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Commentary
USA fuori dall’Iran deal: business europeo alla prova
Annalisa Perteghella
01 Agosto 2018

Circa 20 miliardi di euro: a questo ammonta l'interscambio Ue-Iran reso possibile dall'accordo sul nucleare, che ora rischia di andare in fumo a seguito della decisione di Donald Trump. Lo scorso 8 maggio il presidente statunitense ha infatti annunciato che gli Usa usciranno dall’accordo sul nucleare iraniano (JCPOA) concluso nel luglio 2015 da Iran e P5+1 (Usa, Russia, Cina, Francia, Germania, Regno Unito). Sebbene Washington rappresenti solamente una delle parti che hanno negoziato il JCPOA, questa decisione rischia di avere ripercussioni sulle altre parti e sulla tenuta dell’accordo stesso.

Con il ritiro degli Usa rientreranno in vigore le sanzioni secondarie statunitensi che erano state sospese nel gennaio 2016. A differenza delle sanzioni primarie – che riguardano solamente soggetti statunitensi o con un “US-nexus” – le sanzioni secondarie hanno carattere extraterritoriale, vale a dire si applicano nei confronti di qualsiasi soggetto nel mondo. Tramite queste misure, gli Usa colpiscono infatti i paesi terzi – soggetti non statunitensi – che intrattengono relazioni economiche con Paesi oggetto di sanzioni: impedendo loro l’accesso al mercato – fisico e finanzario – statunitense, gli Usa di fatto pongono i paesi terzi davanti a una scelta obbligata: difficilmente si privilegerà la relazione con Teheran rispetto a quella consolidata e ben più remunerativa con Washington.

Con questa mossa però gli Usa sferrano un colpo mortale all’accordo: assicurare il mantenimento delle relazioni economiche e commerciali tra Ue e Iran rappresenta la condizione richiesta dall’Iran per rimanere parte del JCPOA. In particolare, nel suo discorso dello scorso 23 maggio la Guida suprema iraniana Ali Khamenei ha indicato il mantenimento delle relazioni nel settore dell’energia come la linea rossa da rispettare affinché l’Iran possa ritenere conforme al proprio interesse nazionale continuare ad adempiere all’accordo.

La risposta dell’Unione europea alla decisione di Trump, del resto, è stata fin da subito molto forte, perlomeno a livello vocale. All’atto concreto, però, Bruxelles si scontra con la limitatezza delle opzioni a disposizione per mettere al riparo le proprie imprese da sanzioni che hanno portata globale, considerata la persistente egemonia degli Usa sul sistema degli scambi e finanziario.

Sono due i principali strumenti approntati da Bruxelles, che dovrebbero diventare operativi entro il 6 agosto:

La riattivazione del “Regolamento di blocco” (Regolamento 2271/96), che impedisce ai soggetti europei di adeguarsi alle sanzioni secondarie statunitensi, e l’estensione del mandato della Banca europea per gli investimenti (BEI), alla quale verrebbe accordato il potere di fornire garanzie sulle attività finanziarie con l’Iran, in modo da sostenere gli investimenti europei – soprattutto di piccole e medie imprese – nel paese.  

Il Regolamento di blocco venne introdotto nel 1996 per schermare le aziende europee dalla portata extraterritoriale delle sanzioni Usa verso Iran, Libia e Cuba. Tale atto legislativo impedisce ai soggetti europei di conformarsi alle richieste statunitensi – pena l’incorrere in multe comminate dallo stato di appartenenza –, permette loro di ottenere il risarcimento dei danni derivanti dall’applicazione delle misure sanzionatorie Usa, e pone i soggetti europei al riparo da sentenze di tribunali e decisioni di autorità amministrative esterne all’Ue. Il regolamento permette però ai soggetti europei di ottenere specifiche autorizzazioni se dal suo rispetto – e dunque dal non rispetto delle sanzioni Usa – dovesse derivare un danno per i propri interessi o per quelli dell’Ue. Il Regolamento affida a ciascuno stato membro la decisione circa le misure punitive da imporre in caso di mancato rispetto del regolamento, limitandosi ad affermare che esse devono essere “efficaci, proporzionate e dissuasive”.

Se sulla carta quanto delineato dal Regolamento sembra promettente, nella realtà esso rappresenta una risposta alquanto debole. Molti sono infatti i dubbi relativi alla sua efficacia. Se da una parte esso può proteggere un soggetto europeo da multe comminate dal Tesoro Usa – tramite il meccanismo di compensazione e risarcimento danni – dall’altra non sarebbe efficace nel tutelare i soggetti dalle altre misure punitive statunitensi, quali la confisca o il congelamento degli asset, la proibizione dell’accesso al mercato statunitense così come al sistema finanziario Usa, e altre misure che gli Usa possono prendere in rappresaglia. Il nodo finanziario, in particolare, rischia di essere il più delicato: gli Usa hanno infatti facoltà di escludere dal proprio sistema finanziario le istituzioni finanziarie internazionali che intrattengono relazioni con l’Iran. Di fatto, ciò significa che le banche straniere che processano pagamenti da e verso l’Iran saranno costrette a scegliere se continuare a farlo, correndo il rischio di essere escluse dal mercato Usa, o se mettere in atto l’isolamento finanziario di Teheran.

