Quando la pandemia ha colpito, le economie europee i governi nazionali si sono trovati in prima fila nel provare ad attenuarne gli effetti sanitari ed economici. Non poteva che essere così, visto che la capacità di bilancio nell’UE (e nella zona euro) rimane una prerogativa dei Paesi membri.
Questo non vuol dire che l’Europa sia stata a guardare. Sorprendendo molti (tra cui chi scrive, che credeva che non si fosse fatto tesoro della gestione calamitosa della crisi del debito sovrano), l’Europa si è mossa presto e bene, agendo da facilitatore degli sforzi dei governi. Da un lato il programma PEPP di acquisti di titoli della BCE proteggerà i Paesi membri dalla speculazione dei mercati fino almeno a giugno 2021. Dall’altro, la sospensione delle regole di bilancio, l’alleggerimento delle regole sugli aiuti di Stato, e i programmi di prestiti sovvenzionati SURE e MES sanitario (non un grande successo, bisogna dire), hanno lasciato libere le mani dei governi alleviando i loro sforzi nel sostenere i due settori in cui gli effetti della crisi sono stati più violenti, sanità e mercato del lavoro. È onestamente difficile sostenere che nella fase acuta della crisi l’Europa avrebbe potuto o dovuto fare di più.
Il Next Generation EU
Con il programma Next Generation EU nel quale è innestato il Fondo per la Ripresa (Recovery and Resilience Fund), si è entrati in una fase più complessa. Nel medio-lungo periodo, infatti, si intrecciano la necessità di rilanciare la crescita, quella di avviarsi con più decisione su di una traiettoria di crescita sostenibile, quella di riformare le nostre istituzioni per renderle più efficaci nell’affrontare le crisi che verranno e quella, purtroppo non meno importante, di gestire l’eredità della crisi. Si tratta di compiti per i quali la dimensione europea è imprescindibile.
L’accordo sul Fondo per la Ripresa raggiunto al Consiglio europeo del luglio scorso è stato a ragione descritto come un accordo storico. I tratti salienti, è noto, sono un massiccio indebitamento europeo e il trasferimento di larga parte delle risorse così ottenute agli Stati (in parte sotto forma di trasferimenti) in base alle necessità create dalla crisi del Covid-19. Questo vuol dire, di fatto, che per la prima volta i Paesi europei si sono accordati su di uno sforzo congiunto per finanziare l’investimento necessario a mettere la pandemia definitivamente dietro di noi e a imboccare con decisione la via della transizione ecologica.
L’accordo del 20 luglio ha molte zone d’ombra, e non costituisce certo (non ancora, almeno) un "Momento Hamiltoniano", un atto fondativo per l’Europa federale. Intanto ci sono tutti i limiti dello strumento, introdotti per ottenere il via libera della Germania: il Fondo è temporaneo, e non si fa carico dei debiti esistenti. Poi, il Fondo distribuirà i finanziamenti ottenuti sui mercati ai Paesi membri, sul modello dei fondi strutturali; non si poteva fare altrimenti. Ma una capacità di indebitamento comune dovrebbe essere accompagnata da un lato dalla possibilità di spendere direttamente a livello centrale; dall’altro, da quella di incamerare entrate fiscali (le “risorse proprie” su cui l’accordo di luglio si impegna ma in modo per il momento vago). Infine, i Paesi detti frugali hanno condizionato il via libera al Fondo a tagli significativi dei finanziamenti ordinari per programmi europei come la ricerca scientifica, gli investimenti, il fondo per la transizione energetica e addirittura la sanità.
Al di là degli aspetti quantitativi (su cui il Parlamento europeo si è meritoriamente impuntato, riuscendo a limitare i danni), il messaggio è stato quello di un ridimensionamento dell’impegno nei pochi beni pubblici genuinamente europei. Mentre con il Fondo si lancia un ambizioso programma per adeguare l’Unione europea alle sfide del ventunesimo secolo, si è persa l’occasione di orientare gli strumenti ordinari dell’UE verso stessi obiettivi. Rimane il fatto che il Fondo per la Ripresa è uno snodo fondamentale per le maggiori sfide che la politica economica europea dovrà affrontare nei prossimi anni.
