Ungheria e Serbia alla prova del voto | ISPI
Salta al contenuto principale

Form di ricerca

  • ISTITUTO
  • PALAZZO CLERICI
  • MEDMED

  • login
  • EN
  • IT
Home
  • ISTITUTO
  • PALAZZO CLERICI
  • MEDMED
  • Home
  • RICERCA
    • OSSERVATORI
    • Asia
    • Cybersecurity
    • Europa e Governance Globale
    • Geoeconomia
    • Medio Oriente e Nord Africa
    • Radicalizzazione e Terrorismo Internazionale
    • Russia, Caucaso e Asia Centrale
    • Infrastrutture
    • PROGRAMMI
    • Africa
    • America Latina
    • Global Cities
    • Migrazioni
    • Relazioni transatlantiche
    • Religioni e relazioni internazionali
    • Sicurezza energetica
    • DataLab
  • ISPI SCHOOL
  • PUBBLICAZIONI
  • EVENTI
  • PER IMPRESE
    • cosa facciamo
    • Incontri su invito
    • Conferenze di scenario
    • Executive Education
    • Future Leaders Program
    • I Nostri Soci
  • ANALISTI

  • Home
  • RICERCA
    • OSSERVATORI
    • Asia
    • Cybersecurity
    • Europa e Governance Globale
    • Geoeconomia
    • Medio Oriente e Nord Africa
    • Radicalizzazione e Terrorismo Internazionale
    • Russia, Caucaso e Asia Centrale
    • Infrastrutture
    • PROGRAMMI
    • Africa
    • America Latina
    • Global Cities
    • Migrazioni
    • Relazioni transatlantiche
    • Religioni e relazioni internazionali
    • Sicurezza energetica
    • DataLab
  • ISPI SCHOOL
  • PUBBLICAZIONI
  • EVENTI
  • PER IMPRESE
    • cosa facciamo
    • Incontri su invito
    • Conferenze di scenario
    • Executive Education
    • Future Leaders Program
    • I Nostri Soci
  • ANALISTI
Focus

Ungheria e Serbia alla prova del voto

Giorgio Fruscione
02 aprile 2022

Domenica 3 aprile si terranno le elezioni in Ungheria e Serbia. Un voto particolarmente interessante che mette alla prova due leader europei controversi e considerati come sempre più autoritari: il premier ungherese Viktor Orban e il presidente serbo Aleksandar Vucic. Mentre l’Ungheria è un paese membro dell’Unione Europea, la Serbia è ancora solo candidato. I due regimi però si somigliano sia per longevità che per la progressiva erosione dello stato di diritto. Nonché per una neutralità di facciata nell’attuale guerra in Ucraina. 

Per cosa si vota? 

In Ungheria si terranno le elezioni per rinnovare il parlamento. Il premier Orban concorre per il quarto mandato consecutivo (quinto della sua carriera politica). Le precedenti parlamentari, nel 2018, furono vinte dal suo partito, Fidesz, che conquistò il 49,3% dei voti, ovvero 133 seggi su 199. Gli elettori ungheresi saranno chiamati ad esprimersi anche per il referendum sulla controversa legge, approvata a giugno 2021, che limita l’educazione sessuale, bollata dal governo come “propaganda omosessuale”. La legge venne considerata dall’Unione Europea una discriminazione contro le persone LGBT e la sua adozione portò anche all’avvio di una procedura d’infrazione contro l’Ungheria.  

 

In Serbia, invece, si vota per le presidenziali, le parlamentari e per le municipali di Belgrado. Il presidente Aleksandar Vucic concorre per un secondo mandato di cinque anni. Le parlamentari sono invece elezioni anticipate: dopo il voto del giugno 2020, boicottato dalle principali sigle dell’opposizione, l’assemblea nazionale divenne di fatto a partito unico. Il Partito Progressista Serbo (SNS) di Vucic ottenne il 63% dei voti e conquistò 188 seggi su 250, anche se i parlamentari che oggi sostengono la coalizione di governo sono 244. Infine, si vota per eleggere il sindaco di Belgrado e di alcuni comuni minori del paese.  
Secondo le opposizioni ungherese e serba, le campagne elettorali appena terminate sarebbero state inique, con un maggior spazio pubblico a favore delle forze governative, che avrebbero usufruito di fondi pubblici per promuovere i propri candidati. In Ungheria, l’opposizione denuncia di aver ricevuto appena cinque minuti di spazio per presentare il proprio programma; in Serbia, invece, anche in questa campagna elettorale, il presidente Vucic non ha tenuto nessun confronto o dibattito pubblico con i rappresentanti dell’opposizione. 

