Turchia: what's the right side of history? | ISPI
Salta al contenuto principale

Form di ricerca

  • ISTITUTO
  • PALAZZO CLERICI
  • MEDMED

  • login
  • EN
  • IT
Home
  • ISTITUTO
  • PALAZZO CLERICI
  • MEDMED
  • Home
  • RICERCA
    • OSSERVATORI
    • Asia
    • Cybersecurity
    • Europa e Governance Globale
    • Geoeconomia
    • Medio Oriente e Nord Africa
    • Radicalizzazione e Terrorismo Internazionale
    • Russia, Caucaso e Asia Centrale
    • Infrastrutture
    • PROGRAMMI
    • Africa
    • America Latina
    • Global Cities
    • Migrazioni
    • Relazioni transatlantiche
    • Religioni e relazioni internazionali
    • Sicurezza energetica
    • DataLab
  • ISPI SCHOOL
  • PUBBLICAZIONI
  • EVENTI
  • PER IMPRESE
    • cosa facciamo
    • Incontri su invito
    • Conferenze di scenario
    • Formazione ad hoc
    • Future Leaders Program
    • I Nostri Soci
  • ANALISTI

  • Home
  • RICERCA
    • OSSERVATORI
    • Asia
    • Cybersecurity
    • Europa e Governance Globale
    • Geoeconomia
    • Medio Oriente e Nord Africa
    • Radicalizzazione e Terrorismo Internazionale
    • Russia, Caucaso e Asia Centrale
    • Infrastrutture
    • PROGRAMMI
    • Africa
    • America Latina
    • Global Cities
    • Migrazioni
    • Relazioni transatlantiche
    • Religioni e relazioni internazionali
    • Sicurezza energetica
    • DataLab
  • ISPI SCHOOL
  • PUBBLICAZIONI
  • EVENTI
  • PER IMPRESE
    • cosa facciamo
    • Incontri su invito
    • Conferenze di scenario
    • Formazione ad hoc
    • Future Leaders Program
    • I Nostri Soci
  • ANALISTI
Commentary

Turchia: what's the right side of history?

Valeria Talbot
29 Agosto 2013

Fin dallo scoppio delle prime rivolte, la Turchia è stata in prima linea nel cercare una soluzione alla crisi in Siria. Il miglioramento delle relazioni bilaterali a partire dall’inizio degli anni Duemila aveva trasformato il vicino siriano in uno dei principali partner regionali di Ankara e allo stesso tempo nell’esempio più significativo della politica di “zero problemi con i vicini” condotta dal governo del partito Giustizia e Sviluppo (Akp). Non sorprende pertanto che, in una prima fase la Turchia abbia esercitato forti pressioni sul presidente siriano Bashar al Assad per indurlo ad avviare un processo di riforme politiche interne ed evitare che il paese precipitasse in un conflitto civile dalle inevitabili ripercussioni sulla stessa Turchia. Tuttavia dopo mesi di tentativi diplomatici, falliti di fronte all’intransigenza siriana, e nella convinzione che il regime di Damasco avesse i giorni contati, il governo di Ankara non ha esitato a effettuare un cambio di rotta, sostenendo apertamente i ribelli siriani e unendosi al coro di paesi occidentali e delle monarchie del Golfo che chiedevano al presidente siriano di farsi da parte. Dopo le oscillazioni e le ambiguità in occasione dell’intervento in Libia, nel caso siriano la Turchia non voleva trovarsi “on the wrong side of history”.

Negli ultimi due anni e mezzo, in cui nonostante tutto il regime di Assad è riuscito a mantenersi al potere, la Turchia ha pagato costi elevati a causa dell'instabilità alla sua frontiera meridionale (sono oltre 900 i chilometri di confine che la separano dalla Siria), non solo in termini economici e di sicurezza. Oltre agli attacchi e agli attentati diretti sul territorio, la questione più critica è quella delle centinaia di migliaia di rifugiati siriani (sarebbero circa mezzo milione quelli presenti nel paese). Il governo turco si è trovato ad affrontare da solo la gestione dei flussi umanitari, e il costo del mantenimento dei campi profughi e dei controlli di frontiera ammonterebbe finora a oltre un miliardo di dollari, con un contributo internazionale esiguo (100 milioni di euro) rispetto allo sforzo turco. Inoltre, la presenza massiccia di rifugiati siriani non ha mancato di creare problemi di sicurezza e negli equilibri etnici e settari nelle regioni meridionali al confine con la Siria. 

Al di là della dimensione umanitaria, la crisi siriana ha messo in crisi la politica di Ankara verso il suo vicinato mediorientale e i progetti di integrazione economica regionale, che avevano proprio nella Siria uno degli assi portanti. Le tensioni con Damasco hanno avuto inevitabili ripercussioni sulle relazioni politiche con l’Iran, principale alleato siriano nella regione, ma anche importante fornitore di idrocarburi della Turchia.

