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Commentary

Un'America indecisa sul rebus dell'Iraq

19 giugno 2014

Gli Stati Uniti hanno perso l’Iraq? Il basso profilo scelto dall’amministrazione Obama di fronte all’avanzata delle forze dell’Isis in direzione di Baghdad lascia supporre, se non proprio disinteresse per il destino del governo di Nuri al-Maliki, quanto meno la difficoltà di individuare una strategia che sia, al contempo, efficace, politicamente sostenibile, e che riesca a togliere Washington dall’imbarazzo di scelte che risultano comunque sgradevoli. La convergenza d’interessi con Teheran; il ruolo che le milizie sciite stanno assumendo in seguito allo sbandamento dei reparti dell’esercito regolare; l’importanza dei Peshmerga curdi per la stabilità della parte settentrionale del paese sono tutti elementi che – agli occhi degli osservatori statunitensi – sembrano ridare vita al fantasma di un Iraq ‘cantonalizzato’, frammentato lungo linee di faglia confessionali e anche per questo aperto all’influenza destabilizzante delle varie potenze regionali. Lo scenario che il processo di costruzione istituzionale avviato dopo la caduta del regime di Saddam Hussein aveva faticosamente cercato di prevenire pare, così, concretizzarsi, nonostante gli oltre tre miliardi di dollari allocati dal Dipartimento di Stato e da quello per la Difesa per attività in Iraq nel solo anno fiscale 2013.
Diversi fattori concorrono a mettere in dubbio la credibilità di questo scenario. Pensare il sistema politico iracheno come rigidamente diviso in tre componenti (sciiti, sunniti e curdi), compatte al loro interno e compattamente ostili ognuna nei confronti delle altre, fornisce un’immagine distorta e fuorviante di una realtà attraversata da molte fratture, non di rado in contrasto fra loro. Egualmente fuorviante è l’immagine delle componenti nazionali irachene quali proxy di più potenti attori esterni, capaci – per loro tramite – di condizionare ‘a distanza’ la vita del paese; ciò a maggior ragione se se si tiene conto del carattere composito e frammentato di questi stessi attori, sia dal punto di vista politico e  sociale, sia da quello degli interessi di cui le rispettive élite sono portatrici. Tuttavia, la forza della lettura ‘in chiave settaria’ dei successi dell’Isis pare destinata a consolidare gli stereotipi su cui si è fondata una larga parte della politica statunitense verso il Medio Oriente e verso i suoi stati. Le ragioni di questo stato di cose sono molte e rispecchiano, da una parte, resistenze culturali di fondo che caratterizzano la percezione che gli Stati Uniti hanno della regione, dall’altra limiti strutturali dell’amministrazione Obama e della particolare fase politica che essa sta attraversando.
In primo luogo, la visione statunitense del Medio Oriente sembra ancora risentire di un approccio dicotomico in buona parte ereditato dalla guerra fredda. Questo approccio – basato sulla contrapposizione ‘elementare’ amico/nemico – se da un lato ha l’indubbio pregio di ridurre a poche, ‘maneggevoli’ categorie la complessità di un mondo solcato da divisioni profonde e spesso (apparentemente) contraddittorie, dall’altro rischia di schematizzare in maniera eccessiva una realtà che proprio nella complessità trova la sua caratteristica centrale. Tipico è, in questo senso, l’atteggiamento nei confronti dell’Iran, che anche nell’odierno contesto iracheno è visto da larghe fette dell’opinione pubblica statunitense come un possibile alleato inaffidabile, se non esplicitamente infido. Tale atteggiamento appare inoltre esteso al più ampio mondo sciita, che nonostante le sue molteplici sfaccettature, è spesso visto come un’unica estensione della realtà politica iraniana. In questa prospettiva, la necessità di non favorire un rafforzamento eccessivo di Teheran rappresenta un vincolo imprescindibile a qualunque azione di Washington; ciò anche alla luce dei negoziati ancora in corso – e apparentemente entrati in una fase di stallo – sul delicato tema del nucleare iraniano.
Su questa visione di fondo si innestano, tuttavia, anche considerazioni di natura più contingente. In particolare, la riduzione della presenza militare all’estero ha sempre rappresentato uno dei cavalli di battaglia dell’attuale amministrazione; un approccio, questo, confermato dal recente annuncio della decisione di procedere al ritiro del contingente americano dall’Afghanistan entro la fine del 2016. Con riferimento all’Iraq, questa pregiudiziale di fondo acquista, inoltre, un valore particolare. L’arrivo di Barack Obama alla Casa Bianca, nel 2009, ha rappresentato – per molti suoi sostenitori – un risultato dettato dalla volontà di porre fine proprio al coinvolgimento diretto degli Stati Uniti nelle vicende irachene; un coinvolgimento iniziato sei anni prima e strettamente legato alla figura e alle politiche di George W. Bush. In vista delle elezioni di midterm del prossimo novembre e, ancora di più, in vista dell’inizio della campagna per le elezioni presidenziali del 2016, l’abbandono di questa linea potrebbe, quindi, risultare penalizzante sia per il presidente, sia per il suo partito, anche alla luce dei sondaggi che danno gli avversari repubblicani in ripresa nel favore popolare dopo la crisi di consensi che era stata registrata negli ultimi mesi del 2013.
Stretta fra il bisogno di agire in qualche modo e quello di evitare, per quanto possibile, un cambiamento troppo penalizzante degli equilibri regionali, è probabile, quindi, che la Casa Bianca finisca per orientarsi su una scelta ‘di basso profilo’, quale l’intervento aereo o l’ampiamente ventilato ricorso ai ‘droni’ (Uav) contro le milizie dell’Isis. Tale scelta, tuttavia, rischia di dimostrarsi non risolutiva. Sul piano militare, una campagna aerea (soprattutto se limitata) rischia, infatti, di mancare l’obiettivo di fondo di restituire al governo di Baghdad un grado accettabile di controllo sul territorio. Per contro, sul piano politico, essa non potrebbe contrastare la tendenza alla frammentazione che è – oggi come in passato – la principale debolezza del sistema politico iracheno. Sulla base di queste considerazioni non stupisce che, in questi giorni, si sia assistito a un graduale aumento della tensione fra Washington e il governo di Nuri al-Mailiki, visto come la pedina iraniana in un paese pronto ad essere ‘satellitizzato’ agli interessi di Teheran. Qualunque sia la decisione di Washington, il timore è, dunque, che ancora una volta essa finisca per gettare le base di nuovi problemi, complicando più che semplificando i termini di una questione già in sé tutt’altro che semplice.
Gianluca Pastori è professore aggregato di Storia delle relazioni politiche fra il Nord America e l’Europa, Facoltà di Scienze Politiche e Sociali, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano.


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