Che sul Recovery Fund il negoziato non sarebbe stato semplice lo si sapeva sin dall’inizio. Si tratta infatti di un impegno senza precedenti da parte dell’Ue non solo per l’ammontare di cui si discute (750 miliardi di euro) ma anche per la modalità con cui verranno reperite queste risorse: l’emissione comune di bond europei. In altri termini, attraverso un indebitamento comune. Quello che fino a pochissimi mesi fa sembrava irrealizzabile – perché vero e proprio tabù per molte cancellerie europee - potrebbe diventare a breve una realtà.
Francia e Germania avevano spianato la strada alla Commissione europea con una dichiarazione congiunta che prevedeva contributi a fondo perduto per gli stati membri fino a 500 miliardi. La presidente della Commissione, Ursula von den Leyen, ha preso la palla al balzo e aggiunto altri 250 miliardi di prestiti a tassi agevolati. Quasi inevitabile la levata di scudi da paesi di due gruppi di paesi. Da un lato i ‘soliti sospetti’, ovvero i cosiddetti paesi frugali del Nord Europa che criticano sia l’eccessiva generosità dell’ammontare totale che la bassa condizionalità applicata ai potenziali paesi beneficiari (legata a regole e meccanismi che non hanno mai sanzionato alcun paese membro). Dall’altro, quei paesi che criticano la ‘allocation key’, ovvero i criteri indicati dalla Commissione per suddividere i 750 miliardi tra i paesi membri. Al di là dell’ormai annosa sfiducia tra i paesi membri, quanto sono fondate le preoccupazioni e le critiche di questi paesi? E su che basi è possibile trovare un compromesso?
Il vento che soffia dal Nord…
All’indomani della presentazione del Recovery Fund i paesi frugali hanno espresso tutto il loro disappunto, anche se con dei distinguo. La più morbida è stata la Danimarca dove è in carica un governo di minoranza dei socialdemocratici di Mette Frederiksen; il ministro degli Esteri Jeppe Kofod ha difeso il Recovery Fund europeo ma ne ha criticato l’ammontare perché ritenuto eccessivo e auspicato un compromesso. Sostanzialmente sulla stessa linea l’Austria in cui il governo poggia su un’insolita alleanza tra il centro-destra del Partito Popolare Austriaco (OVP) e il partito di centro-sinistra dei verdi. Il cancelliere Sebastian Kurz ha definito la proposta della Commissione un ‘punto di partenza’ per la negoziazione tra i paesi membri, non mancando di criticare la distinzione tra prestiti e contributi. Più dura la posizione della Svezia il cui governo di minoranza riunisce due partiti, i Social Democratici e il Partito Verde. Il primo ministro svedese, Stefan Lovfen, ha criticato soprattutto l’erogazione di 500 miliardi mediante contributi a fondo perduto che introdurrebbero incentivi perversi e creerebbero un esborso eccessivo in capo al proprio paese. Preoccupazione condivisa dall’Olanda in cui il premier Rutte è a capo di un governo di coalizione (principalmente di ispirazione cristiano-democratica) che si avvia peraltro verso le elezioni (previste per il prossimo marzo).
Nel complesso si tratta quindi di governi relativamente fragili (i governi di minoranza in Danimarca e Svezia), con alleanze ‘inusuali’ (Austria) o in scadenza (Olanda). La delicata situazione politica interna di questi paesi non aiuta di certo la negoziazione su un tema come quello del Recovery Fund che potrebbe essere facilmente cavalcato soprattutto dai partiti nazionalisti ed euroscettici. Tutti questi paesi condividono peraltro il timore di dover pagare troppo a fronte di vincoli poco stringenti in capo ai paesi destinatari.
Per capire quanto siano fondati questi timori è opportuno richiamare come verrà finanziato il Recovery Fund nelle intenzioni della Commissione. Si farà perno sul concetto del headroom, ovvero la differenza tra quanto ogni anno l’Ue può spendere tramite il proprio budget e il totale delle entrate su cui può contare (own resources ceiling), in gran parte rappresentate dai contributi provenienti dai paesi membri. Questo ceiling è fissato al momento all’1,2% del Pil europeo, ma la Commissione propone di portarlo al 2%.
A ben vedere non è detto che questo si tradurrà in un proporzionale e automatico aumento dei versamenti da parte dei governi. Anzi la Commissione propone tutta una serie di misure che nei prossimi sette anni dovrebbero aumentare le entrate dell’Ue tramite: la riforma dei permessi di inquinamento (a pagamento) per le grandi imprese (da cui dovrebbero arrivare 10 miliardi all’anno), una ‘carbon tax’ sulle importazioni ad alto contenuto di gas serra (dai 5 ai 14 miliardi all’anno), una tassa per le imprese che traggono i maggiori benefici dall’esistenza del mercato unico (altri 10 miliardi all’anno), una ‘digital tax’ per i giganti del web (circa 1,3 miliardi all’anno). In pratica l’aumento del ceiling rappresenta una garanzia che viene fornita dai vari governi che non si tradurrà automaticamente in maggiori contributi, proprio perché ci si aspetta che vengano introdotte nuove entrate. Con questa garanzia l’Ue potrà emettere dei titoli per indebitarsi fino ai 750 miliardi previsti dal Recovery Fund. Peraltro, i prestiti che verranno concessi dall’Ue ai paesi membri dovrebbero avere caratteristiche simili (scadenza, valore e cedola) ai titoli emessi dall’Ue. Quindi la Commissione incasserebbe i soldi dagli stati membri (che ripagano via via quanto prestatogli) per ripagare così i titoli in scadenza.