Ultima chance per le opposizioni? 

Sia in Serbia che in Ungheria, l’attuale deriva autocratica è stata favorita dalla frammentazione dell’opposizione, per anni orfana di leader carismatici nonché di terreni di confronto con i partiti al governo. Questa volta, però, in entrambi i paesi le opposizioni si sono compattate attorno a un candidato comune. In Ungheria, il rivale di Orban è Peter Marki-Zay, sindaco della cittadina Hódmezővásárhely. Conservatore cattolico, Marki-Zay non ha tessere di partito e ha saputo metter d’accordo l’eterogenea piattaforma dell’opposizione “Uniti per l’Ungheria”, che unisce sei partiti molto diversi tra loro: dai socialisti alla destra radicale, passando per i liberali e due movimenti ecologisti. La coalizione è quindi unita nell’obiettivo di spodestare il premier, ma divisa su molti temi, come i diritti civili, i rapporti con l’Unione Europea e le politiche economico-finanziarie. Stando ad alcuni sondaggi, il supporto a Fidesz si attesta intorno al 50%, mentre Uniti per l’Ungheria segue distaccata di pochi punti percentuali. A ostacolare la strada a Marki-Zay, c’è anche il sistema elettorale misto introdotto con la riforma del 2012 che unisce proporzionale e maggioritario, con una maggiore rilevanza del secondo. Il 53% dei deputati viene infatti eletto in collegi uninominali secchi che, però, dieci anni fa vennero ridisegnati secondo uno schema di gerrymandering favorevole al governo. Questo significa che l’opposizione necessita del 3-5% di voti in più per avere la maggioranza in parlamento. 
In Serbia, invece, saranno sette i candidati che sfideranno Vucic, anche se le speranze di andare al secondo turno contro il presidente uscente si concentrano su Zdravko Ponos. Generale dell’esercito e già capo di stato maggiore, Ponos è una figura apartitica che ha il vantaggio sia di riflettere le inclinazioni nazional-conservatrici della maggioranza dell’elettorato serbo, sia di essere un outsider senza esperienze politiche compromettenti. Al momento non esistono sondaggi attendibili, ma è verosimile che Vucic conquisti circa metà dei voti. Discorso analogo per l’elezione del parlamento, dove SNS e gli alleati del Partito Socialista (SPS) dovrebbero assicurarsi almeno metà dei 250 deputati, ma in cui le opposizioni torneranno ad essere rappresentate. La principale coalizione anti-Vucic è “Uniti per la vittoria della Serbia”, che potrebbe conquistare il 20% dei voti; a superare la soglia di sbarramento del 3% potrebbe poi esserci la coalizione di sinistra verde “Moramo” (Dobbiamo), forte delle proteste ecologiste dei mesi scorsi, così come i socialdemocratici dell’ex presidente Boris Tadic. Oltre queste coalizioni, a sgomitare per un seggio parlamentare ce ne sono altre, per lo più nazionaliste di destra, alcune delle quali identificabili come opposizione sistemica, cioè che non si oppone realmente alla maggioranza di governo. 
Al municipio di Belgrado, infine, il quadro potrebbe essere simile a quello parlamentare anche se Moramo – il cui movimento principale, “Ne Da(vi)mo Beograd”, da anni basa il suo attivismo territoriale nella capitale – potrebbe andare in doppia cifra e fungere da ago della bilancia per l’elezione del sindaco.  
Sia in Ungheria che in Serbia, le speranze dell’opposizione sono basse, ma comunque superiori rispetto alle ultime tornate elettorali. Nel caso dovesse mancare un cambio al vertice a Belgrado e Budapest, i due paesi andrebbero incontro a record personali: Orban diventerebbe il governante più longevo dell’Unione Europea, mentre Vucic supererebbe la soglia psicologica dei 12 anni di governo, traguardo a cui in Serbia si fermarono sia i democratici prima di lui, sia Slobodan Milosevic.  

 

Ungheria e Serbia vs stato di diritto? 

