Politiche monetarie e fiscali espansive creano inflazione, a parità di altre condizioni. Questo quanto prescrive qualsiasi manuale di economia in un contesto in cui l’economia cresce (forse più del dovuto) e, appunto, l’inflazione si impenna. Dopo i lockdowns da coronavirus del 2020, l’anno scorso l’Unione europea in effetti ha fatto registrare una crescita superiore alle aspettative, con un recupero quasi totale rispetto all’anno precedente (+5,4% nel 2021 rispetto al -5,9% nel 2020).
Complici i miliardi del Next Generation EU, quest’anno il recupero non solo sarebbe stato completato, ma il Pil avrebbe dovuto essere ben superiore a quello del 2019. Come largamente atteso, anche i prezzi sono tornati a salire già nel 2021, soprattutto a partire da metà anno quando i prezzi dell’energia sono schizzati in alto a fronte di una strategia russa che già preparava in campo economico la sua imminente azione su quello militare. Certo si potrebbe obiettare che l’aumento dei prezzi dell’energia è un fattore esogeno e che quindi non è legato a dinamiche economiche “interne”. In effetti la core inflation (che scorpora appunto beni come quelli energetici) è aumentata nell’Eurozona molto meno (3,7% su base annua a giugno 2022 rispetto al dato stimato dell’inflazione headline all’8,6%), ma è comunque aumentata.
La questione va inoltre vista in un’ottica più ampia. Dopo i miliardi di dollari immessi nell’economia nel 2020, negli USA l’economia si è surriscaldata, la disoccupazione si è ridotta ai minimi termini (3,6% a giugno di quest’anno) e i salari (molto più flessibili che in Europa) si sono adeguati puntando in alto. In pratica l’inflazione negli USA è molto più trainata dalla domanda che dai prezzi dell’energia (si veda al riguardo questo DataLab dell’ISPI). L’inevitabile corollario in termini di politiche monetarie è l’aumento dei tassi di interesse, già annunciati dalla FED lo scorso anno e ora via via realizzati (con tre rialzi già effettuati da marzo a giugno per valore cumulato pari a 150 punti base). Difficile pensare che la BCE potesse continuare a non intervenire. Ha infatti annunciato l’aumento dello 0,5% dei tassi con altri aumenti previsti in autunno.
Ricordare questo recente percorso è essenziale per comprendere appieno la questione del debito pubblico europeo e rispondere a una domanda chiave: c’è davvero bisogno e ci sono le condizioni (anche politiche dopo la crisi di governo in Italia) per un nuovo debito pubblico europeo dopo il Next Generation EU (NGEU)? O, detto in altri termini: l’indebitamento europeo dovrebbe passare da straordinario a permanente?
Debiti pubblici a confronto
Come descritto sopra, per affrontare le conseguenze economico-sociali della pandemia tutti i Paesi che hanno potuto (ovvero quelli più ricchi) hanno non solo optato per politiche monetarie fortemente espansive ma anche per un inevitabile incremento della spesa pubblica. Di conseguenza il debito pubblico sul Pil ha sforato per la prima volta a livello mondiale la soglia del 100%. Nell’UE la media è passata da circa il 79% nel 2019 a quasi il 90% l’anno scorso, con alcuni Paesi a livelli altissimi (Italia sopra il 150%, ma anche Francia al 113%, oltre a Grecia al 193% e Portogallo al 127%). Al pari di Cipro, Grecia, Polonia, Portogallo, Romania e Slovenia, l’Italia ha accettato tutte le sovvenzioni del NGEU (per circa 69 miliardi di euro) e ha anche scelto di prendere a prestito il massimo assegnabile (122,6 miliardi). Decisione giusta quella italiana perché in presenza di bassi tassi di interesse e prospettive di alta crescita legate agli investimenti l’indebitamento rimane sostenibile. Il tutto, peraltro, senza particolari vincoli sulla spesa corrente stante la (opportuna) sospensione del Patto di Stabilità e Crescita (PSC) da parte della Commissione UE.
Il ritorno dello spread
La guerra in Ucraina e le turbolenze della politica italiana stanno però cambiando drasticamente questa prospettiva. Con l’inflazione a livelli record da decenni (l’ISTAT a giugno l’ha stimata all’8% su base annua per l’Italia), tassi di interesse che puntano verso l’alto e mercati finanziari sempre più in fibrillazione le prospettive di crescita si fanno sempre più basse. Non è un caso che mentre fino a inizio anno ci si poteva “dimenticare” dell’accresciuto debito pubblico, da maggio ormai lo spread tra i titoli italiani e quelli tedeschi viaggia intorno (e di recente è costantemente sopra) i 200 punti base. E questo malgrado, è bene ricordarlo, il nostro debito pubblico rimanga (al momento) sostenibile. A preoccupare i mercati è infatti non solo l’incredibile quadro politico italiano ma anche il più ampio quadro internazionale. In un contesto di tassi di interesse in crescita, dei default potrebbero arrivare dai Paesi più poveri (con lo Sri Lanka che rischia di essere solo uno tra i tanti) e/o dalle economie emergenti che hanno un indebitamento elevato e che potrebbero innescare una propagazione all’estero di cui a farne le spese sarebbero soprattutto i Paesi più indebitati, anche se si tratta di economie mature come l’Italia.
