Nella prima metà di maggio di ogni anno la Commissione Europea rende note le sue previsioni economiche di primavera che si confrontano con quelle dell’autunno precedente e con il loro aggiornamento invernale, all’inizio dell’anno. I numeri pubblicati il 16 maggio contengono l’importante valutazione dell’impatto della guerra ucraina sull’economia dell’Unione e dei singoli Stati membri.
La guerra frena la crescita perché aumenta i costi energetici, intralcia i commerci, semina incertezza fra investitori e consumatori. L’aumento del prezzo dell’energia causa inoltre inflazione e questa incide sul potere d’acquisto di molti redditi contribuendo anche per questa via a frenare la domanda. La finanza pubblica deve sopportare gli oneri dei sussidi, dei ristori e degli stimoli di vario genere che i governi decidono per aiutare l’Ucraina e i rifugiati e calmierare l’impatto delle vicende belliche sulle nostre imprese e famiglie. Tutto ciò succede quando i sistemi economici e le politiche stanno riprendendosi dalle conseguenze della pandemia. D’altra parte questa non è del tutto esaurita e, anzi, è fra le cause dell’importante rallentamento dell’economia cinese che influisce sulla crescita globale. Il terzo elemento che influenza le previsioni, le cui conseguenze si intrecciano con quelle della guerra e della pandemia e che rende perciò il quadro molto complesso, è l’avvio di politiche monetarie meno espansive dirette sia a contrastare l’inflazione sia a rientrare nella normalità dopo tre lustri di grande espansione della liquidità e di tassi di interesse bassissimi.
Meno crescita e più inflazione
La Commissione prevede che nel 2022 il Pil dell’eurozona cresca del 2,7% rispetto a quello del 2021. All’inizio di febbraio prevedeva un aumento del 4%. La guerra avrebbe dunque ridotto la crescita dell’1,3%. Anche se già in gennaio la velocità attesa della ripresa dalla pandemia stava ridimensionandosi visto che nell’autunno 2021 la previsione per quest’anno era del 4,3%. Per l’Italia la correzione della crescita attesa da gennaio è un poco maggiore, dell’1,7%. Questi numeri incorporano però la crescita ancora brillante della seconda parte dell’anno scorso, quando rimbalzavamo dalla forte recessione del 2020. Le stime della crescita prevista da gennaio a dicembre sono di circa due punti più basse, inferiori all’1% per l’Europa e meno di 0,5% per l’Italia.
L’inflazione media di quest’anno nell’eurozona salta dal 3,5% previsto in gennaio al 6,1%, avvicinandosi al 7% nel secondo trimestre. Per l’Italia il salto è analogo, dal 3,8 al 5,9. La Commissione prevede però che l’inflazione sarà piuttosto rapida a rientrare: già nel 2023 sarà del 2,7% nell’eurozona e del 2,3% in Italia. In ciò pare di scorgere qualche segno di un ottimismo che da quasi un anno caratterizza anche le previsioni della BCE (ma anche della FED americana e del Fondo Monetario Internazionale) che insistono a considerare molto “temporanea” un’accelerazione dei prezzi che invece persiste e si aggrava. Ma anche le previsioni di crescita, prima richiamate, possono considerarsi ottimistiche, soprattutto se si immagina che la guerra porti a blocchi violenti delle importazioni energetiche dalla Russia e ulteriori forti rialzi dei loro prezzi: per questo la Commissione espone una complessa simulazione che ipotizza tali blocchi e rialzi. Ne viene un ulteriore calo della crescita reale nell’eurozona di 2,5 punti nel 2022 e di 1 punto nel 2023: da gennaio a dicembre di quest’anno si avrebbe allora crescita negativa; l’inflazione di quest’anno crescerebbe di 3 punti, sfiorando dunque il 10%, e di un punto l’anno prossimo. Il vero punto di rischio e di incertezza è però la durata della guerra: a lungo andare i suoi impatti negativi potrebbero autoalimentarsi ed entrare in circolo vizioso con le aspettative. In particolare, la crisi alimentare dei Paesi meno sviluppati, importatori di prodotti agricoli russi e ucraini, potrebbe avvitarsi con sviluppi politici minacciosi. Pericolosa è anche la minor crescita della Cina che pare andare oltre l’impatto della pandemia e coinvolgere il suo modello di sviluppo e di integrazione internazionale.
L’andamento dei tassi di occupazione e disoccupazione del lavoro, e la loro evoluzione prevista, non sembra invece, per ora, risentire della guerra mentre segnala ancora la ripresa dalla fase acuta dello shock pandemico. Il tasso di disoccupazione italiano rimane di circa due punti superiore a quello dell’eurozona.