A prescindere dal risultato di domenica 3 aprile, lo stato di salute delle democrazie ungherese e serba è da tempo compromesso. Una regressione certificata anche nel rapporto di Freedom House. Ma al di là delle graduatorie, ciò che preoccupa è l’erosione dello stato di diritto, tanto a Belgrado quanto a Budapest. 
Per l’Ungheria è particolarmente interessante analizzare le intromissioni, o le omissioni, politiche sull’indipendenza della giustizia, fenomeno che ha portato la Commissione a vincolare i fondi europei al rispetto dello stato di diritto. Una delle fattispecie denunciate anche dall’Helsinki Committee ungherese è la mancata esecuzione di sentenze definitive, sia di corti nazionali che internazionali, in casi che hanno spesso a che fare con diffamazioni di politici, dissidenti e attivisti attraverso media controllati dal governo, così come in materia di asilo. Ma le sentenze dei tribunali ordinari ungheresi vengono ignorate anche con il ricorso alla corte costituzionale. Si tratta di un meccanismo introdotto nel 2019 che permette alle autorità statali di richiedere la revisione di decisioni riguardanti casi politicamente sensibili al di fuori del sistema di giustizia ordinario, oberando ulteriormente la corte costituzionale. L’esempio più noto del ricorso a questo strumento è la revisione della sentenza di un tribunale ordinario per convalidare il referendum “contro la propaganda omosessuale” che si terrà domenica. 
L’indipendenza del sistema giuridico ungherese è stata minata anche dalla reintroduzione nella costituzione di disposizioni di legge che erano state precedentemente giudicate incostituzionali. Infine, il ruolo della corte costituzionale è stato messo in discussione dalla mancata esecuzione delle sentenze definitive: nei dieci anni da quando è in vigore la nuova carta fondamentale ungherese, il parlamento non ha rispettato i propri obblighi in più del 25% delle decisioni della corte costituzionale.  
Quanto alla Serbia, l’indipendenza del sistema giuridico è compromessa in modo analogo al contesto ungherese. Nel caso serbo, la pressione del governo è tale per cui spesso le corti non giungono a sentenze definitive in tempi ragionevoli, o addirittura non si arriva nemmeno a processo, specialmente in casi politicamente sensibili o in cui c’è un coinvolgimento diretto di figure collegate al governo. In Serbia, infatti, lo stato di diritto è minacciato dallo state capture, cioè la cattura da parte delle élite di governo delle istituzioni statali, e non solo. Un sistema clientelare che ha portato a un controllo capillare di ogni segmento dell’amministrazione, della società e dell’economia del paese. Secondo alcune stime, SNS ha circa 750mila iscritti, un cittadino su nove: più del Partito comunista cinese (un cittadino su 15) o di Russia Unita (uno su 70). Un’affiliazione così massiccia da assicurare almeno tre monopoli. Innanzitutto, quello elettorale: rapportato ai trend d’affluenza delle elezioni in Serbia (50% circa), questo numero si traduce in almeno il 24% dei voti per il partito di governo. In secondo luogo, assicura un monopolio economico, dal momento che l’affiliazione ad SNS riguarda anche manager e posizioni chiave nell’amministrazione di settori economici strategici. Terzo, quello sociale: la possibilità di gestire le risorse economiche attraverso la tessera di partito consente di espandere il controllo nelle periferie del paese, dove spesso l’unica fonte di sussistenza è garantita solo da imprese che dipendono da nomine governative. 

E la libertà di stampa? 