Ankara ha a lungo caldeggiato un intervento internazionale e in più occasioni il governo del primo ministro Erdogan ha esortato la comunità internazionale e gli alleati della Nato a intraprendere un'azione più incisiva contro Damasco. Ma l'unico risultato ottenuto é stato l'installazione di missili Patriot lungo la frontiera con la Siria.

Non sorprende quindi che il ministro degli esteri Davutoglu in questi giorni abbia dichiarato che la Turchia farà parte di una coalizione internazionale anche senza una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Secondo Ankara, una eventuale “coalition of the willing” dovrebbe comprendere oltre a Stati Uniti, Gran Bretagna e Turchia, il Qatar e l’Arabia Saudita i due paesi arabi che in questi anni hanno maggiormente sostenuto il composito fronte dei ribelli siriani. Il sostegno delle monarchie del Golfo contribuirebbe tra l’altro a evitare una connotazione marcatamente occidentale dell’intervento agli occhi del mondo arabo.

Tuttavia, sono in molti a sostenere che un’azione militare esterna potrebbe non essere risolutiva e al contrario contribuire ad ampliare lo scenario di crisi. Inoltre, la partecipazione diretta potrebbe costare ad Ankara un caro prezzo in termini di stabilità e di sicurezza interna. Il timore principale è quello di una recrudescenza degli attentati terroristici da parte di gruppi vicini al regime di Damasco e all’Hezbollah libanese, oltre a un probabile aumento dei flussi di rifugiati. Inoltre la prospettiva di un coinvolgimento in un intervento dagli esiti incerti non giova a un paese la cui economia dipende fortemente dall’afflusso di capitali esteri e dalla fiducia degli investitori internazionali.

I tre principali partiti di opposizione – Chp, Bdp, Mhp – osteggiano il coinvolgimento della Turchia in un intervento militare e hanno espresso la necessità di una nuova mozione parlamentare in merito. Sebbene sia ancora valido il mandato di un anno con cui il Parlamento turco autorizzava l’esercito a inviare truppe di terra per operazioni transfrontaliere, dopo l’attacco siriano alla città turca di Akçakale a ottobre 2012, il governo non ha comunque escluso la possibilità di chiedere un nuovo mandato parlamentare. L’autorizzazione dell’Assemblea non appare però scontata, considerato che all’interno dello stesso Akp non ci sarebbe unanimità di vedute nei confronti un’operazione militare in Siria. Non a caso in questi giorni sono stati diversi i riferimenti, sia nella stampa sia da parte di esponenti politici, allo storico “no” del Parlamento di Ankara all’apertura di un fronte settentrionale in Turchia nella guerra in Iraq del 2003, nonostante il sostegno del governo. E come gli Stati Uniti in Iraq, la Turchia potrebbe rischiare di rimanere impantanata nella crisi siriana. Sono innumerevoli infatti le incognite che pesano non solo sull’esito dell’intervento ma anche e soprattutto sul dopo Assad. 

Con un'opinione pubblica prevalentemente contraria a qualsiasi tipo di coinvolgimento turco in Siria, il fronte siriano potrebbe trasformarsi in un banco di prova cruciale per il primo ministro Erdogan in vista delle scadenze elettorali (municipali e presidenziali) del prossimo anno. Resta quindi da vedere se la Turchia di Erdogan riuscirà a trovarsi “on the right side of history”.

 

* Valeria Talbot, ISPI Senior Research Fellow

 

Vai al dossier: Siria: verso l'azione militare?


Ti potrebbero interessare anche:

Una Nato 2.0
Vertice Nato: il baratto
NATO Summit: The Future of Global Security at a Critical Juncture
Gianluca Pastori
ISPI
,
Nicola Missaglia
ISPI
Nato:il vertice della svolta
Why Europe Needs a Nuclear Deterrence Renaissance
Alexander Mattelaer
Vrije Universiteit Brussel and Egmont
,
Wannes Verstraete
Vrije Universiteit Brussel
China, the Indo-Pacific and NATO: Staying Relevant in a Shifting World Order
Jagannath Panda
Institute for Security and Development Policy

Tags

Tuchia Siria Erdogan AKP Davutoglu Nato crisi siriana rifugiati siriani
Versione stampabile

Autori

Valeria Talbot
Senior Research Fellow

SEGUICI E RICEVI LE NOSTRE NEWS

Iscriviti alla newsletter Scopri ISPI su Telegram

Chi siamo - Lavora con noi - Analisti - Contatti - Ufficio stampa - Privacy

ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) - Palazzo Clerici (Via Clerici 5 - 20121 Milano) - P.IVA IT02141980157