerate dalla Turchia una compagine terroristica affiliata al PKK, il Partito dei lavoratori del Kurdistan che Ankara combatte da oltre trent’anni sul piano interno. Una presenza militare quella turca – tanto nel Nord quanto nelle postazioni intorno alla zona di de-escalation di Idlib, l’ultima enclave di resistenza anti-regime – che sembra destinata a permanere, almeno finché Ankara non vedrà garantiti i propri interessi, nonostante i costi che ciò comporta.

Oltre al nodo curdo, un’altra questione cruciale per Ankara in Siria è di evitare un nuovo flusso di profughi alla sua frontiera e allo stesso tempo di favorire la ricollocazione di centinaia di migliaia degli oltre 3,6 milioni di rifugiati siriani attualmente presenti in Turchia nelle aree “stabilizzate” del nord del paese. Se nel breve termine il governo turco necessita di una valvola di sfogo per contenere il crescente malcontento interno nei confronti dei rifugiati, molti interrogativi si aprono sulle conseguenze del demographic engineering nelle zone siriane sotto il controllo turco.

Al di là della Siria, negli ultimi mesi la Turchia ha accresciuto il suo coinvolgimento sull’altro fronte caldo dello scenario mediterraneo: la crisi libica che, come il conflitto siriano, ha assunto tutti i tratti di una guerra per procura tra attori regionali e internazionali. Se il sostegno di Ankara al Governo di accordo nazionale (GNA) di Fayez al-Serraj non è una novità degli ultimi mesi ma si colloca nel solco di una cooperazione avviata da tempo, l’intesa militare firmata a fine novembre tra Ankara e Tripoli accresce il ruolo turco in un contesto “fuori area” in cui l’interesse di sicurezza nazionale turco non appare immediatamente ravvisabile. In virtù dell’accordo la Turchia si è impegnata a fornire al GNA veicoli, attrezzature e armi per operazioni terrestri, navali e aeree, nonché a dispiegare truppe sul suolo libico dopo il voto favorevole del Parlamento di Ankara a inizio gennaio. Il sostegno militare rientra nel quadro di un accordo più ampio che riguarda anche, e soprattutto, la ridefinizione dei confini marittimi tra Turchia e Libia e cioè delle rispettive zone economiche esclusive in un’area – che va dalla parte sud-occidentale della penisola anatolica alle coste nord-orientali del paese nordafricano – strategica per le dinamiche energetiche del Mediterraneo orientale.

Si tratterebbe dunque di un do ut des tra Turchia e GNA che consente ad Ankara di avere la sponda di al-Serraj per entrare, a gamba tesa, nella partita del gas e sparigliare le carte del gioco energetico di quei paesi della regione – Cipro, Egitto, Grecia e Israele – che hanno avviato progetti di sviluppo congiunto del gas nel Mediterraneo orientale. Tra questi anche l’ambizioso progetto di gasdotto sottomarino EastMed, volto a trasportare gas da Israele ed Egitto verso l’Europa proprio attraversando proprio quel tratto di mare interessato dall’accordo Turchia-GNA. La Turchia sembra dunque intenzionata non solo a ostacolare giochi da cui è stata esclusa, ma anche ad avviare a breve esplorazioni energetiche al largo della Libia, come annunciato dallo stesso presidente Erdoğan un paio di settimane fa. Ciò si inserisce nel solco delle attività esplorative che nell’ultimo anno navi di perforazione turche (scortate da navi militari) hanno condotto nelle acque (contese) al largo di Cipro, provocando forti tensioni con i governi di Atene e Nicosia e con la stessa Bruxelles. Da anni Ankara chiede, a nome della Repubblica turca di Cipro Nord, riconosciuta dalla sola Turchia, che ci sia uno sfruttamento congiunto delle risorse di gas su cui la Repubblica di Cipro, sostenuta dalla Grecia, rivendica i propri diritti in quella che considera la sua Zona economica esclusiva. Dal canto suo la Turchia, fortemente dipendente dalle importazioni energetiche per i suoi consumi interni, ha tutto l’interesse a diversificare le proprie fonti di approvvigionamento e in prospettiva a ridurre, così come l’Europa, la propria dipendenza dal gas russo, sebbene l’inaugurazione del gasdotto TurkStream a inizio gennaio indichi una direzione diversa. Da Mosca oggi Ankara non sembra potere prescindere, non solo per il gas, ma in tutti i teatri di crisi mediorientali in cui si trova a operare.

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MENA Turchia
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AUTORI

Valeria Talbot
ISPI Co-Head MENA Centre

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