Le convulsioni della politica italiana e la loro soluzione saranno un elemento cruciale nel determinare il futuro dell’integrazione europea. L’esito delle elezioni del presidente della Repubblica, ma soprattutto la performance del governo italiano nei prossimi mesi nell’adottare le riforme necessarie e mobilitare la macchina amministrativa per il corretto utilizzo dei fondi europei sono sotto i riflettori dell’Europa nel momento in cui, ormai con urgenza, si discute della riforma delle regole fiscali e della necessità di dotarsi di una capacità di bilancio centrale che succeda in modo permanente al piano Next Generation EU. Anche per far fronte alla doppia sfida, già identificata come vitale, della transizione climatica e della digitalizzazione.
Un quadro mutato
Quel che accade in Italia non è la sola variabile politica, anzi si intreccia con gli sviluppi in Francia, con le imminenti elezioni presidenziali, e in Germania, dove si è chiusa l’era Merkel e si è appena insediato un governo di caratteristiche nettamente diverse da quelli che si sono confrontati con la costruzione europea nei due decenni passati. La posizione tedesca è particolarmente rilevante perché è stato il cambio di schieramento da parte di Berlino, che ha lasciato la compagine dei “frugali”, a costituire lo “swing vote” che ha consentito l’approvazione di una risposta alla pandemia quasi diametralmente opposta a quella data nel decennio scorso alla crisi dell’area euro.
Ma l’Italia è alla ribalta per una serie di ragioni: è il Paese a più alto debito (esclusa la Grecia) e per le sue dimensioni e la sua storia il più sospetto, a torto o a ragione, sul fronte della disciplina fiscale, ed è anche il destinatario della quota maggiore dei fondi post-pandemici europei. Inoltre ha un pessimo record nell’uso dei fondi europei. Dipenderà in prima battuta dall’Italia se la fiducia fra i Paesi che si era spezzata durante la crisi dell’euro potrà essere ristabilita.
È importante quindi che sia venuto proprio dall’Italia, insieme alla Francia, con l’iniziativa Draghi-Macron, il primo impulso alla riforma delle regole fiscali che la presidenza di turno francese vorrebbe passare, o quanto meno far avanzare in modo decisivo, nel primo semestre di quest’anno. Le regole sono sospese fino alla fine del 2022 e, in assenza di riforme, rientrerebbero in vigore dall’anno prossimo, imponendo all’economia europea una camicia di forza che, con le conseguenze della pandemia tutt’altro che smaltite, ne farebbe deragliare la ripresa. Le presidenziali francesi possono essere un impedimento, ma anche uno stimolo a fare progressi su questo fronte.
L’incognita viene appunto dall’Italia e dalla Germania, dove diverse voci dell’establishment politico e finanziario si sono già espresse per una reintroduzione senza modifiche del Patto di stabilità. Il nuovo ministro delle Finanze, il leader liberale Christian Lindner, è un ultraortodosso della disciplina fiscale, ma ha tenuto a far notare di aver votato a favore di NextGen EU. Ma il capo del Governo, Olaf Scholz, è stato uno dei protagonisti del diverso approccio di Berlino nella risposta alla pandemia. Inoltre, il programma, o “contratto”, della nuova maggioranza, formata da socialdemocratici, verdi e liberali, la cosiddetta coalizione “semaforo”, è scarno e sufficientemente vago su questo tema da non escludere nulla, anche se la sacralità dello Schuldenbremse (il freno al debito inserito nella Costituzione) è stata ribadita: anche questo tuttavia è così passibile di eccezioni da non costituire nei fatti un ostacolo insormontabile. “Il Patto di stabilità – recita il programma – ha mostrato la sua flessibilità”: ma si parla anche di avere come obiettivi la crescita, la sostenibilità del debito e gli investimenti sostenibili, di “ulteriori sviluppi delle regole” e di rendere il Patto “più semplice e trasparente”. Senza Angela Merkel, il ruolo della Germania potrebbe risultare meno centrale che in passato e, se ben orientato dalla spinta italo-francese (sempre a patto che l’Italia faccia “i compiti a casa”), essere maggiormente disponibile a una riforma in senso meno restrittivo. Sempre a seconda di quello che accadrà in Italia, l’asse di equilibrio in Europa potrebbe essersi spostato, seppure di pochi gradi.
Le proposte in campo
La lettera di Mario Draghi ed Emmanuel Macron al Financial Times a sollecitare la riforma delle regole di bilancio ha dato il colpo di pistola ufficiale per l’avvio della discussione, ma di fatto molti contributi hanno già cominciato a circolare. A partire da quello dei consulenti dei due leader che, guidati da Francesco Giavazzi, hanno proposto fra l’altro di fissare un tetto non più al deficit (il famigerato 3%) ma alla crescita della spesa pubblica primaria, con l’obiettivo di riduzione del debito pubblico su un orizzonte decennale. E anche il trasferimento di parte del debito a una European Debt Management Agency, che consenta di abbassare il costo del debito e faciliti le operazioni della Banca centrale europea.
Non mancano proposte più radicali: l’ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale, Olivier Blanchard, ritiene che regole rigide vadano abolite del tutto e sostituite con degli “standard”. Philippe Martin, che presiede il consiglio degli esperti che assiste il Governo francese, insieme ad altri economisti transalpini sostiene che le regole vadano fatte “su misura” per i singoli Paesi. È probabile che entrambe queste proposte non siano politicamente accettabili per il consesso dei frugali, che si sta già attrezzando per una proposta comune, e neanche alla Germania. “C’è il timore – ha detto recentemente a un incontro del Centre for Economic Policy Research il capo di gabinetto del commissario Gentiloni, Marco Buti, presentando il suo libro “The Man Inside: A European Journey Through Two Crisis” – che i Paesi si rifugino ciascuno ne suo angolo ideologico”. Buti ha però anche sostenuto che “per una volta” si sente ottimista.
Molte delle proposte ruotano attorno a due elementi, come indica uno studio della think-tank spagnola Real Instituto Elcano: dal punto di vista preventivo, l’adozione di una regola della spesa facilmente osservabile (al contrario dell’attuale sistema centrato sul calcolo dell’output gap), e la costruzione di una capacità di bilancio centrale, che prenda le mosse dell’attuale NextGen EU, che verrebbe istituzionalizzato e reso permanente. Un altro economista, ed europarlamentare, spagnolo, Luis Garicano, propone la creazione di una European Climate Investment Facility, per finanziare la transizione verde, da qui al 2050. In aggiunta alla riforma delle regole fiscali e alla creazione di una capacità di bilancio centrale, un altro gruppo di economisti, di cui fa parte Lucrezia Reichlin, ha suggerito di sfruttare la flessibilità nell’architettura legale esistente per favorire un coordinamento della politica fiscale e di quella monetaria, pur senza intaccare l’indipendenza della Banca centrale europea. Un’idea che, anche secondo Elga Bartsch, di Blackrock, e altri, fra cui Giancarlo Corsetti, è essenziale per assicurare l’efficacia delle politiche di stabilizzazione macroeconomica.
Le buone idee, insomma, non mancano e sono tutto sommato abbastanza convergenti. Toccherà come sempre alla politica poi prendere le decisioni finali: durante la pandemia, sotto la spinta dell’emergenza, ha preso quelle giuste. Il rischio è che appunto, finita l’emergenza, si ritorni al business as usual. In Italia innanzi tutto.