Le controversie commerciali tra la Cina e gli Stati Uniti non sono di certo un tema nuovo: dopo l'adesione della Cina all'Organizzazione mondiale del commercio (OMC) nel 2001, le relazioni commerciali tra le due superpotenze sono state tese per vari motivi: dal disavanzo USA nei confronti di Pechino, al regime di peg del cambio cinese, alla prolungata battaglia per la proprietà intellettuale. Tuttavia ciò che rende oggi – e in prospettiva sempre più in futuro - la guerra commerciale USA-Cina un vero momento di svolta è la tecnologia, che emerge quale principale campo di battaglia. Un primo assaggio lo si è avuto lo scorso aprile quando, a seguito della minaccia del Presidente Trump di imporre tariffe punitive su un elenco di prodotti cinesi mirati, il Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti ha vietato a ZTE - impresa statale cinese e leader internazionale nel settore IT - l'acquisto di componenti tecnologiche realizzate da aziende americane. Una mossa che ha immediatamente fatto cessare tutte le principali operazioni di ZTE nel mercato americano e mostrato quanto pervasivi possano essere gli effetti del protezionismo in un mondo di filiere produttive integrate internazionalmente.
La disputa commerciale è quindi un buon pretesto per sollevare due temi ben più ampi: uno politico e uno economico.
Il tema politico è il confronto tra due superpotenze economiche ispirate a principi profondamente diversi. Gli Stati Uniti – molto diversificati al loro interno, anche quando vanno democraticamente alle urne, tra chi ha beneficiato e chi ha perso dalla globalizzazione (gli elettori di Trump) – sono tallonati sempre più da vicino da una Cina oggi ancora più che in passato centralizzata, guidata da un presidente che si è appena fatto estendere il mandato a vita e ha dichiarato di voler far diventare la Cina leader tecnologico mondiale a suon di sussidi pubblici nell’attività di ricerca e sviluppo (strumento che anche gli USA hanno regolarmente utilizzato) e acquisizioni di imprese e tecnologie estere. Tali acquisizioni sono spesso realizzate da imprese controllate e/o finanziate dallo Stato, e di conseguenza possono configurare situazioni ben diverse da semplici investimenti diretti esteri tra imprese indipendenti, bensì una possibile appropriazione di tecnologia o know-how da parte di uno Stato, non di una impresa privata. Quando tali acquisizioni cinesi all’estero riguardano settori sensibili o strategici, cioè collegati ad attività che riguardano la sicurezza nazionale, è evidente che quello che in altre circostanze sarebbe un semplice investimento diretto estero nel caso degli investimenti cinesi negli Stati Uniti diventa un tema di sicurezza nazionale, invocata (in base alla Sezione 232 del Trade Expansion Act del 1962) nel caso dei dazi sulle importazioni di acciaio e alluminio, input non solo di molti settori manifatturieri, ma anche dell’industria bellica.
In ogni caso Trump ha sollevato lo stesso tema di sicurezza sia per gli investimenti cinesi sia per quelli europei e canadesi, creando un parallelo difficilmente difendibile tra la minaccia potenziale alla sicurezza nazionale da parte di Paesi alleati e quella da parte cinese.
E’ utile ricordare a questo punto che nel pensiero strategico cinese si è fatto strada, a partire dall’epoca di Mao Zedong in avanti, il principio della fusione tra il settore civile (intenso in senso lato) e il settore militare. Questo principio ha assunto connotati sempre più definiti, raggiungendo la forma attuale che va sotto il nome di junmin ronghe (军民融合) traducibile come «fusione civile-militare». Sotto la presidenza di Xi Jinping, è diventato non solo una linea guida, ma anche un vero e proprio principio strategico. Il Presidente ha infatti creato nel novembre 2013, durante il terzo plenum del XVIII congresso del Partito comunista, il Military Civilian Fusion Leading Small Group (军民融合领导小组 – junmin ronghe lingdao xiaozu) per studiare quali formule amministrative e logistiche implementare per la realizzazione di questa fusione su più livelli operativi. Il junmin ronghe è volto alla creazione di forme di interdipendenza tra il settore militare e quello civile/industriale, il cui obiettivo principale è la promozione di una più profonda sinergia tra l’assetto industriale e quello militare per il perseguimento di interessi nazionali. Per esempio, le aziende di proprietà statale (SOEs, state-owned enterprises) dovranno anche essere pronte a creare un’economia necessaria per la mobilitazione militare. In questo modo, l’espansione economica cinese su scala globale non riguarderà soltanto il business, ma anche attività di natura puramente strategico-economica, dove il settore industriale, intrecciandosi con il valore militare, assume un carattere sempre più strategico per la sicurezza nazionale.
