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L'annuncio di Trump
USA fuori dalla Siria: cronaca di un ritiro annunciato
Eugenio Dacrema
21 Dicembre 2018

Alla fine Trump si è ricordato – e ha fatto ricordare a tutti – che il Commander-in-Chief è lui. Quella della presenza dei soldati americani in Siria è infatti una diatriba che si trascina almeno dalla scorsa primavera, e che per mesi ha visto il Pentagono, deciso a restare, opporsi alla Casa Bianca, decisa a ritirarsi.

Le ragioni iniziali di Trump erano semplici, e avevano a che fare con il suo non certo ordinario istinto politico. Il Presidente americano è infatti approdato alla Casa Bianca anche cavalcando la rinnovata voglia di isolazionismo degli americani, stanchi di un protagonismo politico e militare nel mondo – e soprattutto in Medio Oriente – che, agli occhi di molti, ha portato solo morti, costi e divisioni.

Fosse stato per Trump il ritiro sarebbe avvenuto infatti mesi fa, in tempo per influenzare a proprio favore le elezioni di mid-term. A opporsi, invece, sono stati finora i vertici militari e alcuni membri dell’amministrazione, come il dimissionario Segretario alla Difesa James Mattis e il falco Consigliere per la Sicurezza Nazionale John Bolton. I motivi di questi ultimi sono più complessi, e hanno a che fare con quel che resta della malconcia egemonia americana.

In primo luogo, c’è la questione della credibilità dell’America come alleato. Abbandonare la Siria ora significa infatti abbandonare gli alleati del Ypg curdo nella trappola rappresentata, da una parte, dalla Turchia di Erdogan, decisa a estrometterli dal nord siriano manu militari, e, dall’altra, dal regime di Damasco, deciso a riprendere pieno controllo dell’intero territorio del Paese.

Cosa penserà il mondo di un’America che abbandona così all’improvviso quell’alleato curdo risultato fondamentale per la (quasi) totale sconfitta dell’Isis che Trump ha sbandierato orgogliosamente dal prato della Casa Bianca? Niente di buono, sicuramente. E niente di buono ne potrebbero pensare futuri potenziali alleati nel mondo all’idea di stringere patti militari con gli Usa. Al Pentagono temono, non senza ragione, che questa decisione sgretoli definitivamente l’immagine dell’America come partner affidabile.

C’è poi la questione della proiezione americana in Medio Oriente. Il ritiro dalla Siria mette in chiaro due realtà in divenire da tempo che sembrano ormai irreversibili: la sopraggiunta incapacità americana di fungere, come negli ultimi vent’anni, da arbitro ultimo di ogni crisi della regione e, soprattutto, l’intenzione di Washington di non fare nulla per invertire tale declino. Anzi.

Trump, anche se non lo ammetterebbe mai, con questo ritiro non ha fatto altro che accelerare un processo inaugurato da Barak Obama nel 2013, quando l’allora Presidente decise di non intervenire a seguito dell’attacco chimico compiuto dal regime siriano nell’agosto di quell’anno. Allora si disse che Obama, alla fine, aveva deciso che per la Siria non valeva la pena rischiare una guerra con Russia e Iran. Oggi, analogamente, si può dire che Trump ha deciso che per la Siria non vale la pena rischiare una guerra con la Turchia.

Se, infatti, finora le ragioni del Pentagono erano riuscite a tenere a freno i voleri del Presidente, è stata l’aggressiva strategia di Ankara – che a metà dicembre ha minacciato di attaccare il nord-est siriano anche a costo di entrare in collisione con le forze Usa che vi sono stazionate – a portare Trump a rompere gli indugi. Erdogan non è infatti intenzionato ad accontentarsi di Afrin e ha da tempo spostato la propria attenzione a est dell’Eufrate, in particolare sulla città di Manbij, deciso a mettere fine a qualunque controllo del Ypg sui territori confinanti con la Turchia.

