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UNIONE EUROPEA

Ucraina: Europa, traguardo lontano?

Davide Tentori
|
Alberto Rizzi
24 giugno 2022

Sono passati più di otto anni da quel novembre 2013 in cui migliaia di cittadini ucraini si radunarono in Piazza Maidan, sventolando bandiere europee per chiedere un futuro per Kiev che guardasse a Ovest e non alla Russia. L’avvio di un nuovo corso per l’Ucraina, segnato dall’accordo di Associazione con l’UE nel 2014 e, nel 2019, dall’inserimento in Costituzione dell’Unione Europea come ambizione strategica per il Paese. Otto anni che hanno però visto anche l’annessione russa della Crimea e un lungo conflitto, che nel febbraio scorso è deflagrato nell’invasione su larga scala da parte delle truppe di Mosca. Il 24 giugno si è conclusa la prima fase, con la decisione a unanimità del Consiglio europeo che ha conferito all’Ucraina lo status di Paese candidato all’UE, e se ne è aperta una seconda, in cui Kiev dovrà dimostrare di sapersi conformare ai parametri comunitari e trasformare in realtà le proprie ambizioni europee.

 

Un traguardo, ma anche un inizio 

L’ultimo vertice del Consiglio europeo, prendendo atto del parere positivo della Commissione e vincendo le resistenze di possibili membri “riottosi” quali l’Ungheria, ha formalmente conferito all’Ucraina lo status di Paese candidato a entrare nell’Unione europea. Un risultato atteso, soprattutto dopo il viaggio a Kiev di Scholz, Macron e Draghi, al termine del quale i leader delle tre principali economie dell’Eurozona avevano dichiarato il loro sostegno per l’integrazione di Kiev nell’Unione. Proprio il Presidente del Consiglio italiano era stato tra i principali sostenitori delle ambizioni europeiste dell’Ucraina, un supporto che si è poi esteso a tutti gli Stati membri e che ha visto il suo compimento formale al Consiglio del 23-24 giugno. 

Per l’Ucraina si tratta di un successo importante, ancor più tenendo conto della rapidità intercorsa tra la richiesta di adesione, inviata il 28 febbraio scorso quando la capitale ucraina era sotto assedio da parte delle forze russe, e la risposta positiva del Consiglio Europeo. Un unicum che però non rappresenta un traguardo, ma solamente l’inizio di un lungo percorso che potrebbe durare anche decenni.  Lo sguardo agli altri candidati non lascia margine a molto ottimismo: nella “sala d’attesa dell’UE” vi sono infatti da molto tempo Albania, Macedonia del Nord, Serbia, Turchia e Montenegro – oltre alla Moldavia che ha ottenuto lo status insieme a Kiev. Pur conservando una neutralità militare come previsto dalla propria costituzione, Chisinau ha espresso posizioni europeiste fin dall’inizio del conflitto in Ucraina e lo scorso 3 marzo ha presentato la domanda ufficiale di ingresso. Lo stesso giorno anche la Georgia aveva chiesto formalmente l’adesione, ma in questo caso la domanda di Tbilisi non ha incontrato lo stesso sostegno: a pesare sono stati soprattutto i ritardi nella riforma della giustizia e il progresso troppo lento sul fronte della lotta alla criminalità organizzata e alla corruzione, oltre al basso livello di libertà e pluralismo nei media.

Se infatti nei confronti di Ucraina e Moldavia la Commissione si è espressa favorevolmente, a fronte dell’impegno dei due Paesi a proseguire un percorso di riforme, per la Georgia si richiedono maggiori passi in avanti prima di poter dare un endorsement ufficiale. La raccomandazione della Commissione rappresenta un parere tecnico, basato sull’analisi delle condizioni rispetto ai criteri di accesso, mentre la scelta del Consiglio Europeo non può prescindere da considerazioni politiche. Del resto, nel caso ucraino la decisione di concedere lo status di candidato in questo momento rappresenta un chiaro messaggio a livello internazionale e l’eventuale ingresso in UE di un Paese con le dimensioni, geografiche e demografiche, dell’Ucraina ha inevitabilmente un forte impatto sugli equilibri interni.  