Il tema economico che Trump solleva con la minaccia di innescare una guerra commerciale è invece l’atteggiamento con il quale il sistema multilaterale degli scambi ha accolto la Cina, nella speranza e con l’assicurazione che le riforme promesse in sede di adesione sarebbero state compiute. Trump accusa la Cina di essere responsabile di una vera e propria “aggressione economica” a danno degli Stati Uniti, perpetrata per decenni sotto forma di acquisizione e acquisto di tecnologia attraverso pratiche di licenze di trasferimento tecnologico imposte alle imprese statunitensi che hanno operato in Cina. Tali pratiche, secondo Trump una vera e propria un’acquisizione indebita di proprietà intellettuale, sebbene contrarie ai principi fondamentali del WTO, in realtà sono state regolarmente perseguite nei confronti delle imprese estere che hanno iniziato a operare in Cina, come contropartita della possibilità di accedere al mercato cinese. Quindi, non di appropriazione indebita ma di uno scambio di benefici si tratta.
Tali acquisizioni, collaborazioni e alleanze industriali e tecnologiche hanno ampiamente contribuito all’apprendimento tecnologico delle imprese cinesi. L’imponente attività di ricerca e sviluppo finanziata dal governo cinese, unita alle conoscenze acquisite collaborando per tre decenni con le imprese estere, hanno portato le imprese cinesi a porsi oggi l’obiettivo, idealmente entro il 2025, come dichiarato nel piano Made in China 2025, di diventare leader mondiali in settori avanzati, tra cui: le nuove tecnologie dell’informazione; macchine a controllo numerico e robotica; attrezzature aerospaziali; strumenti per ingegneria oceanica e imbarcazioni hi-tech; materiale ferroviario; veicoli a risparmio energetico e a energia nuova; attrezzature elettriche; nuovi materiali; medicina biologica e apparecchiature mediche; macchinari agricoli. Gli international champions che tale programma si propone di creare non solo sono imprese di Stato, ma sono ancor più grandi di quanto non fossero prima del programma di consolidamento che ha ridotto il loro numero attraverso fusioni e acquisizioni e generano enorme sovraccapacità in molti settori, deprimono i prezzi e scalzando in tal modo gli altri fuori dal mercato.
È questa concorrenza di Stato che Trump cerca maldestramente di placare minacciando di ricorrere ai dazi. Che il vero obiettivo di Trump sia tentare di impedire la scalata cinese nei settori ad alta tecnologia (più che l’elevato disavanzo bilaterale con la Cina) è chiaro da un’analisi del peso dei prodotti hi-tech importati dalla Cina sul totale di quelli che saranno colpiti dai dazi, ben l’84% (secondo dati di Naitixis), rispetto a un modesto 3% dei beni low-tech. Tra questi settori hi-tech si trovano quelli inclusi da Pechino nel piano Made in China 2025, con il quale il paese intende diventare leader mondiale in 10 settori dove oggi sono concentrate le innovazioni sul fronte mondiale della tecnologia.
