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Fumata nera nei negoziati
USA-Cina: si inasprisce la guerra dei dazi
Alberto Belladonna
|
Alessandro Gili
09 maggio 2019

Alla vigilia della settimana che molti pensavano decisiva per la conclusione dei negoziati commerciali tra Stati Uniti e Cina, il presidente americano Donald Trump ha deciso di sorprendere tutti con un colpo di scena: via Twitter, ha annunciato l’innalzamento dei dazi dal 10% al 25% su 200 miliardi di dollari in vigore da venerdì 10 maggio. A questo si aggiunge la minaccia di ulteriori inasprimenti su beni per 325 miliardi di dollari a meno che i negoziati lampo con il vice premier Liu He non produrranno risultati significativi. 

Una doccia fredda che arriva quando, anche alla luce delle stesse parole del presidente americano, traspariva ormai da più parti un discreto ottimismo sull’esito dell’ultimo round negoziale di questi giorni. Ma cosa ha motivato questa mossa a sorpresa di Trump? Quali le fasi dello scontro tra Cina e Stati Uniti che stanno alimentando questa guerra commerciale in atto oramai da più di un anno? Quali conseguenze stanno avendo e avranno per l’economia globale?

 

Cosa ha motivato la mossa di Trump?

Come confermato dal rappresentante commerciale degli Stati Uniti Robert Lighthizer e dal segretario del Tesoro Steven Mnuchin, a scatenare la reazione del presidente americano sarebbero stati i tentativi cinesi di rinegoziare i termini degli accordi durante il fine settimana, mettendo così in discussione mesi di trattative e di accordi parziali già raggiunti. Una situazione che i rappresentanti statunitensi si sono trovati più volte a dover affrontare. Da documenti ufficiali traspare infatti la frustrazione di Washington nei confronti di round negoziali che sembrano conclusi salvo dover ridiscutere nei round successivi le nuove misure adottate nel frattempo dalla controparte cinese, ritrovandosi spesso al punto di partenza. Una frustrazione che nasce indubbiamente dalla complessità dell’accordo e dai differenti interessi in gioco ma che si basa anche e soprattutto sulla difficoltà di dialogare tra due sistemi politico-culturali molto distanti tra loro. Differenze che portano troppo spesso, come sottolineato in un’analisi condotta dalla Harvard Business Review, gli americani a vedere i negoziatori cinesi come inefficienti, indiretti e persino disonesti, mentre i cinesi a considerare i negoziatori americani come aggressivi, impersonali ed impulsivi. Al di là degli aspetti valoriali, però, la diffidenza reciproca ha favorito i falchi delle due controparti: quelli statunitensi che spingono sull’individuazione di un meccanismo di verifica degli impegni presi, ritenuto essenziale per dare efficacia all’accordo stesso, e dall’altra, i falchi cinesi che osteggiano invece ogni ulteriore concessione da parte di Pechino.

 

Come siamo arrivati a questo punto?

I rapporti tra Cina e Stati Uniti sono stati uno dei temi principali della campagna elettorale del presidente americano Donald Trump e il riequilibrio delle relazioni commerciali uno degli assi principali della narrativa del “making America great again”. Sono diversi i dossier aperti tra Stati Uniti e Cina, primo tra tutti l’enorme deficit commerciale statunitense che dal 2001 ha continuato a crescere senza soluzione di continuità arrivando a toccare i 420 miliardi di dollari nel 2018. Ma oltre al deficit commerciale, le principali critiche si sono rivolte piuttosto nei confronti della  politica cinese di apertura selettiva al commercio internazionale, unita alle numerose barriere non tariffarie e pratiche discriminatorie contrarie agli impegni presi in sede di adesione all’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO). Posizioni che si sono sempre di più irrigidite allorquando, con il piano Made in China 2025, il governo cinese ha deciso di sfidare apertamente la supremazia tecnologica americana, attraverso misure in campo industriale e commerciali stigmatizzate dall’attuale amministrazione statunitense come predatorie. E’ per questi motivi che è nata e si è sviluppata una strisciante “guerra commerciale” il cui andamento ondivago è sintetizzato nella seguente timeline.

 

 

Quali sono i dazi in vigore oggi?

Dal gennaio 2018 sono stati effettivamente implementati due round di dazi. Il primo è stato del 25% su 50 miliardi di dollari di merci cinesi a cui si sono aggiunti, nel settembre del 2018, dazi del 10% su ulteriori 200 miliardi di dollari. Questi sarebbero dovuti salire al 25% il primo gennaio 2019 in caso di mancato accordo con la Cina; data però posticipata di nuovo al 1 marzo ed ora divenuta effettiva  il 10 maggio insieme alla minaccia di estenderli del 25% su tutte le merci. Da parte sua, non potendo contare su un deficit commerciale paragonabile a quello americano, la Cina ha invece imposto dazi su beni per un valore di 110 miliardi di dollari coprendo quasi l’interezza delle sue importazioni dagli Stati Uniti. La risposta cinese nei confronti delle importazioni di beni statunitensi ha cercato dunque di colpire in maniera più incisiva le produzioni provenienti dagli Stati americani che più hanno supportato Trump, come nel caso del gas naturale liquefatto o della soia di cui la Cina è il primo importatore mondiale, cercando di risparmiare quei prodotti strategici per l’industria cinese.

 

Quali effetti sugli Stati Uniti e sulla Cina?

