La Turchia si trova ancora una volta alle prese con una crisi valutaria e con l’instabilità della sua economia che hanno pesanti ripercussioni a livello sia politico sia socio-economico. Di fronte al vertiginoso aumento dell’inflazione e al rincaro dei beni di prima necessità crescono le difficoltà della classe medio-bassa di provvedere ai propri bisogni primari, mentre resta da vedere quali saranno gli effetti di alcune misure tampone adottate dal governo, sullo sfondo della quarta ondata pandemica provocata dalla diffusione della variante Omicron nel paese. Sul piano esterno proseguono gli sforzi di Ankara volti a normalizzare le relazioni con alcuni attori mediorientali nonché con la vicina Armenia. Accanto a ciò si intensificano i tentativi di mediazione in diversi contesti di crisi.
Quadro interno
Le difficoltà dell’economia, la forte svalutazione della lira turca e l’impennata dell’inflazione hanno caratterizzato il contesto interno del paese negli ultimi mesi con importanti ricadute sul piano politico e sociale. Sebbene l’economia turca abbia continuato a crescere – il Fondo monetario internazionale a ottobre indicava una previsione di crescita del 9% per il 2021 – la debolezza della valuta nazionale e l’aumento dei prezzi al consumo rendono il quadro estremamente fragile. Da settembre a dicembre la Banca centrale turca ha operato ben quattro tagli del tasso di interesse, portandolo dal 19 al 14%, in linea con la politica del presidente Recep Tayyip Erdoğan (nota anche come Erdoganomics), fervente sostenitore dei tassi bassi come strumento di lotta all’inflazione a dispetto delle tradizionali teorie economiche. L’effetto di tali misure – che hanno anche evidenziato i sempre più stretti margini di autonomia della Banca centrale – sulla lira e sui prezzi sono stati immediati. A dicembre, nella fase più critica, il cambio nei confronti del dollaro è arrivato a 18,4 a uno. Già a inizio dicembre, proprio a causa della difficoltà di stabilizzare il tasso di cambio, il ministro delle Finanze Lütfi Elvan aveva rassegnato le dimissioni ed era stato sostituito dal proprio vice Nureddin Nebati, noto per le sue posizioni più vicine a quelle di Erdoğan. Nell’ultimo anno e mezzo, i cambi al vertice del dicastero delle Finanze così come le diverse sostituzioni di governatori (ben quattro) e vice governatori della Banca centrale non hanno giovato alla stabilità valutaria e più in generale alla situazione economica di un paese in cui l’inflazione ha continuato a crescere. I dati dell’Istituto di statistica turco hanno riportato un’inflazione al 36,08% nel mese di dicembre (era al 19,54% a settembre)[1]. Tuttavia, secondo i dati di un gruppo di economisti indipendenti, l’inflazione reale sarebbe ben più alta, intorno all’82,81%[2]. Proprio divergenze sul tasso di inflazione hanno portato, a fine gennaio, il presidente turco alla sostituzione del direttore dell’Istituto di statistica Erdal Dinçer con Erhan Çetinkaya[3]. Sul fronte opposto, i partiti di opposizione avevano invece criticato Dinçer perché, a loro giudizio, il tasso di inflazione non rispecchiava la reale situazione degli elevati prezzi al consumo.
Per porre un freno alla caduta della lira e alla spirale inflazionistica, il 20 dicembre Erdoğan ha annunciato un piano di sostegno ai depositi in valuta nazionale[4]. Per arrestare la corsa alla conversione in depositi in valuta estera, il piano in pratica prevede una compensazione delle perdite subite dai risparmiatori che detengono depositi in valuta turca per almeno tre mesi quando il deprezzamento della lira sarà superiore al tasso di interesse offerto dalla banca. Se nell’immediato la misura ha sortito i suoi effetti, i costi di tale operazione non sembrano sostenibili nel lungo periodo, considerato che solo nei primi giorni le banche pubbliche turche hanno speso oltre 7 miliardi di dollari per sostenere la lira.
Sul piano interno, il forte aumento del costo dei beni di prima necessità e il conseguente deterioramento degli standard di vita, che colpiscono in particolar modo i ceti medio-bassi, continuano ad accrescere il malcontento della popolazione. Per cercare di tamponare la situazione, il governo ha adottato misure per sostenere i redditi più bassi, quali l’incremento del 50% del salario minimo, portato a 4.250 lire. Tuttavia, proprio la difficile situazione economica ha eroso il consenso nei confronti del presidente. Nei sondaggi il gradimento nei confronti dell’operato di Erdoğan è sceso dal 55,8% di marzo 2020, all’inizio della pandemia di Covid-19, al 38,6% di fine 2021[5], la percentuale più bassa degli ultimi anni. Secondo un recente sondaggio, Mansur Yavaş, sindaco di Ankara ed esponente del Partito repubblicano del popolo (Chp), sarebbe con oltre il 60% delle preferenze la figura politica più apprezzata, seguito dal suo collega di Istanbul Ekrem Imamoğlu, anch’egli del Chp, con il 50,7% e dalla leader del Partito buono (Iyi Parti) Meral Aksener con il 38,5%, mentre Erdogan si attesa solo in quarta posizione con il 37, 9%[6].