Ulteriore motivo di scetticismo legato al Regolamento di blocco è il fatto che appare alquanto ingenuo pensare di poter schermare i soggetti europei dal Tesoro Usa in un’epoca in cui ormai i due mercati sono profondamente interdipendenti e connessi: i legami tra le multinazionali europee e il sistema finanziario statunitense sono oggi molto maggiori rispetto a quanto accadeva nel 1996. Inoltre, sarebbe difficile per il regolatore nazionale accertare che la decisione di un’azienda nazionale di interrompere le relazioni con l’Iran sia dovuta alla volontà di adeguarsi alle richieste Usa e non a una semplice valutazione commerciale.

Infine, l’applicazione del Regolamento creerebbe una situazione di ambiguità e incertezza legale che metterebbe i soggetti europei in una posizione alquanto difficile: essi sarebbero infatti costretti a scegliere se conformarsi alle richieste Usa e trovarsi così in violazione del regolamento Ue, oppure se conformarsi al regolamento Ue e trovarsi in violazione delle leggi Usa.

Per questi motivi, nonostante lo slancio e il supporto iniziale pressoché unanime da parte dei paesi membri Ue, all’interno di alcuni di essi è andato delineandosi un atteggiamento più cauto. La Germania e il Regno Unito, in particolare, sembrano tirare il freno a mano, mentre la Francia intende premere sull’acceleratore.

Nonostante ciò, il Regolamento ha passato indenne il processo di revisione da parte di Parlamento e Consiglio; la sua versione aggiornata - comprendente le ultime sanzioni Usa - è stata approvata lo scorso 17 luglio e potrà pertanto essere valida quando il 6 agosto rientrerà in vigore il primo round di sanzioni Usa. Per quanto scarsamente efficace in termini di sua attuale capacità di fare da schermo, il Regolamento rappresenta uno strumento politico per mezzo del quale l’Ue esprime la propria volontà all’alleato statunitense, e segnala di essere disposta a intraprendere azioni per tutelare i propri interessi. Già nel 1996 il Regolamento era stato utilizzato in questo senso, per ottenere dall’allora presidente Clinton le esenzioni settoriali per i soggetti Ue.

La seconda misura decisa dalla Commissione europea e approvata dal Parlamento lo scorso 4 luglio è l’inclusione dell’Iran nell’elenco dei paesi idonei a ottenere prestiti dalla Banca Europea per gli Investimenti (BEI). La BEI fornisce finanziamenti, garanzie e consulenza a sostegno di progetti di sviluppo economico e infrastrutturale all’interno dei paesi membri (proprio questi ultimi sono infatti i suoi maggiori azionisti). Una parte delle sue attività – circa il 9% – si svolge però anche fuori dall’Ue. Queste attività sono coperte da un fondo di garanzia, destinato a coprire le eventuali perdite derivanti da questi progetti. Lo scorso marzo, oltre a portare a 32,3 miliardi di euro la somma destinata a questo fondo di garanzia, Parlamento e Consiglio hanno incluso l’Iran nell’elenco dei paesi “potenzialmente idonei” a ricevere prestiti. Con la decisione della Commissione, l’Iran viene spostato dalla lista dei “potenzialmente idonei” a quella degli “idonei”, dunque aggirando in maniera potenziale il nodo del finanziamento degli investimenti europei in Iran.

Rimaniamo nell’ambito del potenziale perché questa misura non è vincolante ma semplicemente “enabling”: rimane comunque prerogativa del board di governatori della Banca, che si compone dei ministri delle Finanze dei 27 paesi Ue, decidere se intraprendere effettivamente queste operazioni. Diversi segnali, di fatto, sembrano indicare che la BEI non abbia l’intenzione di sostenere effettivamente gli investimenti verso l’Iran. Ciò è dovuto principalmente al fatto che la Banca si finanzia anche sul mercato finanziario statunitense, e si teme che l’esposizione verso l’Iran spaventi i potenziali acquirenti di titoli. Inoltre, circa un terzo delle sue transazioni sono condotte in dollari. Nei fatti, l’unico modo per l’Ue per sostenere gli investimenti in Iran e per continuare a processare pagamenti da e verso il paese sarebbe quello di creare istituzioni finanziarie totalmente “isolate”, senza esposizione verso gli Usa.

La proposta però appare di difficile, o quantomeno non rapida, implementazione. Non è dunque detto che la crisi dell’accordo sul nucleare iraniano non serva da pungolo per una azione futura dell’Ue nel dotarsi di strumenti in grado di tutelare la propria sovranità e i propri interessi. Se questo avverrà, però, sarà con ogni probabilità sul lungo periodo mentre l’esigenza di tutelare l’accordo con l’Iran si presenta oggi, qui ed ora. E nel qui ed ora l’Ue ha davvero pochi strumenti di fronte a quello che rimane a tutti gli effetti un egemone in grado di imporre la propria volontà, soprattutto sul piano finanziario.

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AUTORI

Annalisa Perteghella
Research Fellow - Iran Desk

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