Insomma, dopo un periodo di sostanziale inerzia, i mercati ricominciano a puntare i riflettori sul nostro debito pubblico. Da parte italiana si poteva ribattere a ragione (soprattutto prima della crisi di governo) che le deteriorate prospettive economiche dipendono da fattori esterni (a partire dagli effetti della guerra in Ucraina) più che dalle debolezze strutturali della nostra economia (che comunque permangono malgrado le parziali riforme fatte su impulso del NGEU). E non è infatti un caso che la BCE, mentre annunciava i rialzi dei tassi di interesse, si sia affrettata a predisporre un “Trasmission protection instrument” (TPI)che in Italia si preferisce tradurre con “scudo anti-spread”. Due sono, dal punto di vista italiano, le caratteristiche auspicate per questo nuovo strumento. Primo: dovrebbe andare ben oltre la possibilità (già avanzata in passato dalla stessa BCE) di riacquistare i titoli del Paese il cui spread sta aumentando troppo usando gli introiti dei titoli già posseduti dalla BCE che giungono a scadenza.
È evidente che, se un Paese è “sotto attacco”, gli introiti dai titoli in scadenza potrebbero essere inadeguati per ammontare (insufficiente ad arginare l’aumento dello spread) e tempistica (troppo tardi attendere la scadenza della prossima tranche di titoli). Secondo: il nuovo strumento non dovrebbe avere condizioni di accesso troppo stringenti e nemmeno un tetto massimo (anche perché altrimenti non se ne comprenderebbe l’utilità rispetto al già esistente MES che invece presenta elevata condizionalità). In effetti dalle prime parole della presidente Christine Lagarde entrambe le condizioni sembrerebbero in parte soddisfatte: il nuovo strumento si aggiungerà all’acquisto di nuovi titoli usando gli introiti di quelli in scadenza (questa rimane la prima linea di difesa), non avrà un ammontare massimo e la decisione sulla sua attivazione sarà a discrezione della BCE quando reputerà che l’aumento dello spread è eccessivo. Alcuni criteri saranno però seguiti dalla BCE per la sua attivazione: il Paese non deve essere in una procedura per deficit eccessivo (ma il Patto di stabilità e crescita è comunque al momento sospeso), non deve avere altri gravi squilibri macroeconomici, il suo debito pubblico deve essere considerato sostenibile, e deve ottemperare agli impegni presi con l’UE (inclusi quelli del Next Generation EU). Insomma non si tratta di un ‘liberi tutti’, ma lo strumento non presenta grossi vincoli e di certo aiuta l’Italia.
Debito comune: Investimenti e fiducia
Se dunque l’opzione di un aumento del nostro debito pubblico appare non auspicabile e non percorribile stante il crescente nervosismo dei mercati (e malgrado le misure vecchie e nuove della BCE), rimane da esplorare quella di un nuovo indebitamento comune. Ma per finanziare cosa? Ovviamente non la spesa corrente, ma gli investimenti. Per capire quali basta guardare gli obiettivi di medio-lungo termine che la stessa Unione europea si è data. Per la sola transizione verde e digitale la Commissione calcola che sono necessari 650 miliardi di euro addizionali all’anno fino al 2030. C’è inoltre l’ambizione di perseguire una “autonomia strategica" che impone anche degli investimenti nel campo della difesa. Se davvero si vuole essere seri nel perseguire questi obiettivi, sarebbe opportuno reintrodurre il prima possibile un nuovo PSC (qui una disamina dell’ISPI) che lasci spazio a nuovi investimenti da parte degli Stati in un percorso - credibile e adattato Paese per Paese – di rientro del debito pubblico. Ciò che non può essere finanziato dai singoli Paesi per le finalità di cui sopra o che riguarda investimenti con caratteristiche prettamente europee (“beni pubblici europei” come le grandi opere infrastrutturali nel campo del digitale, dell’energia sostenibile, della difesa) potrebbe essere finanziato da un nuovo debito pubblico europeo.
Quindi il bisogno di un nuovo indebitamento c’è. Ma ci sono anche le condizioni? Queste dipendono dalla fiducia tra i Paesi membri. Il Ministro delle Finanze tedesco Christian Lindner ha già detto che non accetterà un nuovo debito comune se prima tutti i soldi del Next Generation EU non saranno stati spesi, e bene. In questo “bene” rientrano anche le riforme che ciascuno Stato si è impegnato a realizzare per ricevere le varie tranches di pagamento. Non dovrebbe essere necessario, come farebbe presagire la dichiarazione di Lindner, aspettare che tutti i soldi nel NGEU vengano spesi “bene”, ma bisognerà dimostrare che in effetti lo si sta facendo passo dopo passo. Solo così si potrà creare un clima di fiducia che possa far accettare anche ai Paesi frugali l’idea di un nuovo indebitamento comune. Per un Paese come l’Italia che si avvia verso le elezioni, ciò implicherebbe anche mettere al centro del dibattito politico interno il tema del debito, non solo quello futuro (e ipotetico) dell’intera UE, ma anche quello attuale (ed enorme) dell’Italia. Purtroppo è facile scommettere che il tema rimarrà un grande “sconosciuto”. A meno che non siano i mercati a farcene ricordare.