Partendo dall’assunto di un aumento generalizzato dei dazi del 25% sul totale degli scambi commerciali USA-Cina, il Fondo Monetario Internazionale ha effettuato una stima a più modelli per valutarne gli effetti. A livello di scambi bilaterali, si stima che essi si contrarranno nel breve periodo del 20-30%, mentre nel lungo periodo saranno soggetti a fluttuazioni più ampie, fino a un possibile 70%, a seconda dei modelli di calcolo presi in considerazione. Sempre secondo il Fondo Monetario, le tensioni commerciali produrranno una riduzione del Pil determinata dal calo della domanda estera nell’ordine dello 0,3-0,6% per gli Stati Uniti e dello 0,5-1,5% per la Cina. Il differente impatto sul Pil dei due paesi dipenderà innanzitutto dal peso maggiore che hanno, per l’economia cinese, le esportazioni verso gli Stati Uniti rispetto a quanto non accada nella direzione opposta. In secondo luogo, sulla Cina vengono stimati effetti più pronunciati per via della maggiore rigidità dei prezzi e salari, che più difficilmente si adeguano alla minore domanda estera. Ulteriori effetti negativi per la Cina derivano poi dalla perdita di economie di scala e da un peggioramento delle ragioni di scambio dovute a una riduzione del tasso di cambio. Tasso di cambio che, per converso, tenderà ad apprezzarsi negli Stati Uniti.

 

…e per il resto del mondo?

L’impatto della guerra commerciale sul resto del mondo dipenderà molto dalla capacità con la quale Cina e Stati Uniti riusciranno a sostituire le importazioni reciproche con prodotti provenienti da paesi terzi. Secondo stime UNCTAD, la continuazione della guerra dei dazi produrrà una diversione del commercio (verso paesi terzi) superiore alla quota di esportazioni che verranno sostituite da produzione nazionale. Per esempio, dei circa 33 miliardi di dollari di importazioni statunitensi di macchinari provenienti dalla Cina, circa 27 miliardi saranno sostituiti con produzioni provenienti da paesi terzi e solo 4 miliardi di dollari verranno effettivamente sostituiti da produzioni statunitensi. Un effetto della guerra commerciale è infatti quella di rendere i fornitori di beni provenienti dai paesi terzi più competitivi rispetto alle imprese cinesi e statunitensi. Sempre secondo stime UNCTAD, l’Unione Europea trarrà più benefici di altri da questa situazione riuscendo a intercettare un totale di 70 miliardi di dollari del commercio bilaterale Cina-Stati Uniti (50 miliardi dagli Stati Uniti e 20 dalla Cina). Il Messico invece riuscirà ad aumentare le proprie esportazioni di 27 miliardi di dollari, circa il 6% di tutte le sue esportazioni. A essere colpiti pesantemente dalla guerra commerciale sarebbero invece molti paesi del Sud-Est asiatico, che sono perfettamente integrati sia nelle catene del valore delle merci cinesi sia di quelle americane.

Effetti significativi riguarderanno infatti la riallocazione settoriale delle produzioni e in particolare le dinamiche delle catene del valore che da globali tenderanno sempre di più a regionalizzarsi e ad avvicinarsi ai centri economici e ai mercati di riferimento.

 

Quali conseguenze a livello aggregato?

Sebbene ci possano essere paesi che potranno beneficiare dello scontro commerciale tra Cina e Stati Uniti, il Fondo Monetario Internazionale ha stimato altresì che, a livello aggregato, l’attuale tensione commerciale potrebbe portare a un effetto a cascata tale da condurre a una riduzione della crescita mondiale per il 2019-2020 intorno allo 0,5%. Tale decrescita sarebbe determinata da spillover negativi tanto a livello macroeconomico, che incidono sul PIL e sul commercio in generale, quanto a livello microeconomico con effetti sulle catene globali del valore e sulle decisioni degli attori economici le cui decisioni sono influenzate dal generale stato di incertezza provocato dalla guerra commerciale. Senza considerare poi i rischi sottolineati dall’ UNCTAD relativi all’impatto congiunto di una diminuzione della crescita globale e di un aumento dei prezzi dovuto alla diversione del commercio provocata dalle guerre commerciali, tale da produrre il rischio di stagflazione.

 

Quali scenari?

Nel breve periodo sarà interesse di entrambe le parti trovare un accordo che ponga fine alle tensioni e tornare a una situazione di business as usual, che favorirebbe tanto il presidente americano, a un anno e mezzo dalle elezioni, quanto la controparte cinese, alle prese invece con una situazione economica interna fatta di molte incognite. Un eventuale accordo limitato, di compromesso, non risolverà tuttavia i problemi strutturali delle relazioni bilaterali tra i due paesi, che riguardano piuttosto lo scontro per la leadership economica e tecnologica globale dei prossimi anni. I due paesi hanno però la necessità di trovare un accordo più ampio - di “condominio” - onde evitare di incorrere nel classico dilemma del prigioniero. Nell’ottica del più semplice tra i modelli della teoria dei giochi, Washington avrebbe infatti convenienza ad eliminare ogni velleità di supremazia del “Paese di Mezzo”, spingendo l’acceleratore nella guerra commerciale potendo puntare per ora anche su una forza economica, militare e di persuasione superiore, unita a un sistema di alleanze politico economiche capaci di ridurre le ambizioni cinesi. Dal canto suo, Pechino ha invece interesse a continuare la propria politica cercando il più possibile di agire come free-rider e continuando con sovvenzioni e con misure anche meno ortodosse per colmare il divario con gli Usa. Entrambe le parti hanno però la convenienza di più lungo periodo a cooperare insieme per definire le regole del gioco, evitando di perseguire la strategia di interesse individuale destinata a condurre al worst case scenario. Cosa produrrà un tale accordo per i paesi “intermedi” come l’Unione Europea rimane invece un’incognita.

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AUTORI

Alberto Belladonna
ISPI Research Fellow
Alessandro Gili
ISPI Research Assistant

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