In questo conteso, è difficile che il presidente turco convochi elezioni anticipate – il voto legislativo e presidenziale è previsto a giugno 2023 – come invece vorrebbero le forze di opposizione, soprattutto Chp e Iyi Parti, partiti del fronte anti-Erdoğan dell’Alleanza Nazionale, di cui fanno parte anche due formazioni più piccole, il Partito della felicità e il Partito democratico. Altro cavallo di battaglia delle opposizioni è il ritorno al sistema parlamentare al posto della repubblica presidenziale voluta da Erdoğan. La riforma costituzionale che ha introdotto il presidenzialismo in Turchia era stata approvata tramite referendum nel 2017, ma la vittoria di stretta misura del sì e presunte irregolarità nello spoglio avevano suscitato innumerevoli critiche tra le forze di opposizione nei confronti del risultato referendario. Sul ritorno al parlamentarismo convergono anche le formazioni politiche costituite da due illustri fuoriusciti dell’Akp: il Partito Futuro dell’ex primo ministro Ahmet Davutoğlu e Deva dell’ex ministro delle Finanze Ali Babacan[7]. Tuttavia, se le elezioni non sono ancora in vista, procede invece l’iter della riforma per abbassare la soglia di accesso al parlamento dal 10 al 7% portata avanti dall’alleanza di governo (il Partito giustizia e sviluppo, Akp, e il Partito del movimento nazionalista, Mhp). Una soglia più bassa favorirebbe l’ingresso all’Assemblea nazionale del Mhp in calo di consensi.
Nei giochi preelettorali una posizione più defilata al momento è quella del Partito democratico dei popoli (Hdp), per lo più espressione della minoranza curda, che proprio nel mese di gennaio ha ricevuto la notifica dalla Corte costituzionale per il caso di chiusura che lo vede protagonista. L’Hdp si trova a doversi difendere dall’accusa di legami con il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), considerato una organizzazione terroristica in Turchia, e di svolgere attività legate al terrorismo. La richiesta di chiusura era stata avanzata alla Corte costituzionale dal procuratore generale della Corte di Cassazione Bekir Sahin lo scorso giugno, dopo essere stata respinta una prima volta per vizi di forma. L’Hdp oltre alla chiusura rischia il bando per cinque anni dalla vita politica dei suoi 451 membri e il congelamento dei conti bancari.
Su questo sfondo, la Turchia deve far fronte all’incremento dei casi di Covid-19 dovuto alla diffusione nel paese, come altrove, della variante Omicron. A fine gennaio si è raggiunta la cifra record di oltre 82.000 contagi giornalieri[8], mentre il numero complessivo dei casi da inizio pandemia ha superato gli 11 milioni. Se la copertura vaccinale completa ha raggiunto il 61,54% della popolazione, rimangono ancora resistenze di una buona parte dei turchi in età vaccinale. Negli auspici del governo, la recente introduzione di un vaccino di fabbricazione turca, il Turkovac, accanto ai più diffusi CoronaVac di produzione cinese e al Pfizer-BioNtech, potrebbe incentivare la vaccinazione delle fasce più reticenti. Dalla scorsa estate sono state tolte tutte le misure restrittive alle attività socio-economiche e alla circolazione delle persone, fermo restando l’obbligo di mascherina e distanziamento nei luoghi pubblici e la necessità di tampone molecolare per i voli interni.