Un embrione di capacità di bilancio?
Intanto, il Fondo potrebbe rappresentare un primo passo per la creazione di una vera capacità di bilancio europea: uno strumento di stabilizzazione che consenta in futuro di assorbire shock macroeconomici che colpiscano uno o più Paesi. Dopotutto, non è la prima volta che strumenti nati per essere temporanei vengono in seguito incorporati nel quadro istituzionale. Per far questo occorre riuscire ad avanzare lungo tre direttrici.
In primo luogo, occorre che si trovi un consenso politico sulla creazione di risorse proprie. Al momento la sola su cui si è trovato un accordo è la plastic tax, mentre non c’è accordo sulla tassazione delle multinazionali e sulla tassa carbone alle frontiere. Poi, i Paesi membri dovrebbero accordarsi sul rilancio dell’investimento in beni pubblici genuinamente europei, e non limitarsi (come nel quadro del Fondo per la Ripresa) a finanziare e rendere coerenti gli investimenti nazionali. Infine, e non da ultimo, per l'Europa e per l'Italia la sfida sarà quella di riuscire a canalizzare le risorse in progetti efficaci, secondo un progetto coerente e, soprattutto, aumentando la capacità di spesa. Ancora oggi l'Italia è agli ultimi posti tra i Paesi membri per la capacità di spendere i fondi strutturali che riceve dall'UE. I finanziamenti del Fondo spettanti al nostro Paese saranno circa il triplo dell'intero finanziamento comunitario per il periodo 2014-2020, da spendere in quattro o cinque anni al massimo. Un compito da far tremare le vene anche alle amministrazioni pubbliche più efficienti. Se si utilizzerà in modo efficiente il Fondo, se si lavorerà a risorse e a progetti di investimento comuni si potrà a quel punto, e solo a quel punto, legittimamente mettere sul tavolo il progetto di trasformazione del Fondo in una capacità di bilancio comune.
L’eredità del debito
Lo sforzo di contrasto alla pandemia ha fatto esplodere il debito pubblico. L'emissione netta da parte dei governi dell'area dell'euro ha raggiunto livelli record di 874 miliardi di euro in soli sei mesi tra marzo e agosto 2020 (lo stesso ammontare fu raggiunto in un anno e mezzo dopo la crisi finanziaria globale tra settembre 2008 e febbraio 2010). Proprio questa esplosione del debito dei Paesi membri è stata dietro la decisione di assumere debito comune tramite il Fondo per la Ripresa. Tuttavia, la sostenibilità delle finanze pubbliche dei Paesi europei non è oggi un problema, per almeno due fattori. In primo luogo, la crisi ha generato un’enorme massa di risparmio che si è riversata sul debito pubblico di tutti i Paesi, compresi quelli con finanze pubbliche meno solide. Da marzo, praticamente tutte le aste per le emissioni italiane hanno visto una domanda abbondantemente superiore all’offerta. L’appetito dei mercati anche per i titoli in linea di principio più rischiosi è spiegato dal secondo fattore, l’ombrello aperto dalla BCE con il suo programma di acquisti di titoli, che ha di fatto reso appetibile tutto il debito emesso nella zona euro.
L’ombrello della BCE sarà prima o poi richiuso, anche se l’orizzonte è abbastanza lontano (è lecito immaginare che il programma sarà allungato alla fine del 2021 se non addirittura oltre). E comunque l’eccesso di risparmio (che comporta tassi d’interesse vicini allo zero) è diventato da più di un decennio una caratteristica strutturale delle economie avanzate. Questo consentirà di gestire la massa di debito ereditato dal passato senza infliggere all’economia europea una nuova stagione di austerità che sarebbe ben peggiore di quella che ha seguito la crisi del debito sovrano (colpirebbe economie rese fragili dalla crisi del 2010 e che sono state devastate dalla pandemia).