Una volta divenuto ufficialmente candidato, un Paese deve progressivamente allinearsi alle normative comunitarie, soprattutto in termini di economia e stato di diritto. Il processo prevede l’apertura di capitoli di adeguamento, ciascuno dedicato a una specifica area di policy, i quali possono essere chiusi solo quando tutti gli Stati Membri ritengono adeguato il progresso compiuto in termini di riforme. In totale i capitoli sono 35 e rappresentano uno sforzo notevole soprattutto per quei Paesi che, come l’Ucraina, provengono da tradizioni giuridiche distanti da quelle comunitarie. Inoltre, la regola dell’unanimità espone i candidati al rischio di stop, anche per considerazioni più politiche che legate all’effettivo progresso svolto. Solo dopo la chiusura di tutti i capitoli può infine essere siglato un Trattato di Adesione che indica la data definitiva di ingresso, prima della quale tuttavia il Paese candidato inizia a partecipare come osservatore all’interno degli organi e delle agenzie comunitarie.

 

Quali precedenti?

La negoziazione delle riforme e la discussione sui capitoli possono richiedere decenni: la Turchia ha ottenuto lo status di candidato nel 1999, ma, pur avendo aperto 16 capitoli, ne ha chiuso soltanto uno – e temporaneamente (anche se al giorno d’oggi il processo di adesione di Ankara è sostanzialmente su un binario morto). Più breve è stato invece il processo di adesione di Svezia e Finlandia, per le quali l’ingresso è arrivato nel triennio successivo alla presentazione della domanda, in larga parte accelerato dal già ampio livello di convergenza a livello legislativo e di standard. Cipro e Malta si trovano invece in fondo alla classifica, con oltre 13 anni trascorsi prima di poter entrare nell’Unione. Kiev si pone in una posizione particolare, sia per il contesto di guerra in cui si trova sia per il progressivo avvicinamento all’UE iniziato con la rivoluzione di Euromaidan. Nel marzo 2014, infatti, l’Ucraina sottoscrisse un accordo di associazione che nel corso di questi anni ha consentito di raggiungere, oltre ad una importante crescita dei rapporti commerciali con l’Unione Europea, anche un progressivo adattamento alle norme comunitarie.  

 

I prossimi passi

Ma “cosa serve” per entrare effettivamente nell’UE? Innanzitutto, va detto che per poter diventare uno Stato membro occorre soddisfare i cosiddetti “criteri di Copenaghen”, definiti nell’ormai lontano 1993 ma ancora oggi alla base per orientare la direzione da prendere nel corso del processo di ammissione. I requisiti individuati sono essenzialmente tre: avere istituzioni stabili e democratiche, possedere un’economia di mercato funzionante e tradurre nel proprio ordinamento il corpus legislativo dell’UE (il cosiddetto acquis comunitario).

Dal punto di vista della stabilità politica, da quando ha ottenuto l’indipendenza dall’URSS l’Ucraina ha conosciuto fasi alterne; tuttavia, dal 2014 – anno in cui fu eletto presidente Petro Poroshenko – si può dire che il Paese sia entrato in una fase di sostanziale stabilità democratica nonostante il difficile contesto politico ed economico, acuito dalla guerra con la Russia. Le elezioni del 2019, la cui legittimità è stata confermata anche dai principali osservatori internazionali, videro una vittoria di Volodymyr Zelensky con una grande maggioranza al secondo turno. Tuttavia, come ha sottolineato l’OSCE, nonostante le elezioni si siano tenute nell’ambito di una regolare competizione, problemi come limitazioni alla libertà di stampa (motivate da questioni di sicurezza nazionale) e il conflitto già in corso nella regione del Donbass sottolineavano come l’Ucraina dovesse fare ulteriori passi avanti.

