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Focus Mediterraneo allargato n.14
Turchia: l’emergenza non ferma le ambizioni regionali
Valeria Talbot
23 settembre 2020

Dopo la fine delle misure di contenimento e la ripresa delle attività la Turchia si trova a gestire una seconda ondata di contagi da Covid-19 e una difficile situazione economica. Tuttavia, nuove chiusure non sembrano all’orizzonte in un paese che non può permettersi una nuova frenata delle attività produttive. Sul piano esterno, la pandemia di coronavirus non ha rappresentato un game changer per la politica estera della Turchia, impegnata attivamente su più fronti dal Medio Oriente, all’Africa e al Mediterraneo orientale. Proprio quest’ultimo durante i mesi estivi è stato teatro di una escalation di tensioni tra Ankara e Atene, che ha investito anche le relazioni con l’Unione europea.

 

Quadro interno

Con oltre 300.000 casi, la Turchia è il terzo paese della regione del Mediterraneo allargato per numero di contagi da coronavirus dopo Iran e Iraq. A fine giugno il governo ha tolto tutte le restrizioni adottate nei mesi precedenti per limitare la diffusione della pandemia, e che erano state progressivamente allentate già a maggio con la riapertura dei centri commerciali. Di fatto il paese non ha conosciuto un lockdown prolungato, ma chiusure limitate ai weekend e in concomitanza delle feste nazionali, con l’eccezione degli over 65 e degli under 18, costretti al confinamento totale fino a fine giugno. La curva dei contagi, qui come altrove, ha ripreso progressivamente a salire a partire da inizio agosto dando avvio a quella che il ministro della Salute Farhettin Koca ha definito la seconda fase di picco. Il coronavirus non ha risparmiato figure illustri della politica, come l’ex primo ministro Binali Yildirim e Ali Babacan, ex ministro delle Finanze di Recep Tayyip Erdoğan e dallo scorso marzo leader del nuovo partito di opposizione Democrazia e Progresso. Particolarmente colpito anche il personale medico sanitario che a inizio settembre rappresentava l’11% dei contagiati in Turchia[1]. L’Associazione medica turca (Ttb) non ha mancato di criticare le difficili condizioni di lavoro in cui gli operatori sanitari si sono trovati a operare nonché le cifre ufficiali del contagio diffuse dal ministero della Salute che risultano difformi rispetto a quelle delle amministrazioni locali. Fortemente critici anche i sindaci di Ankara e Istanbul, entrambi esponenti del Partito repubblicano del popolo (Chp).

Nonostante la ripresa dei contagi, con la capitale Ankara che presenta il più alto numero di casi, non sembra che le autorità turche intendano reintrodurre misure restrittive, soprattutto in considerazione della difficile situazione economica. Il Covid-19 ha infatti contribuito a rendere ancora più instabile l’economia turca, che a fatica si stava riprendendo dalla crisi valutaria dell’estate del 2018 e dalla recessione che ne è seguita. Nel secondo trimestre dell’anno, di fatto nei mesi di chiusura delle principali attività produttive del paese e dei collegamenti internazionali, il Pil turco si è contratto dell’11% rispetto al trimestre precedente[2]. Secondo il ministro turco delle Finanze, nel 2020 l’economia turca dovrebbe contrarsi del 2%, mentre il Fondo monetario internazionale (Fmi) stima una contrazione ben maggiore, pari al 5%. Tra i settori più colpiti vi sono il manifatturiero, che si è contratto del 18%, e i servizi – soprattutto commercio, trasporti, catering e settore alberghiero – che si sono ridotti del 25%. Tra i settori più colpiti spicca il turismo, i cui introiti nel 2019 hanno rappresentato il 4% del Pil. Sebbene il mese di agosto abbia segnato una ripresa rispetto alla fase precedente, grazie anche alla ripartenza dei collegamenti aerei con la Russia, si stima che il comparto turistico subirà una riduzione di almeno il 70% nell’anno della pandemia. Dal canto suo, l’export turco ha subito un calo del 35% a fronte di importazioni che invece si sono ridotte del 6,3%[3], riportando in disavanzo il bilancio delle partite correnti – meno 21,6 miliardi di dollari nei primi sette mesi dell’anno – che invece aveva segnato un inusuale surplus nel 2019.