Le finanze pubbliche
Anche per i disavanzi e i debiti pubblici l’effetto dello shock bellico è nascosto dal cammino di rientro dall’ingente squilibrio del 2020. L’Italia ha disavanzi di circa due punti di Pil più alti della media dell’eurozona e rapporti fra debito pubblico e Pil maggiori di ben 50 punti. Guardando al limite di Maastricht per il disavanzo del 3% del Pil, quest’anno è previsto che venga superato da 12 Paesi (uno più del 2021) su 19 membri dell’eurozona, compresa l’Italia che però è fra gli unici tre ad andare oltre il 5% ed è superata solo da Lettonia e Malta. Nel 2023 si prevede che anche l’Italia scenda sotto il 5%, rimanendo fra i 7 su 19 a superare il 3%. Sopra il limite di Maastricht per il rapporto debito/Pil, il 60%, sono 12 Stati membri dell’eurozona su 19, fra cui l’Italia che è fra i 6 che superano il 100%: situazione che vede il nostro Paese secondo solo alla Grecia e che non è prevista variare nei prossimi due anni, durante i quali la distanza dalla media del nostro rapporto rimarrà sostanzialmente costante.
I problemi di finanza pubblica accentuati dalla guerra hanno suggerito di rinviare di un altro anno la riattivazione (e dunque anche la riforma) del Patto, sospeso per la pandemia nel 2020. Quando sarà possibile riattivarlo, l’Italia non sarà sola a domandare gradualità nell’aggiustamento del debito ma sarà fra i Paesi per i quali l’avvicinamento ai parametri europei sarà più lungo e faticoso. D’altra parte non va trascurato il fatto che il Patto accresce la credibilità dell’Italia come debitore sovrano e dunque la sostenibilità del suo debito. L’esistenza di regole comunitarie, per quanto graduali e flessibili, per discutere e disciplinare i piani di finanza pubblica, riduce il rischio che gli investitori associano alla detenzione del debito del governo di un Paese che non ha una reputazione di rigore nella finanza pubblica.
La sostenibilità del debito è comunque uno dei problemi difficili che l’Italia dovrà affrontare nei prossimi anni. Tanto più difficile quanto più la normalizzazione appena avviata della politica monetaria sarà rapida nell’alzare i tassi di interesse. Infatti, se il disavanzo pubblico è previsto rimanere, in rapporto al Pil, di circa due punti superiore a quello medio dell’eurozona, l’incidenza su di esso degli interessi debitori (l’anno scorso al 49%!) è molto sopra a tale media (29%). Ciò succede a causa dell’entità del debito e nonostante nell’ultimo decennio il costo dell’indebitamento sia stato molto basso e, nelle scadenze sotto i due anni, addirittura negativo. Le previsioni della Commissione, nonostante un disavanzo primario in linea con quello comunitario, vedono crescere questa incidenza fino, addirittura, al 74% nel 2023. Se la normalizzazione monetaria dovesse procedere più rapidamente di quanto ipotizzato dalle previsioni di primavera e se episodi di sfiducia e speculazione ostacolassero il collocamento dei nostri titoli, il conto interessi diverrebbe esplosivo, rischiando di sacrificare alla sostenibilità anche le spese primarie dello Stato.
La debolezza della crescita italiana
Ovviamente il problema del debito sarà tanto più contenuto quanto più rapida sarà la crescita del Pil, compreso l’effetto dell’inflazione nella misura in cui non si tradurrà subito in rialzi dei tassi di interesse. La crescita reale è però da tanti anni l’altra difficoltà macroeconomica dell’Italia. Abbiamo un problema di bassa produttività media del nostro sistema economico, dovuto a varie cause, molte delle quali riassumibili in un’inefficiente allocazione delle risorse di lavoro e capitale. Dopo lo shock pandemico, quello della guerra ucraina rende più difficile realizzare rapidamente le riforme strutturali e gli investimenti previsti dal PNRR, il piano che abbiamo deciso, nel quadro del programma comunitario Next Generation EU, per correggere i difetti strutturali della nostra crescita e adeguarla alle nuove sfide globali. La debolezza del trend di crescita sottostante agli shock degli ultimi anni rischia di riemergere quando essi si esauriranno. Alcune stime della Commissione mettono in luce tale debolezza. Il tasso di crescita annuale del Pil “potenziale”, cioè il massimo producibile in piena occupazione, nella media 2021-3, è cifrato in 0,6%, meno della metà di quello dell’insieme dell’eurozona. La produttività del lavoro è prevista stazionaria mentre nell’eurozona cresce fra l’1 e il 2% all’anno. La variazione del costo del lavoro per unità di prodotto non si allontana molto dai ritmi comunitari solo perché le retribuzioni crescono a un tasso medio che, nel periodo 2019-2023 è quasi la metà di quello dell’eurozona e, al netto dell’inflazione, decrescono di mezzo punto all’anno mentre crescono quasi altrettanto nell’eurozona. La povertà delle retribuzioni medie è insieme sintomo, causa e risultato della debolezza dei meccanismi di crescita del sistema. Al di là degli shock esogeni di questi anni è a tale debolezza che occorre rapidamente metter mano con incisivi programmi strutturali.