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Commentary
Usa 2016: la crisi di identità dei grandi partiti
Davide Borsani
09 novembre 2016

Le elezioni del 2016 hanno costituito uno spartiacque per la storia politica recente degli Stati Uniti. La crisi finanziaria di nove anni fa ha innescato un processo di ridefinizione delle identità dei due grandi partiti, repubblicano e democratico, che perdura tutt’oggi con un impatto diretto sul sistema istituzionale. Da un lato, gli anni della presidenza di Barack Obama, al netto del dibattito sulla efficacia o meno delle misure adottate, hanno visto il recupero e il ritorno alla crescita economica degli Stati Uniti. Dall’altro, tuttavia, il paese non è uscito dalla crisi, quantomeno a livello di ripercussioni sociali e politiche, le quali, a loro volta, si sono riflettute sulle dinamiche istituzionali. L’ondata di protesta iniziata nel 2009 per ragioni anzitutto economiche ha visto prima nel movimento dei Tea Party e poi di "Occupy Wall Street" la sua massima espressione organizzata. Una protesta, questa, venata da populismo che ha progressivamente penetrato partiti e istituzioni. Il rapporto di fiducia tra elettorato e classe dirigente si è così incrinato e la polarizzazione della vita politica statunitense è diventata lo specchio di una crisi ben più profonda che attraversa trasversalmente il paese.

Il Grand Old Party (Gop) ha subito maggiormente l’impatto della crisi. Nonostante il partito abbia ottenuto notevoli successi in ambito elettorale, ottenendo nel 2010 la Camera dei rappresentanti e nel 2014 anche il Senato, l’establishment repubblicano non ha mostrato fin qui la forza sufficiente per unire l’anima più radicalizzata e quella più moderata del suo elettorato. Nel corso delle primarie, poi, i votanti hanno chiaramente ricercato una rottura con il recente passato sostenendo in maggioranza candidati che più si distanziavano dal centro dello spettro politico, come Marco Rubio e Ted Cruz, e gli outsider che con il mondo delle istituzioni non avevano nulla a che fare, come Ben Carson e, naturalmente, Donald Trump. Con la vittoria alle primarie del tycoon newyorchese, il partito da un lato si è spostato verso l’estremità dello spettro politico e dall’altro ha visto approfondirsi la frattura al suo interno tra élite e base, con la prima che in larga parte ha preso le distanze da Trump e con la seconda ad accusare i propri rappresentanti di incapacità nell’offrire una vera alternativa al paese rendendosi complice di ciò che viene percepita come la “deriva” di Obama. Ciò che si para davanti al Gop è perciò una sfida notevole: reinventare sé stesso per riconciliare le diverse anime del partito senza perdere la propria identità e, nel contempo, intercettare quei segmenti elettorali con un notevole impatto sulle dinamiche nazionali, a partire dal voto delle minoranze, che stanno acquisendo sempre più potere a livello politico.

La situazione del Partito democratico è meno critica, ma, non per questo, di più semplice risoluzione. L’emergere di Hillary Clinton alla leadership dei democratici, favorita in primis dal sostegno dell’establishment del partito, ha trovato legittimazione nel supporto garantitole da Bernie Sanders, l’avversario liberal alle primarie, e da quello di Obama, che mantiene ancora oggi un buon seguito tra i cittadini pro-dem. Eppure,ciò ha solo nascosto, non eliminato, le crepe apertesi progressivamente nel rapporto tra la classe dirigente del partito e la base elettorale. La Clinton non ha scaldato né scalda tuttora i cuori dello “zoccolo duro” democratico. Inoltre, i liberal, che pur nel più ampio contesto delle elezioni presidenziali costituiscono una minoranza, hanno dimostrato di avversare tanto la linea politica quanto l’immagine di Hillary, la cui candidatura è stata percepita come una sorta di imposizione dall’alto in assenza di una vera alternativa nata dal basso, come era stato invece Obama nel 2008. In quest’ottica, la Clinton, nel complesso, è stata percepita quasi come un ostacolo per il suo essere personaggio mutevole, espressione di una “vecchia” classe dirigente che ha contribuito ad alimentare la crisi in cui versano ora gli Stati Uniti, in contrapposizione al “nuovo” che dovrebbe invece avanzare. Tuttavia, l’obiettivo strategico di arginare il “fenomeno Trump” ha permesso al partito democratico di non frammentarsi e di perseguire una linea comune in vista delle urne. Ma, terminate le elezioni, il tappeto sotto cui sono state nascoste le difficoltà svanirà e la polvere si alzerà nuovamente. Seppur in misura minore, anche i democratici saranno così chiamati come i repubblicani a rinnovarsi e a riagganciarsi al cuore pulsante del proprio elettorato mantenendo aperte le porte ai moderati.

Il clima di scollamento tra partiti e cittadini, da ambo le parti, si è riflettuto nelle dinamiche istituzionali, divenute sempre più complesse negli anni di Obama. Complice il meccanismo di check and balanceproprio del sistema americano, che ha portato il Congresso nelle mani del partito repubblicano e la Casa Bianca in quelle dei democratici, la polarizzazione intra-partitica si è ripetuta nei rapporti interpartitici. Il voto trasversale su singole questioni da parte di deputati e senatori è pressoché diventata un’eccezione in un gioco di accuse e controaccuse che ha imposto, da un lato, ad Obama l’uso diffuso del veto presidenziale e, dall’altro, al Congresso di rigettare iniziative della Casa Bianca valutate controproducenti per il sistema-paese nel suo complesso. L’impassesulla riforma dell’immigrazione, da mesi in attesa del giudizio della Corte Suprema, è probabilmente la maggiore espressione delle difficoltà che attraversa il paese. Una riforma, questa, in merito a una issuerivelatasi cruciale per queste elezioni, che però è ancora al vaglio della massima istituzione giudiziaria, la quale, a sua volta, è bloccata dall’assenza del nono giudice, nominato dal presidente ma non approvato dal Senato. Polarizzazione politica, stallo istituzionale e sfiducia nel rapporto di rappresentanza, quindi. Tre problematiche cui il sistema americano e, in primo luogo, i due partiti sono chiamati a risolvere a partire da oggi. I prossimi quattro anni saranno cruciali in questo senso.

 

 

Davide Borsani, Research Fellow, Università Cattolica del Sacro Cuore e Associate Research Fellow, ISPI.

 

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Davide Borsani
ISPI Associate Research Fellow

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