Il controllo dei media è una componente fondamentale delle autocrazie serba e ungherese. In particolare, questo si sviluppa lungo due direttrici: un potente e voluminoso apparato di stampa filogovernativa; e un attacco continuo e strutturato alle poche testate indipendenti. Una strategia che ha lo scopo sia di annullare la pluralità di voci, a partire da quelle dei rappresentanti dell’opposizione, sia di uniformare l’informazione nazionale distorcendo la realtà a scopi politici. Per raggiungere questo obiettivo, i mezzi impiegati dai regimi serbo e ungherese sono molto simili: in entrambi i paesi la limitazione della libertà di stampa è perseguita con strumenti regolatori ed economici, che rientrano nella cornice di una legalità almeno apparente.  
Quando Orban venne eletto nel 2010 identificò quattro settori economici strategici in cui la proprietà avrebbe dovuto essere ungherese almeno al 50%. Tra questi c’erano i media. L’obiettivo è stato ampiamente raggiunto, ma in che modo? Secondo le organizzazioni che difendono la libertà di stampa, i proprietari sarebbero oligarchi vicini ad Orban che avrebbero acquisito la maggioranza dei media attraverso sovvenzioni, prestiti di banche statali e concorsi pubblici pilotati. Inoltre, l’istituzione del Media Council, di nomina governativa, controlla il mercato mediatico concedendo o recedendo le licenze, decretando vita e morte dei media ungheresi, come nel caso di Klubradio, emittente critica nei confronti del governo costretta a chiudere nel febbraio 2021. Secondo diverse inchieste, oggi Fidesz controlla almeno 500 media, il cui costo di mantenimento annuale è di decine di milioni di euro, in gran parte provenienti da fondi pubblici. 
In Serbia, le condizioni della libertà di stampa sono altrettanto compromesse. Il regime di Vucic si serve di una schiera di tabloid che hanno monopolizzato l’informazione cartacea. A questa si aggiunge una rete di emittenti private nazionali, in cui il presidente è regolarmente ospite senza contraddittorio, nonché la tv di stato, dove lo spazio dedicato ai politici riflette le percentuali elettorali, quindi con una netta dominanza dei rappresentanti di governo. Uno degli strumenti con cui il governo contrasta la stampa libera è l’agenzia delle entrate, che in modo discriminatorio effettua controlli fiscali sulle testate indipendenti, esercitandovi pressione fino ad imporne la chiusura, come accadde nel 2017 al quotidiano “Vranjske”. Tuttavia, lo stesso criterio non funziona con i media allineati al governo – come la tv “Pink” o il tabloid “Informer” – che, nonostante gli enormi debiti verso il fisco, hanno per anni usufruito di ingenti finanziamenti e sovvenzioni statali indispensabili per continuare a lavorare, ovvero perpetuare un servizio d’informazione filogovernativo. Tra i quotidiani aiutati dal regime, anche i quattro tabloid più venduti in Serbia, che – secondo un’inchiesta – solo nel 2019 hanno pubblicato complessivamente 945 notizie false in prima pagina, riportando di fantomatici attentati contro Vucic, dichiarazioni di guerra da parte di paesi vicini o crimini commessi dai leader dell’opposizione.  
La libertà di stampa ungherese e serba difficilmente potrà essere ripristinata. Ancor più difficile, però, sarà smentire la narrazione ufficiale dei due regimi, il cui apparato propagandistico ha plasmato una coscienza collettiva che erge le leadership di Orban e Vucic a unici difensori dell’interesse nazionale, regolarmente minacciato da nemici del popolo creati ad hoc, siano questi “la propaganda LGBT”, i paesi confinanti, filantropi e tycoon, o l’Unione Europea. 

L’UE cosa dice? 

Il rapporto di Bruxelles nei confronti di Budapest e Belgrado è contraddittorio e incoerente. Mentre per la Commissione UE l’Ungheria rappresenta il paese membro che, insieme alla Polonia, ha maggiormente ostacolato sia l’adozione di politiche comunitarie, come in materia di immigrazione, che la salvaguardia di principi e libertà fondamentali, ad esempio con la suddetta legge transfobica, la Serbia è considerata un “frontrunner” dell’integrazione europea nei Balcani. 
L’episodio più recente del contrasto tra l’UE e l’Ungheria risale a metà febbraio scorso, quando la Corte di giustizia ha respinto i ricorsi di Budapest e Varsavia contro il meccanismo che condiziona i fondi del bilancio comunitario al rispetto dello stato di diritto. Ma dell’attrito di Budapest con l’Unione non vanno sottovalutati gli effetti collaterali di natura politica. La procedura legale con cui la Commissione a luglio 2021 aveva avviato due distinte procedure d’infrazione contro l’Ungheria per le politiche discriminatorie delle persone LGBT rischia infatti di rivelarsi un boomerang per l’UE. Lo scontro con Bruxelles, paradossalmente, potrebbe alimentare la campagna illiberale di Orban, che necessita costantemente di un nemico esterno per consolidare il supporto interno. Inoltre, se le prime vittime della privazione dei fondi saranno i cittadini ungheresi, è logico attendersi che questi radicalizzeranno il proprio risentimento innanzitutto contro le strutture comunitarie, piuttosto che verso il governo. 
Tutt’altro discorso, invece, per la Serbia, paese che dieci anni fa ha ricevuto lo status di candidato all’adesione. Dieci anni in cui lo stato di diritto è stato gradualmente eroso ma durante i quali non si è notata la stessa intransigenza da parte di Bruxelles. Al contrario, la Commissione europea è stata spesso accusata di “complicità” nella deriva autoritaria della Serbia, favorendo un rapporto di cosiddetta “stabilitocrazia”, in cui il regime autoritario garantisce un’apparente stabilità politica, mentre le istituzioni europee gli assicurano legittimazione politica al netto del decadimento degli standard democratici. 
Una delle ragioni che spiega l’incoerenza dell’UE e la sua clemenza per la deriva autoritaria della Serbia è di natura geopolitica: sostenere Belgrado per sottrarla dall’orbita di altre superpotenze. Una strategia che, però, ha funzionato solo in parte.  

