Segretario di Stato; Consigliere per la Sicurezza Nazionale; Segretario per la Homeland Security; Segretario del Tesoro; Direttrice dell’Intelligence Nazionale, Ambasciatrice alle Nazioni Unite e membro del Gabinetto. Antony Blinken; Jake Sullivan; Alejandro Mayorkas; Janet Yellen; Avril Haines; Linda Thomas Greenfield. Cariche e nomi che impareremo a conoscere e con i quali diverremo familiari nei mesi e negli anni a venire, questi. Ai quali se ne aggiungeranno a breve altri, a partire da quello, cruciale, del Segretario della Difesa. Una squadra, questa, cui sarà assegnato il compito di pianificare, guidare e mettere in atto la politica estera e di sicurezza dell’amministrazione Biden.
Ma come viene condotta questa politica? Quali sono le sue peculiarità? Come è cambiata nel tempo? Quanto è specifica agli Stati Uniti e al loro ruolo nel contesto internazionale?
Domande che rimandano a due eccezionalità, se vogliamo. Quella del sistema politico statunitense; e quella della impareggiabile superiorità di potenza degli Stati Uniti.
È una forma di governo “decisamente inferiore”, quella americana, per condurre una politica estera efficace e incisiva, si chiedeva un quarto di secolo fa lo scienziato politico Michael Mastanduno, in un saggio molto originale e intelligente? (Spoiler: la risposta è no)Tesi in una certa misura cara al realismo – quella di una inadeguatezza intrinseca del sistema politico Usa rispetto alla sua azione esterna - e affermata con forza, ad esempio, da Henry Kissinger che su questo costruì le sue fortune intellettuali e politiche grazie a un’autorappresentazione tutta centrata attorno alla figura del sofisticato realpolitiker europeo prestato all’ingenua America per insegnarle le leggi brutali e imperiture delle relazioni internazionali (imparando, come era solito affermare, dall’Europa a condurre una politica estera “without escape and without respite”). Per la quale il sistema di pesi e contrappesi della repubblica statunitense, il presidenzialismo debole, il federalismo e la divisione di poteri convergono nel rendere difficile se non impossibile la conduzione di una politica estera coerente, incisiva ed efficace. Troppi, secondo questa lettura, gli attori che concorrono a determinarla, in una cacofonia di voci che già nell’Esecutivo si esprimono e manifestano spesso in contrapposizione le une alle altre,pensiamo ai tanti epici scontri tra segretari di Stato, della Difesa e i Consiglieri per la Sicurezza Nazionale, da Dulles–Wilson a Kissinger–Rogers (e Kissinger-Schlesinger o Kissinger-Rumsfeld), da Brzezinki–Vance a Powell– Rumsfeld, solo per citarne alcuni tra i tanti. Inevitabile la tensione tra l’intrinseco provincialismo della politica statunitense e gli obblighi globali della superpotenza americana, tra la parochial politics e la global policy. Naturale una dialettica conflittuale e raramente salubre tra Presidenza e Congresso, con il secondo che ha molteplici modi diretti (il ruolo del Senato nell’approvare trattati e nomine) e indiretti (quello della Camera su bilancio, commercio e immigrazione) per condizionare e finanche indirizzare l’azione internazionale del paese. Troppo debole e fragile la Presidenza – cui la Costituzione assegna in fondo poteri limitatissimi - per imporre la sua volontà. Troppo “sovranista” un potere giudiziario (e un organo legislativo) che in numerose occasioni hanno affermato il primato del diritto interno su quello internazionale: della Costituzione sui Trattati. Troppi, insomma, gli attori in campo – spesso in competizione gli uni con gli altri – in un processo pluralista che obbliga chi studia la politica estera degli Stati Uniti e la sua storia a cercare di ricostruire e mappare questa complessa geografia e le relazioni plurime che scorrono parallele a quelle ufficiali e non di rado contro di esse (inclusa l’azione di stati e municipalità che talora sfidano apertamente l’azione diplomatica ufficiale, come abbiamo visto anche in tempi recenti con il governatore del Texas Greg Abbott che nel 2015 rigetta l’accordo sul nucleare iraniano e unilateralmente dichiara di mantenere e rafforzare il regime di sanzioni del suo Stato contro Teheran o con i tanti Stati e città che promuovono una sorta di diplomazia parallela e dichiarano di continuare a rispettare i termini dell’accordo sul clima di Parigi dal quale l’amministrazione Trump si era ritirata).
