Edoardo Greppi, professore di International Institutional Law e di Diritto internazionale umanitario e tutela dei diritti umani nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino analizza il ruolo che l'ONU dovrebbe ricoprire nello scenario che si sta delineando in Ucraina con l'invio di militari russi in Crimea.
Alla luce dell’escalation degli ultimi giorni in Ucraina, cosa può fare l’Onu?
In teoria, l’Onu potrebbe attivarsi facendo riferimento alla violazione, da parte della Russia, delle norme di diritto internazionale che proteggono la sovranità degli Stati e, conseguentemente, richiamando l'applicabilità del Capitolo VII dello Statuto delle Nazioni Unite, ma ritengo alquanto improbabile questa opzione. Il Consiglio di Sicurezza risulta, infatti, paralizzato e incapace di agire efficacemente, in quanto la crisi riguarda direttamente un membro permanente. Le vie praticabili restano quelle della diplomazia, con ricorso agli strumenti previsti nel Capitolo VI, quali negoziati, buoni uffici, mediazione, o con un'azione incisiva (improbabile) del segretario generale.
Gli Usa e i principali Stati membri dell’UE hanno deciso di sollevare giuste proteste avvalendosi della cornice del G7 e richiamandosi anche all’Atto finale di Helsinki del 1975. Purtroppo immagino che anche in questo caso, a parte l'effetto di annuncio mediatico, non succederà alcunché.
Ciò che potrebbero fare concretamente le organizzazioni internazionali, tra le quali penso soprattutto all'OSCE, è attivarsi come garanti degli obblighi del governo ucraino di rispettare i diritti delle minoranze in Crimea (in primis di quella russa) indebolendo così gli elementi pretestuosi dell'intervento deciso dal governo russo.
Lo scenario resta comunque poco confortante, in quanto l’Ucraina sembra il terreno ideale per rilanciare le ambizioni del presidente Putin di riconquistare per la Russia uno status internazionale rilevante, e rinfocolare il sentimento nazionalista.
Le azioni russe contravvengono alle norme del Diritto internazionale?
L’integrità della sovranità di uno stato è garantita da diverse norme del diritto internazionale. Tra queste la Carta delle Nazioni Unite, che protegge l'integrità territoriale e l'indipendenza politica degli stati e vieta l'uso della forza, e gli Accordi di Helsinki, che hanno sancito la sistemazione politico-territoriale esistente e le relative frontiere. Ogni eventuale modifica di quell'assetto deve essere fondata su accordi. Questo non significa, dunque, che questo tipo di accordi non possa essere concluso, ma soltanto che il ricorso unilaterale alla forza (ad esempio con l'invio di contingenti militari senza il consenso del governo dello Stato sovrano) non è accettabile.
Quindi, nel caso in questione, se non si riuscisse a dimostrare che l’impiego della forza è avvenuto con il consenso del governo ucraino attraverso accordi bilaterali, attuali o previgenti, allora l’intervento è da considerarsi in palese contrasto con quanto stabiliscono le norme dell'ordinamento internazionale.
Con il referendum in Crimea del 30 marzo potrebbe cambiare qualcosa?
Qualunque fosse l’esito del referendum, la situazione resterebbe comunque delicata, in quanto le autorità della Crimea non potrebbero appellarsi al principio del diritto di autodeterminazione dei popoli, che ha un campo di applicazione ristretto. Il diritto internazionale riconosce un riferimento al principio solo nei casi nei quali vi sia la sottoposizione a un governo straniero, o la presenza di una dominazione coloniale o il territorio sia stato occupato con la forza. E questo non sarebbe il caso della Crimea. Il voto positivo del referendum determinerebbe una semplice secessione, con la nascita di un nuovo stato indipendente, che dovrebbe poi decidere quale tipo di relazioni instaurare con la Russia. Un ordinamento tendenzialmente "conservatore" come quello internazionale non ama assecondare le aspirazioni secessioniste.
Edoardo Greppi, professore di International Institutional Law e di Diritto internazionale umanitario e tutela dei diritti umani nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino