Edward Snowden ha lasciato Hong Kong a poche ore di distanza dalla formalizzazione delle accuse nei suoi confronti per spionaggio, ma la polemica attorno alle sue rivelazioni non si è placata. Dopo un primo momento di palese incertezza da entrambe le parti (sia cinese sia americana) su come trattare la vicenda, i diversi punti di vista sull’ex contractor della National Security Agency sono emersi con il passare dei giorni e delle rivelazioni dell’oggi trentenne ex tecnico della Cia, che ha rivelato l’esistenza del programma Prism di sorveglianza, controllo e raccolta dati di milioni di comunicazioni telefoniche e on line.
Cina e Stati Uniti hanno preso poi le rispettive posizioni con Pechino che ha chiesto spiegazioni a Washington e il presidente degli Stati Uniti Barack Obama che in un’intervista televisiva ha parlato del caso Snowden. «C'è un’enorme differenza tra questo – ovvero le rivelazioni di Snowden, ha spiegato Obama durante il programma The Charlie Rose Show – e un pirata informatico direttamente collegato al governo o all’esercito cinese che penetra nei software della Apple per cercare di ottenere i progetti per gli ultimi prodotti. Questo è un furto, e non possiamo tollerarlo». Il riferimento è alla polemica sullo spionaggio informatico dei mesi scorsi, che vedeva gli Stati Uniti accusare la Cina di spionaggio informatico e di furto di segreti industriali attraverso l’hackeraggio di gruppi sensibili. Proprio nelle stesse ore in cui si veniva a conoscenza dei primi dettagli del programma Prism, poi, la polemica infuriava tra le due sponde del Pacifico, con il segretario alla Difesa statunitense Chuck Hagel che da Singapore faceva sapere che le intrusioni informatiche erano da imputare agli hacker di Pechino, e Obama che si preparava a ricevere Xi Jinping a Rancho Mirage per discutere anche di altri temi durante il loro primo vertice informale del 7-8 giugno scorsi, ma soprattutto di spionaggio informatico cinese ai danni degli Stati Uniti.
Nel giro di poche ore, la situazione si è completamente capovolta: Edward Snowden è entrato con fragore sulla scena internazionale dalle telecamere del Guardian, che ne riprendevano le prime confessioni da una località ignota, che solo successivamente sarebbe stata riconosciuta come l’albergo Mira di Hong Kong. Ma era ancora poco. Solo qualche giorno più tardi, quando il South China Morning Post, l’autorevole quotidiano in lingua inglese di Hong Kong, era riuscito ad avere la seconda intervista esclusiva con l’ex tecnico della Cia, era venuto fuori quello che Washington temeva e che Pechino bramava di ascoltare: Gli Stati Uniti spiano la Cina dal 2009, secondo le dichiarazioni di Edward Snowden, ex-tutto ora in cerca di un rifugio purchessia.
Sul banco degli imputati ora ci sono gli Stati Uniti, convinti accusatori fino a pochi giorni prima. La Cina, come sostiene da tempo attraverso i suoi organi di stampa, è la vittima delle attenzioni dei pirati informatici di Washington. Snowden, per la stampa nazionalista di Pechino, in primis il tabloid Global Times costola del Quotidiano del Popolo, l’organo ufficiale del Partito Comunista Cinese, diventa un amico. «Al contrario di altri criminali – spiega il tabloid – Snowden non ha fatto male a nessuno. Il suo "crimine" è stato quello rivelare le violazioni dei diritti civili del governo statunitense». Hong Kong rimane nel mezzo della diatriba, in posizione sempre più scomoda: Pechino potrebbe opporre il veto a un’ipotetica richiesta di estradizione americana, che arriverà sotto forma di mandato d’arresto solo una volta che le accuse di spionaggio nei confronti dell’ex uomo della Cia vengono formalizzate dai giudici della Virginia. Hong Kong respingerà la richiesta per una carenza di documentazione e permetterà al fuggitivo Snowden di lasciare l’ex colonia britannica alla volta di Mosca, dove si trova tuttora. In questo modo, la regione amministrativa speciale cinese salva la situazione: evita a Pechino di opporre il veto, atto che avrebbe incrinato i rapporti con Washington, e si libera della talpa della Nsa in un colpo solo.
Nei giorni scorsi, il The Atlantic si faceva una domanda. Come sarebbero andate le cose se Edward Snowden fosse stato cinese? «Ci sarebbero dubbi – scrive il The Atlantic – che i media statunitensi avrebbero rappresentato uno Snowden cinese come niente altro che un coraggioso dissidente? In più, il governo statunitense lo avrebbe considerato una potente fonte di intelligence e un simbolo di libertà, e la sola idea che Washington potesse permettere la sua estradizione in Cina sarebbe stata semplicemente impensabile». La grande eredità lasciata da Edward Snowden, conclude il periodico statunitense è una sola: «le accuse americane di illeciti cinesi non avranno lo stesso peso che in passato».
Difficile dire se questo vantaggio momentaneo cinese si trasformerà in un vero e proprio asset in mano a Pechino per il futuro. Da febbraio 2012 a giugno 2013, tre grandi casi hanno scosso i rapporti tra Stati Uniti e Cina. Il primo è stato il caso Wang Lijun, l’ex capo della polizia di Chongqing che si era rifugiato il 6 febbraio 2012 al consolato americano di Chengdu, nel sud della Cina, per chiedere asilo politico agli americani e sfuggire all’ira del suo capo e referente politico, Bo Xilai, con una serie di documenti e nastri frutto di intercettazioni. Dopo circa 36 ore chiuso all’interno del consolato, il personale diplomatico di Washignton lo ha consegnato agli agenti di polizia che avevano nel frattempo circondato l’edificio. A maggio del 2012 era stato l’avvocato autodidatta Chen Guangcheng a occupare la scena con la sua clamorosa fuga dagli arresti domiciliari a cui era stato sottoposto per la sua attività in difesa delle donne costrette ad abortire in nome della legge sul figlio unico. Chen, dopo un lungo impasse è riuscito a volare negli Stati Uniti con un visto di studio. A giugno di quest’anno, a irrompere sotto i riflettori della stampa mondiale è stato Edward Snowden. Tutti e tre i casi sono avvenuti alla vigilia di incontri di alto profilo tra Cina e Stati Uniti: nel caso di Edward Snowden il tempismo con cui si sono verificati gli eventi sembra essere calcolato con una precisione maniacale, che potrebbe dare adito, negli scrittori più dotati di inventiva, a una teoria del complotto capace di dare vita a una collana di spy-stories. Quello che sembra certo per ora, è che, come scrive il The Atlantic, gli Stati uniti non potranno più fare la voce grossa con la Cina sullo spionaggio informatico. Pechino, invece, è uscita dall'impasse del caso Snowden senza macchiarsi, e in qualche modo ha contraccambiato il favore di un anno fa, quando gli Usa non hanno rivelato i segreti che l’ex superpoliziotto di Chongqing, Wang Lijun, ha spifferato ai diplomatici americani di Chengdu.