E però .... e però ci sono molti però e il rischio di esagerare tutte queste dimensioni è assai elevato, a partire dalle tesi fantasiose di alcuni geopolitici che s’inventano politiche estere autonome di macro-regioni statunitensi che in realtà esistono solo nella loro fervida immaginazione. Perché la politica estera e di sicurezza è ambito privilegiato come pochi altri del governo federale. Perché questo privilegio è cresciuto al crescere sia della potenza degli Usa sia della loro piena integrazione nel sistema mondiale. Perché la scheletrica e obsoleta Costituzione degli Stati Uniti – troppo spesso lo dimentichiamo – lascia ampie isole di ambiguità che vengono di volta in volta riempite nella costante dialettica Esecutivo/Legislativo e costituisce di fatto un “invito alla lotta” tra i due rami del governo “per il privilegio di guidare la politica estera americana”, nella celebre definizione che ne diede Edward Corwin. Perché esigenze e ambizioni di potenza hanno reso vieppiù “imperiale” la presidenza statunitense.
E allora cosa rende questa politica estera efficace e coerente? Quali sono le condizioni che la permettono e le scelte che la favoriscono? E cosa ci dice la storia rispetto a tutto ciò?
Posto che questa politica estera è spesso reattiva e ad hoc: indirizzata – come sa bene chi ha un minimo di esperienza d’archivio – da contingenze inattese e politiche quindi adattate e non di rado improvvisate, più che da disegni visionari e grand strategies onnicomprensive, quattro punti meritano qui di essere sottolineati. Il primo riguarda appunto la Presidenza; il secondo il suo rapporto con il Congresso; il terzo l’opinione pubblica interna se non l’umore del paese; il quarto quello di un’opinione pubblica mondiale alla quale chi guida gli Usa – per le ambizioni universalistiche del paese ovvero per il suo impareggiabile status di potenza – inevitabilmente (e costantemente) si rivolge.
La superiorità relativa e assoluta degli Stati Uniti rimane oggi incontestata, come il dominio del dollaro, il netto primato militare o l’egemonia culturale si premurano quotidianamente di ricordarci. Ma ciò non basta se i quattro elementi di cui sopra non operano efficacemente e in sincrono. Una Presidenza efficace sulle questioni internazionali lo può essere centralizzandone il controllo nelle mani del Presidente, usando magari in tal senso il “suo” Consigliere per la Sicurezza Nazionale (come fece Nixon con Kissinger, anche se il rafforzamento del ruolo del CSN inizia con Kennedy/Bundy e Johnson/Rostow), ovvero promovendo un effettivo coordinamento delle diverse componenti che si occupano di politica estera e di sicurezza (per il quale la collaborazione Dipartimento di Stato/Pentagono/NSC è fondamentale, si pensi solo ai casi recenti di Berger/Albright o Tillerson/McMaster). Il dialogo produttivo con il Congresso è fondamentale e, in tempi di acuta polarizzazione come quello attuale, particolarmente difficile da raggiungere, tanto che sempre più frequente è stata l’esclusione dell’organo legislativo se non la vera e propria usurpazione delle sue prerogative costituzionali (le guerre non vengono ormai più “dichiarate” e i trattati/treaties – trasformati in accordi/accords - non ratificati, per esempio). L’opinione pubblica sembra essersi fatta sempre più riluttante a sostenere costi e oneri di politiche internazionaliste e proattive. Quella internazionale reagisce negativamente a una mobilitazione di quella interna per il tramite di una retorica nazionalista ed eccezionalista che sottolinea e non di rado esagera le minacce esterne.
Biden insomma si trova a muoversi su un crinale sottile e difficile. Le prime scelte – soprattutto l’accoppiata Blinken al dipartimento di Stato e Sullivan al NSC – sembrano indicare sia la volontà di evitare dualismi e contrapposizioni sia di ridare centralità al dipartimento di Stato, evitando eccessivi accentramenti presidenziali. Le dichiarazioni internazionaliste e il rilancio di un discorso (e di una simbologia) multilateralista e cosmopolita – che Blinken incarna alla perfezione – costituiscono evidentemente una mano tesa a un mondo, e soprattutto a un’Europa, che a larga misura sembra apprezzare questo nuovo messaggio. E però questo discorso suscita resistenza e diffidenza negli Usa. E si scontra ovviamente con la realtà iperpolarizzata che anche questo voto ha rivelato e con la sua traduzione politico istituzionale in un Congresso diviso e una dialettica potere federale-poteri statali che l’ottimo risultato dei repubblicani ha confermato e acuito e che potrà condizionare anche la politica estera e di sicurezza.