Per ridare vigore all’economia e cercare di limitare i danni prodotti dalla pandemia il governo ha accelerato le politiche espansive intraprese già prima della diffusione del contagio nel paese, iniettando a fine luglio liquidità per 3 miliardi di dollari nelle tre principali banche pubbliche del paese attraverso il Turkey Wealth Fund. Se l’incremento del credito alle banche, che ha segnato un +66,4%, rispetto al 34,7% dell’anno precedente, ha contribuito da un lato a ridare ossigeno a imprese e famiglie, dall’altro ha destabilizzato la lira turca che nel corso dell’anno ha perso il 20% del suo valore rispetto al dollaro. La forte dipendenza dai finanziamenti esteri costringe il paese a un difficile equilibrio tra il mantenimento della stabilità finanziaria e la crescita economica. Fino a fine giugno la Banca centrale turca ha utilizzato 65 miliardi di dollari di riserve di valute estere per sostenere la moneta nazionale. Ma quando a inizio agosto la lira è stata lasciata fluttuare il suo valore si è ridotto del 3%. Difficilmente la Turchia potrà sostenere a lungo le pressioni sulla sua valuta se la Banca centrale non interverrà ad alzare il tasso di interesse, ridotto all’8,25%, come fece nel 2018. Tuttavia, non sembrano sussistere oggi le condizioni per un’azione autonoma della Banca centrale rispetto alla linea dei tassi bassi sostenuta dal presidente Erdoğan.

Sul piano interno, continua la stretta del governo sulle opposizioni politiche. Ciò è particolarmente evidente a Istanbul dove crescono le difficoltà del sindaco del Chp Ekrem Imamoğlu nella gestione della città, non solo nella fase della pandemia, di fronte a un consiglio municipale dominato dal partito di governo Giustizia e Sviluppo (Akp) e alle azioni del governo per “riappropriarsi” di quello che viene considerato il cuore economico-finanziario del paese – la sola Istanbul produce infatti il 31% del Pil nazionale. Nel corso dell’ultimo anno, cioè da quando Imamoğlu è stato eletto, diversi poteri municipali sono stati inoltri trasferiti per decreto presidenziale ai ministeri. Particolarmente controversa è la realizzazione del Canale di Istanbul, un mega progetto voluto da Erdoğan per collegare il Mar Nero e il Mar di Marmara bypassando il Bosforo, cui il sindaco è fortemente contrario tanto per gli ingenti costi (stimati in oltre 11 miliardi di dollari) difficilmente sostenibili in una fase di crisi economica quanto per i rischi ambientali. Ma negli scorsi mesi Istanbul è stata al centro dell’attenzione interna e internazionale anche, e soprattutto, per la decisione del Consiglio di stato di riconvertire in moschea Hagia Sophia, che nel 1934 era stata trasformata in museo nazionale dal fondatore della Repubblica turca Mustafa Kemal. Sebbene da anni Erdoğan premesse per la riconversione in luogo di culto islamico di questo edificio dal valore fortemente simbolico sia per cristiani sia per i musulmani, la decisione sembra avere un significato più politico che religioso: rinsaldare le fila intorno al presidente e al suo partito e guadagnare consensi in una difficile fase di emergenza sanitaria e di crisi economica, ma anche assicurarsi il sostegno del blocco nazionalista-islamista e degli alleati nazionalisti sui cui voti si regge la maggioranza di governo a guida Akp. Non meno importante sarebbe il messaggio lanciato ai paesi della regione mediorientale in cui la Turchia aspira a svìvolgere un ruolo di leadership. L’alto valore simbolico farebbe di Hagia Sophia un punto di riferimento religioso importante per il modello di islam politico, quello ispirato alla Fratellanza musulmana, portato avanti in questi anni con il sostegno del Qatar e in contrapposizione all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti tanto sul piano religioso quanto sul piano geopolitico nel Mediterraneo allargato.

La stretta del governo si è abbattuta anche sui social media, rimasti tra i pochi canali di informazione indipendenti in un paese in cui la libertà di stampa e di espressione è stata fortemente limitata parallelamente alla capillare estensione del controllo dell’esecutivo su organi di stampa e di informazione. Negli ultimi anni infatti non si contano le chiusure di giornali, siti e canali di informazione, spesso con l’accusa di fare propaganda terroristica o di essere affiliati a organizzazioni terroristiche, i licenziamenti e gli arresti di giornalisti non allineati con l’informazione di governo. Il World Press Freedom Index di Reporters Without Borders nel 2020 colloca la Turchia al 154 posto su 180 paesi. A fine luglio l’Assemblea nazionale turca ha approvato una legge sui social media, presentata dall’Akp e dal suo alleato nazionalista, che prevede che le piattaforme con più di un milione di utenti al giorno, come Twitter, Facebook e YouTube, abbiano un ufficio e un referente locale che verifichi e controlli la conformità dei contenuti alle leggi in vigore in Turchia e ne chieda la eventuale rimozione quando tale conformità non sussiste. La legge, che entrerà in vigore a partire da inizio ottobre, stabilisce inoltre che i dati degli utenti turchi siano conservati in Turchia. Per chi non si adegua sono previste multe che vanno dal pagamento di un’ammenda fino a 4,3 miliardi di dollari alla progressiva riduzione della banda larga fino al 90%. Ufficialmente volta a proteggere gli utenti e rafforzare la cybersecurity, di fatto la legge contribuisce ad accrescere la censura del governo nei confronti delle voci critiche che finora avevano trovato nei social media un canale privilegiato di espressione del dissenso.