I timori dei paesi del Nord in merito a un loro esorbitante esborso sono quindi solo parzialmente fondati. Come ricordato sopra, l’innalzamento del ceiling si traduce principalmente in una garanzia concessa da tutti i paesi membri. Ma è pur vero che, se le nuove entrate auspicate dalla Commissione non si verificassero (o si realizzassero solo parzialmente e in un momento successivo) e se qualche paese beneficiario dei prestiti non volesse/potesse ripagarli alla scadenza, l’intera Ue sarebbe responsabile dei titoli in scadenza e le garanzie si tradurrebbero in effettivi esborsi da parte dei governi.
… e altri venti contrari
Altri paesi, come il Belgio e l’Ungheria, hanno espresso dubbi non tanto sul Fondo e sul suo ammontare, quanto piuttosto su quanto riceveranno. In questo caso è bene richiamare la allocation key proposta dalla Commissione europea, ovvero i criteri attraverso i quali dovrebbero essere redistribuiti i 750 miliardi di euro tra i vari paesi membri. A tal fine la Commissione considera sia il reddito pro-capite di ogni paese che l’impatto della crisi generata dal coronavirus. Con questi criteri l’Italia viene indicata quale beneficiario numero uno: 153 miliardi sui 750 previsti, a fronte di un contributo italiano pari a 96,3 miliardi. Il netto per il nostro paese sarebbe quindi di poco inferiore ai 57 miliardi. Nel caso belga il saldo sarebbe negativo (-13,5 miliardi), mentre per l’Ungheria di poco superiore ai 7 miliardi.
Il tutto poi si inserisce nel negoziato sul bilancio Ue 2021-2027 che era fallito lo scorso febbraio ma la cui chiusura diventa fondamentale per il Recovery Fund, proprio perché quest’ultimo è ancorato al bilancio. Malgrado dunque durante la fase più acuta della crisi sanitaria l’Ue abbia dato prova di saper agire velocemente, sul Recovery Fund il rischio è che si torni a procedere con lentezza, tanto più che per l’ampliamento della headroom è necessario passare da tutti i Parlamenti nazionali sapendo che in alcuni (a partire da quello olandese) la maggioranza è contraria alla proposta della Commissione.
Arriva però al momento giusto la presidenza di turno tedesca del Consiglio dell’Ue che avrà l’arduo compito di trovare un compromesso. Per venire incontro alle richieste dei vari paesi, questo compromesso potrebbe passare attraverso una revisione dell’ammontare totale (nell’ultimo Consiglio dei ministri delle finanze sembra che la Germania sia orientata a tornare ai 500 miliardi previsti dall’accordo franco-tedesco), ma anche da un aggiustamento dei criteri di redistribuzione (con compensazioni che potrebbero coinvolgere anche il bilancio Ue 2021-2027). Ma c’è una parte del compromesso che chiama in causa direttamente i paesi maggiormente beneficiari del Recovery Fund, a partire dall’Italia. Per rispondere ad alcune legittime critiche e timori da parte dei paesi del nord in merito a come verranno spesi i soldi e a quali condizioni, sta al nostro paese dimostrare principalmente due cose. Primo: che verranno selezionati con molta cura quei progetti che contribuiscono veramente ad aumentare il nostro potenziale economico per non tornare più a crescere solo dello zero virgola quando la crisi sarà alle spalle. Secondo: che gli investimenti saranno accompagnati da vere riforme strutturali che vadano nella direzione indicata da anni dalla stessa Commissione europea: dalla riforma del sistema fiscale (rendendo la tassazione più equa e meno onerosa per i lavoratori e combattendo ulteriormente l’evasione), a quella della pubblica amministrazione (inclusa l’istruzione) e della giustizia (velocizzando i tempi sia di quella penale che di quella civile).
Approfittare della crisi e del Recovery Fund per ammodernare la nostra economia rappresenta una grande opportunità per il nostro paese e potrebbe rasserenare quei paesi, soprattutto quelli del Nord, sul fatto che il Recovery Fund rappresenti davvero un unicum e che in futuro un’altra crisi non renda necessario un altro loro intervento in aiuto all’Italia. Spetta quindi anche all’Italia far sì che i venti contrari che soffiano oggi in Europa possano calmarsi e non si trasformino in tempesta.