Per quanto riguarda invece l’economia, è indubbio che Kiev abbia compiuto importanti progressi negli ultimi anni: come sostenuto dal Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti, tra i punti di forza l’Ucraina può vantare una forza lavoro competente e con un alto livello di scolarizzazione, insieme a una solida base industriale e ad un settore agricolo molto forte (almeno fino a prima che la guerra scoppiasse). Miglioramenti che sono anche il frutto del programma di sostegno macroeconomico e finanziario del Fondo Monetario Internazionale iniziato nel 2016 e incrementato nel 2020 a causa dell’emergenza pandemica (anche se i fondi sono però stati tagliati nel 2021 a causa di rallentamenti nelle riforme richieste). Del resto, l’Ucraina ha costantemente faticato a implementare riforme strutturali che le consentissero di intraprendere un percorso di sviluppo simile a quello di Paesi vicini (l’esempio più calzante è quello della Polonia), soprattutto a causa di un contesto giudiziario e da un sistema istituzionale e burocratico ancora deboli e carenti che hanno finito per penalizzare le attività economiche e la concorrenza di mercato.  Un settore che si prospetta di non semplice integrazione è quello agricolo, ambito in cui oggi l’Ucraina svolge la funzione – almeno prima dell’inizio delle ostilità – di “granaio” dell’Unione. Kiev oggi rappresenta il 36% delle importazioni di cereali in UE e il 16% delle importazioni di olii da semi e un suo eventuale ingresso nel mercato agricolo comune andrebbe ad alterare gli equilibri interni. La Politica Agricola Comune (PAC) costituisce ancora oggi il 33% del bilancio totale dell’Unione ed è quindi soggetta a forti interessi economici da parte degli Stati Membri e dei rappresentanti dei produttori agricoli. Inoltre, l’ampia capacità produttiva ucraina e il minor costo del lavoro potrebbero creare squilibri per quanto riguarda le dinamiche di concorrenza, oltre che assorbire una buona parte dei fondi PAC. Per adeguarsi poi agli standard della nuova PAC, che entrerà in vigore dal 2023, Kiev sarà chiamata ad un complesso sforzo di rinnovamento e modernizzazione, in chiave sostenibile, attraverso l’adozione di tecniche più rispettose dell’ambiente.

Ad oggi, dunque, la distanza da colmare rispetto all’UE è ancora molto ampia: nella recentissima opinione della Commissione Europea sulla richiesta di adesione da parte dell’Ucraina, si evidenzia come il Pil pro capite di Kiev sia il 29,8% di quello medio UE (la Bulgaria, che attualmente è il Paese più povero, ha un Pil pro capite che è il 55% della media UE) mentre il business environment non è propriamente favorevole all’iniziativa imprenditoriale (85esimo posto nel Doing Business Index della Banca Mondiale) soprattutto a causa di una legislazione ancora carente in termini di tutela della concorrenza e di una presenza decisamente ingombrante da parte dello Stato nell’economia (oltre 3.500 aziende pubbliche equivalenti a circa il 20% della forza lavoro). D’altro canto, però, non vanno trascurati i progressi fatti in tema di consolidamento fiscale: il rapporto deficit/Pil si trovava intorno al 2% mentre il rapporto debito/Pil era calato negli ultimi anni di ben trenta punti percentuali tornando sotto al 50%. Si tratta purtroppo di parametri che dovranno essere rivisti pesantemente alla luce della vera e propria catastrofe economica a cui l’Ucraina sta andando incontro (il Pil potrebbe crollare del 40% quest’anno) e che non faranno che allungare il percorso di avvicinamento di Kiev all’UE.

 

Una strada lunga

Lo status di Paese candidato all’ingresso ha ad oggi una valenza squisitamente politica ed è un’ulteriore testimonianza della coesione interna all’UE nel confermare il sostegno a Kiev e al Governo di Zelensky. Tuttavia, l’Ucraina è un Paese coinvolto in un conflitto che potrebbe minarne la stabilità politica e ha già avuto effetti dirompenti a livello sociale (con oltre 12 milioni di sfollati – quasi un terzo della popolazione) ed economico. Quando il conflitto con la Russia sarà terminato, sarà prima di tutto necessario ricostruire il sistema economico e cercare di recuperare il terreno perduto durante la guerra. Secondo la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo, il Pil ucraino potrebbe effettuare un rimbalzo significativo verso l’alto già nel 2023, ma attualmente le incognite legate a un possibile proseguimento del conflitto sono ancora troppe. Da un lato, questa necessità potrebbe tramutarsi in un’opportunità per “bruciare le tappe” grazie a ingenti finanziamenti internazionali che potrebbero aiutare l’Ucraina a risollevarsi. La strada verso Bruxelles, però, non sarà né breve né rettilinea.

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Image Credits: ISPI Global Policy Forum 2022

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