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Commentary

Turchia: le nuove sfide al Sultano Erdoğan

Valeria Talbot
02 Dicembre 2019

Nel terzo trimestre del 2019 il Pil della Turchia è tornato a crescere dello 0,9%, dopo tre trimestri consecutivi di contrazione economica seguiti alla crisi valutaria del 2018. Questi i dati appena pubblicati dall’Istituto di statistica turco indicano anche nel settore agricolo, il motore della crescita negli ultimi mesi, con un più 3,8%. Se anche industria e servizi sono aumentati rispettivamente dell’1,6% e dello 0,6%, permane invece la forte contrazione del settore delle costruzioni, (-7,8%), principale traino della crescita negli anni scorsi.

Secondo il Global Wealth Report del Credit Suisse, la Turchia è uno dei paesi che nell’ultimo anno ha subito maggiori perdite in termini di ricchezza: 250 miliardi di dollari tra metà 2018, quando è scoppiata la crisi della lira turca, fino alla metà del 2019. La svalutazione della lira turca del 20% rispetto al dollaro nel corso dell’ultimo anno e il crollo dei prezzi del settore immobiliare sono tra le cause principali della perdita del 16% di ricchezza in Turchia.

In questi mesi, una politica monetaria meno rigida è stata accompagnata da un aumento della spesa da parte del governo che punta così a favorire la ripresa economica e a stimolare la crescita. Secondo le previsioni del governo, infatti, l’economia turca dovrebbe crescere dello 0,5% nel 2019 e del 5% nel 2020, lasciandosi alle spalle la fase recessiva. Da quando si è insediato lo scorso luglio, il nuovo governatore della Banca centrale Murat Uysal ha ridotto i tassi di interesse di 10 punti percentuali, passando dal 24% all’attuale 14%. L’ultimo taglio di 2,5 punti percentuali alla fine di ottobre, giustificato da una progressiva riduzione dell’inflazione – 8,5% a ottobre – e da un inflation outlook positivo, è stato superiore alle aspettative degli economisti. Secondo il Fondo monetario internazionale, la Turchia dovrebbe invece mantenere tassi di interesse elevati finché la riduzione dell’inflazione non sarà stabile e duratura. Infatti, se i tassi fossero ridotti ulteriormente, non è escluso il rischio di una nuova crisi monetaria.

È ben nota, tuttavia, la convinzione del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, in contrasto con le teorie economiche, che il mantenimento di bassi tassi di interesse serva a ridurre l’inflazione. Proprio sui tassi di interesse si è così consumato il braccio di ferro con il predecessore di Uysal, Murat Çetinkaya, sollevato dall’incarico lo scorso luglio.

Di altro parare sono gli economisti: alti tassi servirebbero a sostenere la lira e a ricostituire le riserve di valuta estera della Banca centrale. Il sostegno alla lira è infatti costato miliardi di dollari all’istituzione monetaria turca, che però potrebbe non avere i mezzi necessari per sostenere ancora la moneta nazionale in caso sia di sanzioni da parte degli Stati Uniti sia di rialzo dei tassi mondiali.

Se la Turchia ha evitato le sanzioni statunitensi per il suo intervento militare lanciato a inizio ottobre nel nord della Siria – attraverso l’operazione denominata “Sorgente di pace” –, su Ankara pende ancora la spada di Damocle delle sanzioni per l’acquisizione, per un valore di 2,5 miliardi di dollari, del sistema di difesa missilistico S-400 dalla Russia. Infatti, nonostante la riluttanza del presidente Trump a imporre sanzioni all’alleato Nato, il Congresso americano preme fortemente perché misure sanzionatorie vengano adottate, come previsto dal Countering America’s Adversaries Through Sanctions Act (CAATSA) del 2017 nei confronti di tutti quei paesi che acquistano componenti di difesa dalla Russia. Tali misure – che possono andare dall’esclusione della Turchia dai prestiti USA e internazionali a sanzioni nei confronti di banche e aziende turche – sembrerebbero inevitabili dopo che la Turchia ha iniziato a testare il nuovo sistema, nonostante le pressioni e gli avvertimenti da parte statunitense.

L’incontro tra Erdoğan e Trump a Washington lo scorso 13 novembre, al di là delle affinità personali tra i due leader, ha lasciato aperte le tensioni su una serie di dossier che in questi anni hanno profondamente scosso le relazioni bilaterali: dall’acquisizione turca del sistema S-400, all’inchiesta statunitense sulla seconda banca turca Halkbank per violazione delle sanzioni nei confronti dell’Iran, all’estradizione di Fethullah Gülen, ai contrasti sul ruolo delle forze curde (le Unità di protezione popolare, YPG), nel teatro di guerra siriano fino all’intervento militare turco nel nord della Siria.

Al di là dei rapporti con Washington, sul piano interno, l’operazione militare in Siria ha goduto in Turchia di un ampio sostegno trasversale a livello politico e di opinione pubblica con l’unica eccezione del Partito democratico dei popoli (HDP), la formazione curda negli ultimi anni nel mirino della stretta operata dal governo che la considera espressione del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), da tempo nella lista delle organizzazioni terroristiche non solo in Turchia, ma anche negli Stati Uniti e in Europa.

Dalle elezioni amministrative di marzo 2019 ventiquattro sindaci dell’HDP – tra cui i primi cittadini di Dyarbakir, Van e Mardin – sono stati rimossi dal loro incarico con l’accusa di terrorismo e sostituiti con commissari di nomina governativa. In risposta, membri della formazione, la seconda forza di opposizione all’interno dell’Assemblea nazionale, hanno richiesto elezioni anticipate cercando la sponda degli altri partiti di opposizione, al momento tuttavia senza successo. Quello delle elezioni anticipate appare infatti uno scenario altamente improbabile e, al di là della frammentazione del fronte delle opposizioni, non sembrano esserci oggi elementi che possano mettere in discussione la tenuta del governo dell’AKP, e la sua alleanza col Movimento nazionalista (MHP) fino al voto del 2023.

Nel panorama politico turco si prepara a entrare entro la fine dell’anno la nuova formazione dell’ex ministro delle Finanze e vice primo ministro Ali Babacan, fuoriuscito dalle fila dell’AKP la scorsa estate per dare vita a un progetto politico alternativo volto a portare il paese fuori dal “tunnel buio” in cui lo hanno condotto diciassette anni di governo a partito unico. È quanto dichiarato dallo stesso Babacan in una recente intervista televisiva, in cui ha indicato l’indebolimento delle istituzioni, il deterioramento delle libertà e dello stato di diritto nonché la mancanza di trasparenza come i problemi principali del paese sotto la guida dell’AKP.

Sebbene l’ex presidente Abdullah Gül abbia declinato l’invito a far parte del nuovo progetto politico di Babacan, il suo sostegno sarebbe fondamentale per attrarre consensi nelle fila dei delusi dell’AKP. Entro la fine dell’anno è attesa anche la nuova formazione politica dell’ex primo ministro Ahmet Davutoğlu, altro illustre fuoriuscito dell’AKP. Se resta da vedere quali saranno i numeri e la forza di attrazione delle nuove forze politiche, appare sempre più evidente che la principale sfida Erdoğan non verrà dai tradizionali partiti di opposizione.

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MENA Turchia Recep Tayyip Erdoğan
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AUTORI

Valeria Talbot
Co-Head, ISPI MENA Centre

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