Relazioni esterne
Sul piano esterno è proseguita l’intensa attività diplomatica del governo di Ankara, avviata nel corso del 2021 e volta a normalizzare le relazioni con diversi paesi del Medio Oriente. Il primo risultato di questo processo è stato l’incontro nella capitale turca tra il presidente Erdoğan e il principe ereditario di Abu Dhabi, Mohammed Bin Zayed. Incontro che, alla fine di novembre, ha ufficialmente segnato la ripresa delle relazioni diplomatiche e l’avvio di una promettente cooperazione economica tra Turchia ed Emirati Arabi Uniti (Eau). Nell’occasione, infatti, è stata firmata una serie di accordi, dall’energia all’ambiente fino al settore dei trasporti. Gli Eau si sono inoltre impegnati ad allocare un fondo di 10 miliardi di dollari in investimenti strategici in Turchia[9]. Non da ultimo, a gennaio Ankara e Abu Dhabi hanno firmato un accordo swap del valore di 4,9 miliardi di dollari per rimpinguare le riserve di valuta estera utilizzate negli ultimi anni come strumento per sostenere una lira sempre più svalutata[10]. Non è il primo accordo del genere per la Turchia: nel 2020, ad esempio, uno swap del valore di 15 miliardi di dollari era stato firmato con il Qatar. La nuova diplomazia economica emiratina va dunque incontro alla necessità della Turchia di attrarre investimenti esteri e di dare ossigeno alla sua economia in affanno. Non sorprende dunque che proprio gli Emirati saranno meta di una visita ufficiale del presidente turco a metà febbraio. Oltre agli Eau, l’Arabia Saudita potrebbe essere il prossimo paese a riallacciare i rapporti con la Turchia, dopo la rottura segnata dall’omicidio del giornalista del Washington Post Jamal Khashoggi nel consolato saudita di Istanbul a ottobre del 2018. Stando a quanto annunciato dallo stesso Erdoğan, a febbraio è prevista una visita del presidente turco nel regno saudita a coronamento di un anno di intenso lavoro diplomatico: alla visita del ministro degli Esteri turco Mavlut Çavuşoğlu a Riyadh lo scorso maggio era seguito a novembre il viaggio del ministro del Commercio saudita Majid bin Abdullah al-Qasabi in Turchia. Anche in questo caso, il fattore economico gioca un ruolo importante nella politica di Ankara, che nei primi undici mesi del 2021 ha visto crollare a 189 milioni di dollari le sue esportazioni verso l’Arabia Saudita (che ha attuato una sorta di blocco non ufficiale nei confronti delle merci turche) rispetto ai 2,5 miliardi dell’anno precedente[11]. Si rafforza invece la già solida cooperazione con il Qatar, da anni partner privilegiato di Ankara in Medio Oriente, con la firma lo scorso dicembre di dodici accordi in ambito economico, militare, politico e culturale. La cooperazione va ben oltre le relazioni bilaterali, come emerge dall’accordo preliminare che i due paesi hanno raggiunto con il governo dei talebani per garantire la sicurezza dell’aeroporto internazionale di Kabul[12], frutto di una intensa attività di mediazione che Ankara ha condotto al fianco di Doha dopo la presa di potere dei talebani in Afghanistan la scorsa estate.
Al di là delle monarchie del Golfo, procede il dialogo con Israele, al quale la visita del presidente israeliano Isaac Herzog ad Ankara a febbraio potrebbe dare una spinta decisiva[13]. Un tempo la partnership economica e militare con Israele, avviata nella seconda metà degli anni Novanta e consolidatasi negli anni successivi, costituiva l’asse principale della politica mediorientale turca. Tuttavia, dopo l’incidente della Freedom Flotilla nel 2010 – dove morirono una decina di turchi in seguito a un attacco delle forze israeliane – i rapporti diplomatici si sono interrotti per poi riprendere nel 2016 tra non poche difficoltà. Una nuova battuta d’arresto si è prodotta nel 2018 in seguito all’annuncio dell’amministrazione Trump di spostare l’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme. Negli anni il sostegno di Ankara alla causa palestinese e i suoi rapporti con Hamas hanno contribuito a creare tensioni con l’esecutivo di Benjamin Netanyahu; tuttavia, con la nuova leadership di Naftali Bennet sembra essersi aperta un’opportunità per ricucire gli strappi nelle relazioni bilaterali.
Profonde divergenze invece persistono ancora nei rapporti con gli Stati Uniti. Se l’incontro tra il presidente americano Joe Biden e il suo omologo turco ai margini del vertice del G20 di Roma non ha appianato i contrasti esistenti, ha tuttavia fatto emergere la volontà di entrambe le parti di mantenere un dialogo costante. Nell’occasione è stato infatti creato un meccanismo per il superamento delle criticità sul piano bilaterale, che rimangono molteplici: dal sostegno statunitense alle forze curde in Siria, considerate strettamente legate al Pkk da Ankara, all’acquisto turco del sistema di difesa missilistico S-400 dalla Russia, che è valso alla Turchia l’espulsione dal programma per la costruzione degli F-35 nonché sanzioni da parte statunitense nel dicembre del 2020. L’incontro al vertice è avvenuto dopo che era salita la tensione tra Ankara e dieci paesi occidentali, Stati Uniti inclusi, i cui ambasciatori si erano espressi a favore della scarcerazione del filantropo turco Osman Kavala e per questo erano stati dichiarati “persona non grata” da Erdoğan. Indubbiamente Ankara, anche guardando alla situazione economica del paese, non si trova nella condizione di potersi permettere forti strappi con Washington, pur rimanendo sul tavolo una serie di questioni irrisolte. Non da ultimo, gli Stati Uniti si trovano adesso di fronte alla difficile scelta di accettare o rifiutare la recente richiesta turca di acquistare quaranta F-16. Al di là delle implicazioni che un rifiuto potrebbe avere sia sul futuro della cooperazione blaterale in materia di difesa, sembra molto difficile che possa essere superato il divieto del Congresso alla vendita di armi alla Turchia finché rimane aperta la questione degli S-400.