 

Relazioni esterne

Né l’emergenza sanitaria né le difficoltà economiche hanno frenato l’attivismo turco in politica estera, dalla Siria alla Libia, passando per il Mediterraneo orientale. Proprio qui le attività di esplorazione del gas condotte dalla Turchia negli ultimi mesi hanno provocato un’ennesima escalation di tensione tra Ankara e Atene, sfiorando lo scontro militare e aprendo una nuova crisi nei già tesi rapporti con l’Unione europea (Ue). Da tempo la Turchia ha esplicitamente fatto capire che nella partita per il gas nel Mediterraneo non intende lasciarsi marginalizzare dagli altri attori rivieraschi – Cipro, Grecia, Egitto e Israele che hanno avviato da oltre un anno un forum multilaterale di cooperazione, il cosiddetto East Mediterranean Gas Forum –, rivendicando per sé e per la Repubblica turca di Cipro nord (riconosciuta dalla sola Turchia) il diritto di condurre trivellazioni nelle acque intorno a Cipro e in quella che considera la sua zona economica esclusiva (Zee). Su questo però si scontra con le rivendicazioni di Cipro e Grecia, che in qualità di firmatari della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, cui Ankara invece non aderisce, hanno da tempo firmato accordi per definire le rispettive zone economiche esclusive e hanno percepito come una provocazione l’accordo firmato dalla Turchia con il Governo libico di accordo nazionale (Gna) guidato da Fayez al-Serraj sulla delimitazione delle rispettive aree marittime. Non soltanto queste si sovrappongono in parte con la Zee greca, ma comprendono una fascia di mare in cui è previsto il passaggio del gasdotto sottomarino EastMed che dovrebbe trasportare il gas dai giacimenti del Levante in Europa. Sebbene lo scoppio della pandemia di coronavirus e il conseguente rallentamento della crescita economica a livello mondiale abbiano messo in stand-by gli investimenti per l’ambizioso, e costoso, progetto, l’accordo turco-libico permette ad Ankara di intralciare i giochi altrui.

Il casus belli che ha provocato la recente escalation di tensione è stato l’avvio il 24 luglio di una esplorazione energetica turca al largo dell’isola greca di Kastellorizo, situata a poche miglia dalla costa anatolica, ma in quelle che la Grecia rivendica come proprie acque territoriali. Il contrasto tra i due partner della Nato, le cui operazioni militari nelle acque del Mediterraneo orientale hanno rischiato di fare precipitare la situazione, si inserisce nel solco di una disputa che si protrae da decenni e che negli ultimi anni, cioè da quando la Turchia ha intensificato le proprie attività esplorative in quelle acque, si è inasprita, investendo anche l’Ue. Sebbene l’Unione si sia mostrata compatta nel sostenere i suoi stati membri, Grecia e Cipro, al suo interno permangono le difficoltà nel trovare una sintesi tra posizioni più intransigenti, come quelle della Francia (che ha aumentato la propria presenza militare nell’area), e posizioni più inclini alla via della mediazione e del dialogo, esemplificate dalla Germania. Se l’apertura di un “dialogo costruttivo” con la Turchia sembra essere emersa come la strada da privilegiare durante il vertice del Med 7 (Cipro, Francia, Germania, Grecia, Italia, Malta e Portogallo) svoltosi il 10 settembre in Corsica in vista del Consiglio europeo straordinario del 24 e 25 settembre, l’adozione di sanzioni europee nei confronti di Ankara è un’opzione che rimane sul tavolo. Oltre a misure di tipo economico, l’Alto rappresentante dell’Ue per la politica estera Josep Borrell ha profilato sanzioni volte a limitare le attività di esplorazione unilaterali della Turchia, che potrebbero riguardare individui e navi nonché bloccare l’accesso nei porti europei a queste ultime[4]. Già lo scorso anno l’Ue aveva adottato delle misure sanzionatorie – quali la riduzione degli aiuti di pre-adesione alla Turchia, il blocco dei negoziati per l’accordo sul trasporto aereo e di tutti i meeting di dialogo bilaterali – nei confronti di Ankara. Misure, considerate blande, che tuttavia non sono valse a dissuadere il governo turco dal perseguire la sua proiezione nel Mediterraneo orientale, divenuta una componente fondamentale della sua politica estera. Inoltre, è proprio in questa parte di Mediterraneo che il dossier del gas, tanto geopolitico quanto geoeconomico, si interseca con la questione migranti su cui il governo turco continua a tenere sotto scacco l’Europa. Questa volta però le sanzioni europee potrebbero essere più pesanti per un’economia già sotto forte pressione. In quest’ottica, il ritiro a metà settembre della nave da ricerca turca Oruc Reis dalle acque contese del Mediterraneo, ufficialmente per motivi di manutenzione, se da un lato potrebbe essere inteso come un segnale di distensione da parte della Turchia, dall’altro, e più verosimilmente secondo alcuni analisti, sarebbe una mossa tattica di Erdoğan per evitare eventuali sanzioni europee in vista del prossimo Consiglio europeo del 24 e 25 settembre[5].