Di fatto, dal punto di vista della dinamica del debito (e purtroppo anche del costo in vite umane) la pandemia può essere assimilata a una guerra, un evento eccezionale. E mai, nella storia recente, il debito accumulato in circostanze eccezionali è stato "ripagato" con avanzi di bilancio che avrebbero richiesto decenni di politiche restrittive. Circostanze eccezionali hanno richiesto misure eccezionali- molte delle quali sono state evocate in questi mesi: dall'inflazione alla repressione finanziaria, all'emissione di obbligazioni perpetue alla monetizzazione, o ancora alla sterilizzazione del debito detenuto dalla BCE tramite trasferimento al MES.
Investimento e regole europee
Il Fondo per la Ripresa ha infine, ma non da ultimo, portato al centro del dibattito di politica economica europea il tema dell’investimento pubblico. Con l’economia mondiale che sperimenta una recessione di dimensioni mai viste, con lo stock di capitale pubblico ai minimi e con tassi di interesse che sono (e rimarranno) praticamente a zero quasi ovunque, un programma di investimenti pubblici costerebbe pochissimo e stimolando la crescita di potrebbe ripagare. È per questo che, già nel 2014, il FMI parlava di “pasto gratis”.
Tuttavia, è la lezione della pandemia, la qualità della spesa sarà ancora più cruciale che in passato. Il "vecchio" approccio contabile all'investimento pubblico, che misura principalmente il capitale fisico (che per esempio escluderebbe gran parte delle spese per la sanità, la cui importanza è risultata evidente in questi mesi) è inadeguato per comprendere appieno la natura dell'investimento pubblico, e dovrebbe essere sostituito da un approccio che potremmo definire “funzionale”: è investimento ciò che aumenta lo stock di capitale materiale e immateriale.
Nel febbraio 2020, poche settimane prima che le economie dell'UE entrassero in quarantena, la Commissione europea ha avviato un processo di consultazione sulla riforma del Patto di stabilità e crescita che a sua volta prende le mosse dal bilancio, sorprendentemente severo, del quadro esistente. La Commissione fa proprie le critiche che ormai da qualche anno fanno l’unanimità tra gli economisti indipendenti: (a) il quadro attuale è eccessivamente complesso, arbitrario, difficile da far rispettare; (b) grazie alle regole si sono controllati i disavanzi ma non il debito, che è la vera misura della sostenibilità delle finanze pubbliche; (c) l’investimento pubblico, generalmente più facile da ridurre di quanto non siano le spese correnti, è stato penalizzato; (d) infine, la Commissione riconosce per la prima volta che il quadro attuale ha spinto molti governi a ridurre la spesa quando l’economia rallentava (in particolare tra il 2010 e il 2013). Insomma, tra le righe si legge che le regole europee hanno reso la politica di bilancio un fattore di instabilità e non di stabilizzazione.
Il processo di consultazione è stato recentemente rilanciato. La vecchia idea di una regola d’oro delle finanze pubbliche, che consentirebbe di escludere l’investimento dal calcolo del deficit, oggi si sta facendo nuovamente strada nel dibattito politico. Alla luce delle considerazioni fatte sopra, la sfida sarebbe quella di abbandonare l’approccio squisitamente contabile e definire gli investimenti in termini funzionali, in modo da includere tutte le spese che hanno il ruolo fondamentale di accrescere il capitale sociale essenziale per la crescita. Questa ”regola d’oro aumentata” consentirebbe di determinare periodicamente quali sarebbero le voci di spesa pubblica prioritarie in quanto foriere di crescita di lungo periodo e quindi da escludere dai vincoli di bilancio europei.
Per l’innovazione istituzionale che rappresenta e per il fatto di essere situato allo snodo di tutti i principali temi dei prossimi anni, il Fondo per la Ripresa è un elemento chiave dell’attuale congiuntura europea. Dal suo successo dipenderà la capacità del processo politico europeo di mantenere il dinamismo che, contro ogni attesa, ha mostrato in questi mesi.