Tuttavia, se la cooperazione militare con Mosca rappresenta una delle questioni più spinose nei rapporti bilaterali con Washington, Ankara non ha mancato occasione per dimostrare l’adesione agli obblighi all’interno della Nato. Nella recente crisi tra Russia e Ucraina non sembra però scontato che la Turchia si schieri in prima linea contro la Russia. Proprio i rapporti tanto con Mosca quanto con Kiev e la necessità di non trovarsi in una posizione difficile hanno spinto Ankara a giocare la carta della mediazione tra i due paesi e incontri sono previsti nelle prossime settimane tra Erdoğan e i suoi omologhi russo e ucraino. Uno scontro, infatti, metterebbe la Turchia in una posizione difficile con implicazioni negative sia per la sua economia sia per la sua politica estera. Turchia e Russia, in una alternanza di competizione e cooperazione, svolgono un ruolo di primo piano in diverse crisi regionali, dalla Siria alla Libia al Nagorno-Karabakh. Inoltre, la Russia è il principale fornitore di gas della Turchia nonché una importante fonte per il settore turistico turco. Quanto all’Ucraina, Kiev è diventato un acquirente di rilievo dell’industria della difesa turca, in particolare di droni Bayraktar TB2, a partire dal 2019 – droni che sono stati utilizzati da Kiev contro forze russe nel Donbass[14] – e successivamente sono stati firmati accordi per una produzione congiunta.
Negli sforzi di normalizzazione delle relazioni di Ankara con i propri vicini si inseriscono i colloqui che si sono svolti a metà gennaio con l’Armenia. Si tratta di un primo e significativo passo a livello di rappresentanti speciali nominati a dicembre dai due paesi dopo trent’anni di stallo nei rapporti bilaterali. Il massacro di un milione e mezzo di armeni avvenuto nel 1915 in epoca ottomana, che Ankara non riconosce come genocidio al contrario di Yerevan, è la questione principale che separa i due paesi. Il sostegno turco all’Azerbaigian nel conflitto con l’Armenia per il Nagorno-Karabakh ha aggiunto un ulteriore elemento di discordia, con la chiusura della frontiera tra Turchia e Armenia dal 1993. La composizione della crisi sul Nagorno-Karabakh, grazie alla mediazione russa sostenuta dalla Turchia, a favore di Baku che si è ripresa i territori occupati dall’Armenia all’inizio degli anni Novanta e la formazione di un nuovo governo a Yerevan nel giugno del 2021 sono stati importanti propulsori dell’attuale tentativo di riavvicinamento. La riapertura della frontiera turco-armena rappresenterebbe infatti una preziosa boccata d’ossigeno per l’asfittica economia armena e allo stesso tempo favorirebbe lo sviluppo di un sistema di infrastrutture di collegamento con benefici per tutti i paesi della regione del Caucaso meridionale oltre che della Turchia.
[1] Dati dell’Istituto di statistica turco.
[2] https://enagrup.org/?hl=en
[3] L. Pintel, “Turkish president sacks statistics chief as inflation tension escalates”, Financial Times, 29 gennaio 2022.
[4] “Turkey’s currency woes are likely to get worse”, The Economist, 1 gennaio 2022.
[5] https://twitter.com/metropoll/status/1474701999459508224/photo/2
[6] https://twitter.com/ozersencar1/status/1478297526197440516?s=20
[7] C. Gall, “Turkish Opposition Begins Joining Ranks Against Erdogan”, New York Times, 23 ottobre 2021.
[8] “Turkey breaks record in COVID-19 cases, launches trial for new jab”, Daily Sabah, 28 gennaio 2022.
[9] A. England, S. Kerr, “Abu Dhabi wealth fund bucks the trend to bet on Turkey”, Financial Times, 12 gennaio 2022.
[10] https://www.ft.com/content/69b8e713-fb8a-4fec-ba86-63c3164df877?desktop=true&segmentId=7c8f09b9-9b61-4fbb-9430-9208a9e233c8#myft:notification:daily-email:content
[11] L. Pintel, “UAE agrees deal to boost Turkey’s central bank reserves”, Financial Times, 19 gennaio 2022.
[12] “Turkey, Qatar reach preliminary deal on Kabul airport security”, Ahval, 24 gennaio 2022.
[13] “Turkey says Herzog to visit next month, could open a ‘new chapter in relations”’, The Times of Israel, 27 gennaio 2022.
[14] T. Yavuz, “Ukraine uses Turkish armed drone in Donbas for 1st time”, Anadolu Agency, 27 ottobre 2021.