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Commentary

Tutti i rischi di un presidenzialismo "alla turca"

Valeria Talbot
12 aprile 2017

I cittadini turchi si trovano di fronte a una consultazione referendaria cruciale per il futuro del loro paese. Con il voto al referendum del prossimo 16 aprile sono chiamati a decidere sulla trasformazione della Repubblica turca da parlamentare in presidenziale, contribuendo così alla realizzazione del sogno di Recep Tayyip Erdoğan di diventare un presidente dai super poteri. È questo un sogno che il presidente turco coltiva da anni, ben prima della sua elezione nell’agosto del 2014, e che è entrato prepotentemente nel dibattito politico interno e nella campagna elettorale di giugno 2015. Allora, quello che nelle intenzioni di Erdoğan avrebbe dovuto configurarsi come un plebiscito in suo favore si risolse invece in un calo di consensi per il Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp), che non riuscì a formare un governo monocolore, aprendo una fase di crisi politica e di instabilità poi parzialmente ricomposta solo con le elezioni anticipate del novembre successivo.

Sul risultato referendario pesa oggi una grande incertezza. I sondaggi della vigilia non sono unanimi nel pronosticare la vittoria del ‘sì’, nonostante la martellante campagna condotta dal partito di governo, che ormai controlla la maggior parte degli organi di informazione e occupa tutti gli spazi pubblici, e le forti restrizioni imposte nel paese dallo stato di emergenza.

Sebbene l’Akp si presenti apparentemente compatto all’appuntamento di aprile, l’assenza dalla campagna referendaria di figure del calibro dell’ex presidente Abdullah Gül e di Bülent Arinç (vice primo ministro dal 2009 al 2015) ha sollevato degli interrogativi sulla omogeneità di vedute all’interno del partito di governo. Proprio sul presidenzialismo erano infatti nati i dissapori tra il presidente Erdoğan e il suo primo ministro Ahmet Davutoğlu, rimosso dall’incarico di governo nella primavera del 2016.

Sul voto referendario si è invece consumata la frattura nel Partito del movimento nazionalista (Mhp). Se i voti del Mhp sono stati fondamentali per l’approvazione degli emendamenti costituzionali presentati dall’Akp in seno all’Assemblea nazionale, esiste una componente interna che si oppone alla linea a favore del ‘sì’ sostenuta dal leader Devlet Bahçeli. Quale sia la contropartita promessa al Mhp per il suo appoggio alla riforma voluta da Erdoğan non è ancora chiaro. È certo però che la retorica nazionalista adottata dal presidente negli ultimi due anni e il pugno di ferro utilizzato nei confronti dei curdi sono serviti all’Akp per ottenere consensi tra le fila dei nazionalisti.

Sul fronte opposto, il Partito repubblicano del popolo (Chp) ha portato avanti, con non poche difficoltà a causa degli spazi ridotti lasciati alle opposizioni, la sua linea a favore del ‘no’ a una riforma costituzionale che il leader del partito Kemal Kılıçdaroğlu definisce un duro colpo alla democrazia turca. Una democrazia che negli ultimi anni è stata messa a dura prova, non da ultimo anche dal fallito golpe di luglio 2016 e dall’energica risposta di Erdoğan che ne è seguita.

Ma cosa prevedono in concreto i 18 emendamenti alla Costituzione turca del 1982? Senza entrare nel dettaglio di ogni singolo emendamento, le principali modifiche riguardano l’abolizione della figura del primo ministro e del governo e l'introduzione di una super-presidenza, con un presidente esecutivo che godrà del potere di emanare decreti che avranno forza di legge e non saranno soggetti a controllo parlamentare o giurisdizionale, di decretare lo stato di emergenza e di nominare e di rimuovere i ministri senza il voto parlamentare. Al presidente spetterà inoltre la nomina di sei dei tredici membri dell’Alto Consiglio dei giudici e dei pubblici ministeri, mentre gli altri saranno eletti dall’Assemblea parlamentare. Tra gli altri cambiamenti, il capo dello stato potrà essere membro o addirittura leader di un partito politico, opzione che oggi è invece esclusa dall’attuale Costituzione.

Se da un lato il governo sostiene che la riforma sottrarrà il paese alla perdurante fase di instabilità che lo attraversa, dall’altro sono in molti, non solo in Turchia, a ritenere che siffatti cambiamenti rafforzeranno il “one-man rule” del presidente Erdoğan, che negli ultimi anni di fatto non ha esitato a esercitare poteri al di là del dettato costituzionale. Si profilerebbe dunque uno scenario in cui il rischio di uno scivolamento del presidenzialismo “alla turca” in regime autoritario sembra tutt’altro che un’ipotesi. Profonda preoccupazione è stata espressa dalla Commissione di Venezia, nel parere rilasciato a marzo, per l’erosione del principio di separazione dei poteri e del sistema di “checks and balances” che una presidenza dagli ampi poteri esecutivi comporterebbe [1]. Del resto, già nel corso degli ultimi anni anche la Commissione europea nel suo rapporto annuale sullo status dei negoziati di adesione della Turchia all’Unione europea aveva sottolineato con preoccupazione l’erosione dello stato di diritto e l’arretramento del processo democratico nel paese. In questo contesto, sembra dunque alto il prezzo che la Turchia dovrà pagare per la prospettata stabilità.

Anche una vittoria del ‘no’ non si presenta esente da rischi. Lo scenario più probabile sarebbe quello di elezioni anticipate in cui l’Akp, sfruttando tra le altre cose la debolezza delle opposizioni, potrebbe raggiungere la maggioranza necessaria (i tre quinti) per procedere da solo alla riforma costituzionale senza attivare la procedura referendaria. Tutto questo accompagnato da un inasprimento dei toni e della repressione nei confronti dei curdi che con il loro voto potrebbero rappresentare, come nelle elezioni di giugno 2015, l’ago della bilancia del risultato referendario, per poi pagarne il prezzo più elevato.

 

Valeria Talbot, ISPI Senior Research Fellow

 

[1] http://www.venice.coe.int/webforms/documents/?pdf=CDL-AD(2017)005-e

 

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