Dopo il recente 25esimo anniversario della dichiarazione d’indipendenza dall’Unione Sovietica, un’altra importante ricorrenza si avvicina per il Turkmenistan. Il 21 dicembre 2006, infatti, scompariva Saparmyrat Nyazov, padre padrone della Repubblica centro asiatica, la cui uscita di scena spianò la strada alla salita al potere dell’attuale presidente, Gurbanguly Berdymukhammedov.
Alla guida del quarto gigante energetico mondiale in quanto a riserve di gas naturale, stimate in 17mila miliardi di metri cubi, Berdymukhammedov si è trovato a dover gestire, dal punto di vista della politica estera del paese, una situazione che vedeva quest’ultimo quasi completamente isolato rispetto al sistema internazionale, se si esclude lo strettissimo, rapporto con la Federazione Russa.
Sulla base dell’ottenimento, nel 1995, del riconoscimento ufficiale da parte delle Nazioni Unite dello status di neutralità permanente – concetto mai chiaramente definito nei suoi concreti risvolti pratici – Nyazov portò avanti, infatti, una politica estera rigidamente isolazionista, se si eccettua, almeno in parte, l’ambito energetico: obiettivo ultimo di tale modus operandi, e una costante nel modello turkmeno di gestione del potere, fu principalmente quello di garantire la sopravvivenza del regime di Ashgabat, attraverso la via privilegiata di ridurre al minimo le potenziali influenze ritenute negative sulla sfera domestica.
A partire dal dicembre 2006, importanti cambiamenti si sono registrati relativamente alla politica estera turkmena: utilizzando, al contrario di Nyazov, lo status di neutralità permanente come giustificazione teorica per la messa in campo di una politica estera dinamica e multi-vettoriale, Berdymukhammedov ha tentato, avendo comunque come stella polare la sopravvivenza del regime, di ridurre l’isolamento internazionale del Turkmenistan e di capitalizzarne i punti di forza.
Il settore in cui tale dinamica ha avuto modo di operare con maggiore profondità – con lo spostamento dell’asse strategico da Mosca a Pechino – è stato quello energetico: le entrate ottenute dalla vendita di gas naturale, che rappresentano il 35% del Pil, il 90% delle esportazioni e l’80% delle entrate fiscali [1], sono infatti la principale fonte di sostentamento per il sistema di potere clientelare e di natura clanico-tribale che ruota attorno al leader al potere, fattore che spiega l’attenzione prestata a tale dimensione.
Per questo motivo Berdymukhammedov ha cercato di aumentare le rotte di esportazione a disposizione del paese, limitate a causa, da un lato, di una localizzazione geografica particolarmente sfortunata e, dall’altro, di un contesto politico, sociale ed economico non in grado di attrarre investitori internazionali.
Nonostante questi limiti, nel 2009 è entrata in funzione un’opera fondamentale per il Turkmenistan, il gasdotto Asia Centrale – Cina: ampliato nel 2010 e nel 2012, esso ha permesso ad Ashgabat di interrompere il monopsonio della Russia – e del sistema infrastrutturale di eredità sovietica – sulle proprie esportazioni, garantendo l’accesso al mercato cinese. Ciò ha consentito che l’interscambio con la Cina sia arrivato a coprire nel 2013 quasi il 50% del commercio internazionale complessivo del Turkmenistan, grazie anche all’acquisto da parte di Pechino del 60% del gas naturale – 24,4 miliardi di metri cubi su un totale di poco più di 40 – esportato dal paese nello stesso anno [2]. L’entrata in funzione della condotta, per quanto ascrivibile all’eredità di Nyazov (l’intesa principale per la sua realizzazione venne siglata nell’aprile 2006), ha rappresentato uno snodo strategico provvidenziale per il Turkmenistan, in un momento in cui le esportazioni verso la Federazione Russa iniziavano a subire un calo.
Nel periodo compreso tra il 2009 e il 2014, infatti, esse si attestarono su una quota di circa 10-11 miliardi di metri cubi all’anno, ben al di sotto di quanto stabilito dall’accordo sottoscritto nel dicembre 2009 tra Ashgabat e Mosca, che aveva previsto a regime una fornitura annua di 70-80 miliardi di metri cubi di metano. La situazione è in seguito precipitata: nel 2015, Gazprom annunciò che gli acquisti russi di gas naturale turkmeno si sarebbero attestati a 4 miliardi di metri cubi, e all’inizio del 2016 essi sono stati completamente interrotti, lasciando il Turkmenistan con sole due rotte di esportazione, rispettivamente verso la Cina e l’Iran (sempre più propenso a sfruttare le proprie risorse energetiche sia per il consumo interno che per le esportazioni).
Se si considera che la vendita di gas naturale alla Repubblica Popolare serve soprattutto per ripagare i cospicui prestiti ottenuti finora da Ashgabat da parte di Pechino [3], e che i tentativi di Berdymukhammedov di ampliare le rotte di esportazione a disposizione del paese – soprattutto in direzione ovest verso l’Europa e in direzione sud-est verso il subcontinente indiano – non si sono al momento neanche lontanamente concretizzati, si comprende facilmente la causa della gravissima crisi economica che in questi mesi sta attraversando il paese.
Berdymukhammedov, nel corso dei suoi primi dieci anni al potere, ha brillantemente evitato di modificare in senso democratico un contesto politico, economico, sociale e legislativo caratterizzato dalla completa chiusura verso l’esterno, dalla continua repressione di ogni forma di opposizione, dall’assenza di capitale umano qualificato e dall’imprevedibilità, spesso vera e propria irrazionalità, delle decisioni assunte dal vertice gerarchico.
Dal punto di vista internazionale, in questo decennio il paese è scivolato sempre più nell’orbita cinese, ponendo fine, perlomeno al momento, al rapporto “patrono-cliente” [4] proseguito nei confronti di Mosca dopo il dissolvimento sovietico, ma fallendo completamente l’obiettivo di diversificazione delle rotte energetiche, nonostante gli sforzi, anche se principalmente a livello di retorica, profusi fino a questo momento.
A febbraio 2017 Berdymukhammedov otterrà un nuovo mandato che sarà, viste le recenti modifiche costituzionali paracadutate dall’alto, di 7 anni. Ancora non è chiaro se la crisi economica che sta attanagliando il paese lo costringerà a modificare la propria gestione del potere – magari puntando in ambito energetico al perseguimento di accordi meno faraonici ma più concreti, anche se di minore portata: quel che è certo è che i cittadini del Turkmenistan difficilmente saranno in grado di sopportare un altro decennio che si preannuncia sulla falsariga di quello iniziato il 21 dicembre 2006.
[1] Dati World Bank
[2] Andrew Kuchins, Jeffrey Mankoff, Oliver Backes, Central Asia in a Reconnecting Eurasia: Turkmenistan's Evolving Foreign Economic and Security Interests, Report of the CSIS Russia and Eurasia Program, giugno 2015, p. 13
[3] China figures reveal cheapness of Turkmenistan Gas, Eurasianet.org, 31 ottobre 2016, http://www.eurasianet.org/node/81091
[4] Luca Anceschi, External Conditionality, Domestic Insulation and Energy Security: The International Politics of Post-Niyazov Turkmenistan, China and Eurasia Forum Quarterly, 2010, p. 93
Davide Cancarini, Dottore di ricerca in Istituzioni e Politiche, studioso di Asia Centrale