I rapporti con la Russia: una finta neutralità? 

Sia la Serbia che l’Ungheria hanno ottime relazioni con la Russia. Si tratta però di rapporti di natura diversa, che convergono sull’alta dipendenza dall’energia russa, nonché sull’emulazione del modello autoritario di Vladimir Putin. Un rapporto che con l’invasione dell’Ucraina si è fatto diplomaticamente ingombrante: tanto per Belgrado quanto per Budapest, stare con un piede in due scarpe, una a Bruxelles e l’altra a Mosca, sta diventando sempre più scomodo.  

Poche settimane prima che la Russia invadesse l’Ucraina, Orban aveva incontrato Putin. Il motivo della visita è stata la richiesta ungherese di aumentare le forniture annuali di gas naturale, da 4,5 a 5,5 miliardi di metri cubici, potenziando il contratto quindicennale con Gazprom firmato lo scorso settembre. Un contratto che sigilla la dipendenza energetica di Budapest dalla Russia, oltre il 75% sia per il gas che per il petrolio, e che fa dell’Ungheria il paese UE più vulnerabile nel caso di interruzioni di riforniture energetiche russe. Ed è per questo che il premier Orban si è detto contrario ad estendere le sanzioni al settore energetico. Una posizione che i partner giudicano troppo equidistante, capace persino di incrinare il tradizionale sodalizio con la Polonia e col Gruppo di Visegrad, che ha annullato il vertice dei ministri degli Esteri di fine marzo. Ma l’equidistanza di Budapest è stata contestata soprattutto dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky durante il suo appello all’Europa in cui ha accusato i legami politici col Cremlino: “Non c’è più tempo per esitare! È ora di prendere posizione!” 
Un’esortazione, quella di Zelensky, che Bruxelles ha fatto propria e ha rivolto anche a Belgrado, tradizionale alleato politico della Russia e anch’essa estremamente dipendente dal suo gas, che paga a prezzi di favore. Anche l’oscillazione serba tra Russia e UE è infatti con le spalle al muro. Il 2 marzo la Serbia si è unita ai paesi che all’Assemblea generale ONU hanno condannato l’invasione dell’Ucraina, ma non ha imposto sanzioni, né ha chiuso lo spazio aereo alla Russia. Il 4 marzo, inoltre, Belgrado è diventata la prima capitale europea che ha ospitato una “protesta di sostegno alla Russia”: una manifestazione organizzata da alcuni movimenti nazionalisti ma dietro i quali si cela il desiderio del governo di preservare le relazioni con Mosca. Per la Serbia, infatti, la cosiddetta “fratellanza” con la Russia ha due scopi. In politica estera, rappresenta l’ultima ancora di salvezza contro l’indipendenza del Kosovo, per cui è indispensabile sfruttare il veto russo al Consiglio di Sicurezza. Internamente, invece, il governo serbo sa che il filorussismo è un bagaglio politico in grado di spostare molti voti. Un’equidistanza di facciata, dunque, che maschera un bipolarismo diplomatico che per anni ha fatto la fortuna del governo serbo, che ha goduto sia dei rapporti commerciali con l’Occidente che del sostegno russo per difendere la sovranità sul Kosovo.  

Per Orban e Vucic, due leader molto simili e molto amici tra loro, il voto di domenica sarà soprattutto una sfida personale, per il consolidamento quasi indefinito del proprio potere. Per l’Europa, invece, rappresenta un potenziale pericoloso per la tenuta democratica interna, così come per il proprio assetto geopolitico.  

 

Ti potrebbero interessare anche:

Speciale Ucraina: G7, tutti per uno
Mosca e la guerra d'attesa all'Occidente
Ugo Tramballi
ISPI Senior Advisor
Global Watch: Speciale Geoeconomia n.109
La complessa missione di Biden in Europa
Gas: sotto lo stesso tetto
L’UE e l’allargamento ai Balcani: tra promesse e ipocrisie
Giorgio Fruscione
Desk Balcani - ISPI

Tags

Ungheria Serbia Crisi Russia Ucraina Europa Viktor Orbán
Versione stampabile

AUTORI

Giorgio Fruscione
ISPI

SEGUICI E RICEVI LE NOSTRE NEWS

Iscriviti alla newsletter Scopri ISPI su Telegram

Chi siamo - Lavora con noi - Analisti - Contatti - Ufficio stampa - Privacy

ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) - Palazzo Clerici (Via Clerici 5 - 20121 Milano) - P.IVA IT02141980157