Da parte loro, i cinesi hanno reagito colpendo prodotti sensibili (soprattutto soia e carne di maiale) per l’elettorato americano e soprattutto per le costituencies di Trump. Tali prodotti sono low-tech per il 50%, mentre solo il 24 % di essi è high-tech. La Cina, infatti, non può permettersi di aumentare il costo di molti degli input altamente tecnologici che ancora importa in buona parte dall’estero (gli USA uno dei maggiori fornitori) e che le servono per risalire progressivamente nella scala della tecnologia (attraverso varie pratiche tra cui non solo il tradizionale reverse engineering, ma il più efficace trasferimento di conoscenza imposto alle imprese estere che vogliono produrre per il mercato cinese). E’ questo protezionismo selettivo (sgravi fiscali su import di input intermedi ad alto contenuto tecnologico e dazi elevati su import di beni finali) insieme a un’abile politica di attrazione di investimenti diretti dall’estero (che ha offerto l’accesso al mercato interno in cambio di trasferimento di tecnologia) lo strumento principale che ha permesso alla Cina di inserirsi nelle filiere produttive di molti settori manifatturieri leggeri sin dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso.
Sebbene sia inefficiente e inaccettabile in ambito multilaterale, oggi questa pratica del protezionismo selettivo viene cavalcata da Trump per sollevare il problema, peraltro non solo statunitense, di un Paese che di tale pratica si è avvalso per decenni per aumentare i volumi di produzione, conquistare quote di mercato all’estero e, oggi, diventare leader tecnologico globale. Se la minaccia di una guerra commerciale è servita a sollevare il vero problema, la soluzione potrà arrivare soltanto da una cooperazione vera sul fronte della fissazione degli standard tecnici, del contenuto domestico delle esportazioni di beni hi-tech e delle regole del commercio di tecnologia, su cui le istituzioni internazionali stanno ora iniziando a muoversi.
Il presidente Usa spera in questo modo di vincere l’appuntamento elettorale del prossimo autunno e nel frattempo di ridurre il disavanzo commerciale con la Cina, per poter giustificare i sacrifici di molti settori. Ma, a ben vedere, anche questo effetto non è così scontato. Innanzitutto, non è detto che il disavanzo degli Stati Uniti si riduca per effetto dei dazi, perché la quota di export Usa verso la Cina è aumentata dal 2000, a differenza di quella cinese verso gli States, che invece si è ridotta. Inoltre, è vero che degli 811 miliardi di dollari di disavanzo in termini lordi nel 2017, ben 376 erano in capo alla Cina. Tuttavia, secondo i dati Ocse sui flussi di commercio in valore aggiunto, in media circa un terzo del valore esportato dalla Cina proviene dall’estero, contro il 15 per cento negli Stati Uniti. Nei più rilevanti settori esportatori cinesi – elettronica, computer e macchinari elettrici – il valore aggiunto domestico non supera di molto il 50 per cento. Gran parte dell’altra metà proviene dalle economie avanzate dell’Asia e dagli Stati Uniti. Ciò significa che il vero valore del disavanzo degli Stati Uniti con la Cina (che proviene soprattutto da quei settori e dal tessile) si riduce a circa la metà.
Così se il disavanzo lordo con la Cina suggerisce una perdita di competitività degli Stati Uniti a partire dalla metà degli anni Novanta, in realtà i dati in valore aggiunto mostrano il contrario: gli Stati Uniti oggi contribuiscono ancora ampiamente alla produzione nei settori delle tecnologie dell’informazione, ma gran parte della produzione avviene fisicamente in Cina. Voler riportare questi posti di lavoro in America a suon di dazi è nel migliore dei casi inutile (in parte già avviene per effetto del differenziale salariale Usa-Cina, molto ridotto se non addirittura invertito), nel peggiore è controproducente, perché comporta molti più costi che benefici per chi li impone e per tutti gli altri. Soprattutto per i produttori esteri che servono il mercato americano rifornendosi in Cina, principalmente quelli europei, obiettivo indiretto di America first.
Nonostante gli effetti collaterali della guerra commerciale, Trump ha recentemente confermato la sua intenzione di valutare ulteriori dazi su altre 6 migliaia di prodotti importati dalla Cina, che stavolta includono molti beni di consumo. Le famiglie americane potrebbero accorgersi molto presto dell’elevato costo di una guerra commerciale contro la Cina. Resta da capire quale effetto prevarrà sul voto di novembre, se il beneficio accordato a pochi produttori o i maggiori costi sopportati da tutti i consumatori americani.