Ancora una volta il sogno di un'Africa unita si è infranto. Proprio nel luogo più carismatico, il Sudafrica, il paese leader negli ultimi vent'anni nello sviluppo democratico del continente nero, capace di mediare innumerevoli crisi politiche e diplomatiche, attraverso la figura di Nelson Mandela, il pacificatore per eccellenza. Il concetto di “ubuntu (fratellanza)” non ha retto ai morsi della fame, alla rampante disoccupazione, alla disperazione di milioni di giovani sudafricani, che non si nutrono di pane e ideologia. O almeno non più, stanchi di promesse che ormai da troppi anni l'Anc (Africa National Concress), il partito al potere dalla fine dell'apartheid, ha realizzato solo in parte. Una rabbia sfogata contro i “fratelli neri”, africani immigrati in Sudafrica per scappare da carestie, guerre civili e che nel corso degli anni si sono insediati con piccole attività commerciali all'interno della società locale. Come nel 2008, la xenofobia è sfociata nella violenza più estrema causando 7 morti. Questa volta negli scontri, oltre a un etiope, un mozambicano, e due giovani di Zimbabwe e Bangladesh sono morti anche 3 sudafricani. Le aggressioni sono iniziate dopo una discutibile esternazione del tuttora influente re degli Zulu, che aveva “invitato” gli stranieri a lasciare il Sudafrica, dato il livello di disoccupazione, che tra i giovani ha superato il 50%. Benzina sul fuoco e, prima a Durban, poi a Johannesburg, la rabbia latente si è presto trasformata in attacchi mirati. Centinaia di ragazzi sudafricani armati di coltelli e machete hanno dato il via a una vera e propria caccia all'uomo. La motivazione principale sarebbe che gli immigrati africani, soprattutto somali ed eritrei, agirebbero in modo scorretto applicando dei prezzi al ribasso nei cosiddetti “spaza shop”, dei piccoli chioschi presenti nelle township (baraccopoli) che vendono generi alimentari di prima necessità. Più una giustificazione che una realtà dato che, secondo il centro di ricerca sudafricano Migrating for Work Research Consortium (MiWORC) solamente il 4% della forza lavoro totale, circa 33milioni, è rappresentata da stranieri. Una tesi rafforzata da Zaheera Jinnah, antropologo e ricercatore all'African Center for Migration and Society, «c'è uno scollamento tra la percezione e la realtà, molto di quanto è stato detto è mitologico». Interpretazione che, però, non sembra esser stata recepita dal presidente sudafricano Zuma, che per non perdere ulteriori consensi ha preso di petto la situazione. L'esercito è stato spiegato negli ostelli dove sono presenti molti immigrati, ma soprattutto è stata lanciata l'operazione “Fiela”, coordinata da una task-force interministeriale e mirata a estradare dal paese tutti gli irregolari, compresi i richiedenti asilo politico.
Secondo l'agenzia dei rifugiati delle Nazioni Unite, sono nel 2015 i richiedenti sono già stati 330mila. Nelle prime settimane sono state fermate oltre mille persone, con modalità più o meno ortodosse, dato che varie associazioni di diritti civili hanno protestato sostenendo che non gli è stata garantita alcuna assistenza legale e molti si trovano ammassati in centri di deportazione pronti all'espulsione. È difficile stimare esattamente la presenza straniera irregolare nel paese, l'ultimo censimento del 2008 parla di circa 2,3 milioni di persone, secondo il New York Times invece si tratterebbe del doppio, cifra confutata dal sito di fact-checking AfricaCheck. Intanto non sembrano fermarsi le minacce nei confronti degli immigrati stranieri, soprattutto nelle vicinanze della città portuale di Durban dove è stato costruito un campo per sfollati dove circa 5mila persone di diversa nazionalità vivono. Alcuni di loro hanno deciso di lasciare il paese. Circa 400 mozambicani sono rientrati nella loro madrepatria e anche il governo del Malawi ha predisposto dei bus per andare a recuperare circa mille connazionali. Una situazione che sta complicando le relazioni diplomatiche di quella che fino al 2014 era la principale potenza economica del continente africano, oggi sorpassata dalla Nigeria. La prima a minacciare i grandi rivali sudafricani di boicottare e chiudere le numerose aziende attive sul proficuo mercato locale. Pronta la risposta di Pretoria che ha tuonato la possibilità di licenziare 6mila impiegati nigeriani del colosso della telefonia MTN. L'azienda petrolchimica Sasol ha rimpatriato i suoi lavoratori dal confinante Mozambico per paura di ritorsioni dopo l'uccisione di un cittadino mozambicano ad Alexandra, una delle baraccopoli di Johannesburg. Segnali di quanto la ventata xenofoba stia allontanando possibili investitori esterni da cui il paese è fortemente dipendente e incrinando l'opportunità di rafforzare gli scambi commerciali inter-africani, oggi ancora solo al 10%.
Nelle ultime settimane si sono succeduti a ripetizione vari meeting nelle diversi capitali africane per appianare diplomaticamente la situazione. La sensazione di fondo è che molti paesi africani si vogliano togliere qualche sassolino della scarpa contro il gigante sudafricano, ma ci sia la paura di farlo. Proprio nei giorni delle celebrazioni della fondazione dell'Unione Africana che, scherzo del destino, si riunirà in sessione straordinaria in Sudafrica, i sogni di un'agenda pan-africana e di un Continente unito sembrano infrangersi, proprio nel luogo dove, nel 1994, era rinata la speranza grazie a Nelson Mandela.
Lorenzo Simoncelli, giornalista freelance con base a Johannesburg