Dai due ballottaggi per le elezioni dei senatori della Georgia escono vincitori i due candidati democratici Raphael Warnock, e il giovane Jon Ossoff. Nel mentre, i manifestanti pro-Trump si rendono protagonisti di uno sfregio tanto grottesco quanto simbolicamente forte al cuore della democrazia americana; a uno dei suoi luoghi simbolo e custodi ultimi.
Quali sono le conseguenze e quali i significati di questo voto? Provo in estrema sintesi a indicarne tre ciascuno
Le conseguenze, innanzitutto.
Una maggioranza fragile
Con l’elezione di Warnock e Ossoff, i democratici conquistano la maggioranza al Senato. Maggioranza stringatissima, ché i repubblicani saranno 50 su 100, i democratici 48, e gli indipendenti – che però fanno gruppo (caucus) con i democratici – 2. Un 50/50, insomma, rotto dal voto della Vice-Presidente Harris che presiede anche la Camera Alta. Ciò permetterà al partito del Presidente-eletto Joe Biden di dettare il calendario dei lavori e imporre quindi la propria agenda. E di procedere con maggior sicurezza all’approvazione delle tante nomine (diplomatiche, giudiziarie, membri del Gabinetto) che richiedono il voto favorevole del Senato. La maggioranza rimane fragile, intendiamoci, e il regolamento del Senato, che per molte materie richiede una supermaggioranza di 60 su 100 per porre termine alla discussione e procedere al voto, rappresenta un blocco forte verso qualsiasi, ambiziosa agenda progressista incapace di convincere almeno qualche repubblicano moderato a sostenerla. Nel 2009-2011, Obama con una ben altra maggioranza di 57D+2I a 41R, faticò non poco; e non mancano i democratici conservatori (come Manchin della West Virginia o Tester del Montana) contrari ad azioni radicali, ad esempio per modificare i regolamenti. Detto questo, si tratta di una vittoria importantissima, dalla quale esce un governo democratico unitario, premessa indispensabile per permettere a Biden di operare.
Repubblicani divisi
Anche perché il voto potrebbe agire da ulteriore cuneo del dividere un partito repubblicano lacerato da quanto accaduto a Washington, che dimostra una volta ancora la sua capacità di mobilitare elettori, ma che perde un suo bastione in una contesto nel quale vi è un chiaro scontro – a livello nazionale e negli Stati – tra chi vuole seguire la linea – ideologicamente radicale e istituzionalmente eversiva – di Trump e chi Trump e il trumpismo vorrebbe poterli archiviare, dopo averli sfruttati appieno per ottenere le politiche che da tempo qualificano progetto e visione repubblicani. Già in Georgia le tensioni sono state evidenti, con la leadership statale messa sotto accusa da Trump per la sua indisponibilità a rovesciare l’esito del voto di novembre e i due candidati al Senato obbligati ad assecondare le follie trumpiane convincendo al contempo i loro elettori a non disertare le urne. L’assalto al Congresso e quel che ne è seguito ha acuito ancor più questa frattura.
Una lezione per il futuro
La terza conseguenza è che la Georgia non solo galvanizzerà i democratici, ma diventerà lezione se non paradigma per il futuro. Modello di come promuovere una campagna massiccia di mobilitazione e registrazione elettorale capace di valorizzare appieno quella che è, in teoria, la strutturale maggioranza democratica. E modello di come scegliere i candidati: non moderati centristi o figure di sintesi che, nel contesto iperpolarizzato di oggi, non solo non non entusiasmano il proprio di elettorato, ma hanno una limitatissima capacità di fare breccia in quello, altrettanto impermeabile, della controparte.
E questo ci porta alle indicazioni.
Un paese spaccato a metà
La prima rimanda una volta ancora alla polarizzazione. Le linee di frattura sono plurime, di periodo lungo (le guerre culturali che lacerano gli Usa ormai da decenni; gli effetti delle dinamiche d’integrazione economica globale; il cleavage razziale) e breve (la risposta al Covid; la mobilitazione contro le violenze della polizia; il voto di novembre e quel che è seguito; Trump, ovviamente). La conseguenza è però una spaccatura chiara, quasi plastica nel dividere il voto a metà tra le due parti, in un contesto peraltro di piena moblitazione e di grande crescita della partecipazione elettorale: in un ballottaggio, e quindi senza il traino del contestuale voto presidenziale, abbiamo quasi un milione di votanti in più rispetto al 2016 e uno e mezzo rispetto al 2008 (su un totale di 4milioni e mezzo). Il traino di questa polarizzazione – mille studi e indicatori ce lo mostrano – tende però a essere precipuamente negativo: la rappresentazione, non di rado caricaturale, dell’avversario come un nemico assoluto e un pericolo esistenziale per la democrazia statunitense, per l’idea molto normativa d’America che l’una e l’altra parte ambisce a rappresentare e incarnare. Governare diventa difficilissimo e a volte impossibile, in un sistema federale e a presidenzialismo debole che imporrebbe in realtà costanti compromessi e mediazioni.
Una vittoria storica
La vittoria democratica è per molti aspetti storica. Warnock, pastore della Chiesa battista (Ebenezer Church) che fu di Martin Luther King è il primo senatore nero della Georgia; il primo senatore nero democratico del sud ex-confederale (vi è un senatore nero repubblicano della South Carolina, Tim Scott); il primo democratico della Georgia eletto al Senato da 20 anni a questa parte. E ci mostra l’effetto politico ed elettorale, carsico ma inarrestabile, di profonde trasformazioni sociali, demografiche e culturali catalizzate da dinamiche economiche particolarmente visibili nel caso della Georgia (o, per usare un esempio comparabile, dell’Arizona). La Georgia è stato primariamente rurale dentro cui staglia il corpaccione del gigantesco agglomerato metropolitano di Atlanta. Che da solo conta per circa il 60% della popolazione dello Stato e per più del 70% del suo PIL; dove la percentuale di afro-americani rispetto alla popolazione totale è superiore rispetto a quella, già elevatissima (32%) dello Stato; dove la crescita demografica è stata particolarmente impetuosa negli ultimi decenni; dove operano imprese altamente globalizzate, dalla Coca Cola alla CNN, da UPS a Delta. Dove si forma insomma quella coalizione urbana che caratterizza oggi l’elettorato democratico. Ovvero dove il principale ostacolo al suo formarsi, il conservatorismo dei milioni di elettori che risiedono nella vastissima area suburbana ed exurbana di Atlanta, pesa meno, ché questi elettori si sono fatti più liberal, partecipano anch’essi all’economia della città e di certo trovano respingente il nazionalismo razziale ed essenzialista di Trump.
Trump, i Rep e la democrazia americana
Trump che però continua a mobilitare, come abbiamo visto alle Presidenziali e di nuovo in Georgia. Trump che è traino elettorale; entusiasma e porta alle urne come nessun altro repubblicano. Mantiene insomma un’ipoteca sulla base repubblicana. Ce lo dice questo voto; ce lo ricordano i suoi tassi di approvazione con l’elettorato conservatore; ce lo mostra la disponibilità a giustificarne anche gli atti più estremi, e posizioni che tracimano nell’eversione vera e propria, come il suo discorso a Washington che ha dato il là all’assalto del Capitol.. E l’ipoteca di Trump sui repubblicani è a tutti gli effetti un’ipoteca sulla democrazia statunitense, come anche i ballottaggi della Georgia si sono premurati di ricordarci.