Una provocazione a cui, in altri tempi, il Presidente americano avrebbe risposto con una retorica da “fuoco e furia”. Ma le cose sono cambiate, e oggi Trump ha bisogno della Turchia più che mai. A farle cambiare, più di tutto, sono stati gli effetti devastanti che il caso Khashoggi ha avuto sull’immagine dell’Arabia Saudita. Riyadh, fino a pochi mesi fa perno principale della politica mediorientale trumpiana, si è trasformata in breve tempo in una utile leva nelle mani degli avversari esterni e, soprattutto, interni del Presidente, il quale, da un giorno all’altro, si è ritrovato a dover diversificare le proprie relazioni strategiche nella regione per evitare danni d’immagine dall’alto costo politico.

Washington, ora più che mai, ha quindi bisogno di riportare Erdogan dalla propria parte, strappandolo al lungo flirt che negli ultimi due anni lo ha visto protagonista insieme al Presidente russo Vladimir Putin. Trump, oltre al ritiro delle truppe, ha infatti autorizzato a sorpresa la vendita alla Turchia dei sistemi missilistici americani Patriot – negata finora da ogni amministrazione statunitense – e si vocifera perfino che a Washington stiano pensando di concedere l’estradizione di Fethullah Gulen, il predicatore turco residente negli Usa che Erdogan accusa di essere il fautore del tentato golpe del 2016. Una serie di “carote” politiche a cui il Presidente turco non può certo rimanere insensibile, e che probabilmente lo porteranno ad aggiustare nuovamente il baricentro geopolitico turco verso Occidente. Il primo segnale potrebbe avvenire molto presto, con l’annuncio dell’annullamento della vendita del sistema missilistico russo S-400 che Erdogan sembrava ormai in procinto di acquistare.    

Ma è soprattutto sul quadro siriano che si riverbereranno gli effetti della mossa di Trump. Con essa, infatti, l’amministrazione americana rinuncia definitivamente a qualunque velleità di avere qualche tipo di voce in capitolo nella risoluzione del conflitto, risolvendo al ribasso l’ambiguità che aveva caratterizzato la strategia americana fino a oggi. Ovvero, da una parte, la pretesa che con soli duemila uomini sul campo si potesse ottenere un vero processo di transizione politica nel regime siriano ed eliminare la presenza iraniana nel Paese e, dall’altra, il categorico rifiuto – prima di Obama e poi di Trump – di incrementare in qualche modo il proprio impegno – in senso militare o in senso finanziario, promettendo fondi per la ricostruzione – in modo da rendere realistico almeno uno di questi obiettivi. Con il ritiro si lascia definitivamente il futuro della crisi siriana in mano ai restanti attori in campo, in primo luogo Russia e Turchia. L’Iran, indebolito dalla reintroduzione delle sanzioni e dalla competizione russa per l’influenza su Assad, sembra invece destinato ad assumere un ruolo secondario in Siria, almeno nel prossimo futuro; forse l’unico, parziale, successo ottenuto dall’amministrazione americana.

Il ritiro americano permette invece agli attori attualmente in vantaggio su entrambi i fronti – regime e russi da una parte e turchi dall’altra – di procedere alla semplificazione del rebus siriano. In primo luogo, la luce verde di Trump rende la nuova offensiva turca a est dell’Eufrate assai probabile. Le truppe di Ankara e i loro proxy siriani potrebbero già marciare su Manbij già all’inizio del nuovo anno, e le loro mire potrebbero espandersi anche oltre, lungo tutto il confine. Inoltre, un nuovo espansionismo turco nel nord est siriano, unito a un ribilanciamento geopolitico di Ankara a favore dell’Occidente (e a sfavore della Russia), potrebbero presto far saltare i delicati equilibri che tengono in piedi la tregua di Idlib. A Mosca, infatti, potrebbero valutare che non valga più la pena spendere capitale politico per frenare le smanie di riconquista di Assad – che ha esplicitato più volte la propria volontà di non rinunciare a riprendere Idlib – ora che la Turchia sembra tornare tra le braccia di Washington.

Due nuove potenziali offensive sembrano affacciarsi per l’inizio del 2019, in un conflitto che alcuni dicevano in procinto di concludersi già un anno e mezzo fa. Perché se il ritiro statunitense semplificherà la mappa e le logiche della guerra siriana, non è detto affatto che ne semplifichi anche la risoluzione.

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MENA Siria trump curdi
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AUTORI

Eugenio Dacrema
ISPI Associate Research Fellow

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