È, quello odierno, il nono faccia a faccia tra Donald Trump e il Primo Ministro giapponese Shinzo Abe. Ed è una relazione di certo “speciale” quella tra Stati Uniti e Giappone. Non l'unica, per gli Usa. Ma sicuramente una delle più importanti. A conferire tale speciale unicità ai rapporti nippo-statunitensi hanno contribuito – e contribuiscono – più variabili. Vi è una storia densa d'interazioni, conflittuali e cooperative, che ha segnato le rotte transpacifiche negli ultimi due secoli. Vi è un'architettura di sicurezza regionale che, per quanto priva delle forme d'istituzionalizzazione e integrazione sviluppate dopo il 1945 nello spazio atlantico, poggia sull’asse bilaterale Tokyo-Washington e sulla garanzia americana per come questa è codificata dagli accordi del 1951 e del 1960.
Vi sono le tante interdipendenze economiche sviluppate negli ultimi 70 anni, che fanno del Giappone uno dei principali partner degli Usa: il terzo, dopo Cina e Messico, per surplus negli scambi commerciali bilaterali; il secondo, dopo la Cina, in termini di acquisti dei titoli del Tesoro statunitense e quindi di finanziamento estero del debito americano (e per un paio di mesi, un anno fa, Tokyo addirittura superò la Cina in questa peculiare ma importante classifica). E vi sono processi d’interazione e di transfer culturale a loro volta profondi e consolidati, prodotti dall’immigrazione giapponese negli Usa, dall'interdipendenza commerciale e, più tardi, finanziaria, dai processi di "americanizzazione" del Giappone postbellico, dalla controversa presenza militare americana a Okinawa.
I termini di questa special relationship furono già turbati dalla fine della Guerra Fredda e dall'inarrestabile ascesa della Cina nello spazio dell'Asia-Pacifico. Quest'ultima ha rimpiazzato gli Usa come principale partner commerciale del Giappone, accrescendo di molto inoltre i suoi investimenti nel Sol Levante. Le tensioni con Pechino su alcune isole del Mar Cinese Orientale e, più in generale, la necessità di contenere anche militarmente la crescita dell'influenza cinese ha però consolidato l'indispensabilità della partnership strategica con Washington: confermato l’importanza dell’asse con gli Usa e il ruolo di quest’ultimi come fornitori di sicurezza (e quindi ordine) nella regione.
A fronte di ciò, i lunghi riverberi della crisi del 2007-8, la crescente popolarità negli Usa di parole d'ordine protezionistiche e unilateraliste e, infine, il ciclone Trump hanno prodotto un ulteriore destabilizzazione dei rapporti nippo-statunitensi. Sviluppati anche in funzione di contenimento della Cina, i progetti di rafforzamento dell’integrazione commerciale transpacifica (con il TransPacific Partnership, TPP) si sono arenati sugli scogli di un'opinione pubblica statunitense sempre più ostile al liberoscambismo cui il demagogico sciovinismo economico di Trump ha poi dato voce. Le latenti tensioni intra-asiatiche, acuite anche dall'accentuato (e strumentale) nazionalismo del governo di destra di Shinzo Abe, hanno introdotto un ulteriore elemento di tensione e instabilità.
Come ben sappiamo, Abe ha cercato da subito di costruire un asse privilegiato con Trump: di usare la loro comune inclinazione nazionalista per rilanciare, o quantomeno tutelare, la "relazione speciale" con gli Usa. Quello odierno è il nono faccia a faccia con il Presidente americano; numerosi (pare più di trenta) sono stati i colloqui telefonici tra i due leader. Abe ha minimizzato l’impatto della decisione statunitense di non ratificare il TPP; diversamente dagli europei, ha scelto il basso profilo nel protestare contro l'estensione al Giappone delle tariffe imposte dagli Usa su alluminio e acciaio; ha in prima battuta sostenuto entusiasticamente l’aggressiva linea del Presidente contro la Corea del Nord. Il dialogo aperto dagli Usa con quest’ultima segna però una svolta e mette a dura prova la pazienza filo-trumpiana del Primo Ministro giapponese. È difficile immaginare che dal prossimo vertice tra Kim Jong-un e Trump escano risultati eclatanti (anche per il significato radicalmente diverso che Washington e Pyongyang attribuiscono all’idea di "denuclearizzare" la penisola coreana). Ma il solo avvio di un serio negoziato sulla Corea rischia di avere un impatto molto destabilizzante su un equilibrio securitario regionale nel quale resta centrale, per il Giappone, la presenza militare statunitense nella penisola. A maggior ragione se tra i risultati di questo vertice vi fosse un impegno nordcoreano a sospendere lo sviluppo della tecnologia balistica intercontinentale, che Trump potrebbe sventolare cosmeticamente come un grande successo, ma che non avrebbe alcun effetto sulla condizione del Giappone. Ecco perché Abe guarda con preoccupazione a quanto sta avvenendo, sollecita Trump a non fidarsi di Kim e – simbologia per simbologia – chiede di poter beneficiare anch'egli di qualche risultato dal vertice, magari su un tema fortemente sentito dalla sua opinione pubblica quale quello dei giapponesi rapiti da Pyongyang a cavallo tra anni Settanta e Ottana in una delle operazioni più bizzarre e drammatiche della Guerra Fredda in Asia.