Sul fronte libico, altro tassello chiave dell’ampio puzzle geopolitico del Mediterraneo allargato in cui si proietta l’azione esterna della Turchia, il sostegno militare turco (con droni, personale e forniture militari, invio di mercenari siriani) previsto dall’accordo firmato lo scorso novembre ha permesso al Gna di riguadagnare terreno nei confronti delle forze guidate dal generale Khalifa Haftar e di cambiare gli equilibri sul campo. Allo stesso tempo ha permesso ad Ankara di consolidare la propria influenza in Libia, grazie anche al solido asse con il Qatar e in aperto contrasto con altri attori regionali, quali Egitto ed Emirati Arabi Uniti che a loro volta hanno nel paese mire simili. La Turchia è riuscita così a gettare le fondamenta per assicurarsi una presenza permanente in Libia a partire dalla base navale di Misurata e dalla base aerea di al-Watiya. A ciò si aggiunge anche un possibile ruolo nell’institution-building attraverso l’accordo trilaterale di cooperazione militare con Qatar e Libia che prevede la costruzione di strutture di addestramento militare delle forze del Gna con l’obiettivo di trasformarle in un esercito regolare. Non da ultimo, sempre a metà agosto Ankara e Tripoli hanno firmato un accordo per risolvere la questione dei numerosi progetti, soprattutto nel settore delle costruzioni, che la Turchia aveva firmato con il regime di Gheddafi e rimasti in sospeso dopo lo scoppio del conflitto civile. Tale accordo apre la strada a nuovi investimenti turchi nel paese nord africano alle cui risorse energetiche Ankara guarda con grande interesse.

In campo energetico, oltre a mirare alla riduzione della dipendenza da fornitori stranieri e alla diversificazione delle fonti di approvvigionamento, la Turchia ambisce a diventare un hub del gas tra le aree ricche di risorse e il mercato europeo. In quest’ottica, si è dimostrata pronta ad agire in maniera assertiva nel perseguimento dei propri obiettivi, anche in aperto contrasto con gli altri attori regionali. Una svolta per la situazione energetica di Ankara potrebbe venire dalla scoperta, lo scorso agosto, di riserve di gas nel Mar Nero pari a 320 miliardi di metri cubi secondo stime turche. Per un paese che importa il 98% (pari a 41 miliardi di dollari nel 2019, con un impatto significativo sulla bilancia commerciale) del proprio fabbisogno di gas, se le stime fossero confermate, si tratterebbe di una vera e propria “rivoluzione” in materia energetica che consentirebbe alla Turchia di ridurre notevolmente la dipendenza dalle forniture straniere. Tuttavia, permangono gli interrogativi su quali siano l’effettiva entità e redditività dei giacimenti scoperti nonché sulla reale capacità di estrazione turca nei tempi indicati dal presidente Erdoğan, che ambiziosamente ha annunciato il lancio della produzione entro il 2023.

 

[1] A. J. Yackley, “Turkey hit by ‘second peak’ of coronavirus outbreak”, Al Monitor, 3 settembre 2020.

[2] L. Pitel, “Turkey’s economy suffers historic contraction in second quarter”, Financial Times, 31 agosto 2020.

[3] Dati Economist Intelligence Unit.

[4] “EU threatens Turkey with sanctions over Mediterranean drilling”, DW, 28 agosto 2020.

[5] C. Candar, Turkey backs off in the EastMed, but for how long?, Al Monitor, 15 settembre 2020.

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Valeria Talbot
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