Il recente aumento delle tensioni tra Iran e Stati Uniti espone la regione – e il mondo – a un rischio concreto: quello dello scoppio di una nuova guerra nel Golfo. A partire da domenica 12 maggio, una serie di episodi ha infatti destato in molti la preoccupazione per una possibile escalation: prima il sabotaggio di quattro petroliere al largo di Fujairah, negli Emirati Arabi Uniti; poi un attacco con droni che ha colpito due pozzi petroliferi in Arabia Saudita. In entrambi i casi, sebbene non sia stata ufficializzata nessuna prova in merito, i sospetti statunitensi sono caduti sull’Iran. Dopo che lo scorso aprile l’amministrazione Trump non ha rinnovato le esenzioni sull’acquisto di greggio iraniano ai paesi asiatici, con l’obiettivo di portare a zero le esportazioni petrolifere iraniane, Teheran aveva minacciato di chiudere lo stretto di Hormuz, da cui transita circa il 40% del petrolio esportato via mare. L’Iran, secondo le accuse di Washington, si starebbe dunque adoperando per sabotare la produzione e l’esportazione di petrolio da parte degli altri paesi della regione.
Tutto questo avviene nel quadro di un aumento delle pressioni statunitensi sull’Iran perché quest’ultimo torni al tavolo negoziale sul tema del nucleare (ma non solo): tavolo abbandonato dalla stessa Washington nel maggio dello scorso anno, con la decisione di ritirarsi dall’accordo siglato nel 2015 (JCPOA, Joint Comprehensive Plan of Action). Pur nella difficoltà di interpretare in maniera lineare i comportamenti e le decisioni dell’amministrazione Trump, sembrerebbe che la strategia di “massima pressione” sia tesa a costringere l’Iran a fare maggiori concessioni; non solo sul piano del nucleare, ma anche su quello del proprio programma missilistico e, più in generale, della sua azione nella regione mediorientale. Trump, che in più di un’occasione ha rimarcato di essere un ottimo negoziatore, sembrerebbe dunque convinto di essere in grado di strappare a Teheran un accordo più in linea con i desiderata americani, e dimostrare in questo modo di poter fare meglio della precedente amministrazione.
Trump, tuttavia, non sembra intenzionato a ricorrere effettivamente all’opzione militare. Che la minaccia iraniana sia reale o meno, risulta infatti difficile pensare che il presidente dell’“America first”, che solo pochi mesi fa si dichiarava pronto a ritirare tutte le truppe statunitensi dalla Siria, sia oggi pronto ad assumersi la responsabilità e i costi di una nuova guerra su vasta scala in Medio oriente. Nonostante il piano bellico fatto trapelare alla stampa dal Consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton preveda un’operazione quasi chirurgica, nella realtà dei fatti una guerra con l’Iran richiederebbe uno sforzo ben maggiore, anche solo in considerazione della capacità di guerra asimmetrica di Teheran e della capacità di mobilitare propri proxies e alleati nella regione.
Se dunque l’opzione militare appare irrazionale per gli stessi Stati Uniti, perché la situazione di queste ore ci preoccupa? Prevalentemente per due motivi. Da una parte, se Trump appare freddo di fronte all’opzione militare, nella sua amministrazione siedono falchi del calibro di John Bolton, che in passato ha dichiarato che l’unico modo per fermare la corsa al nucleare dell’Iran è “bombardare il paese”. È proprio a Bolton che si deve l’attuale strategia di massima pressione implementata dalla Casa Bianca. Una strategia che dimostra la completa mancanza di conoscenza della storia, della struttura degli incentivi e del funzionamento della Repubblica islamica, e che non sta portando a concreti risultati nel senso di un cambiamento del comportamento iraniano.
In secondo luogo, per quanto entrambe le parti – Stati Uniti e Iran – ripetano di non volere una guerra, l’attuale situazione di tensione, il deterioramento delle relazioni tra i due paesi e la mancanza di un canale diplomatico aperto sollevano preoccupazioni circa la possibilità che gli eventi precipitino in seguito a un minimo incidente, anche non volontario. Collegato a ciò è poi il fatto che con questa strategia gli Usa sembrano essersi chiusi in un vicolo cieco: se tutte le azioni intraprese nell’ultimo anno sono state tese a mettere l’Iran all’angolo e a farlo cedere di fronte alle “12 richieste” del segretario di Stato Usa Pompeo – e l’Iran in risposta non solo non è capitolato, ma ha risposto minacciando di abbandonare esso stesso il JCPOA, con la parziale ripresa di alcune attività connesse al suo programma nucleare – come si torna indietro da situazioni del genere? Se l’escalation arriva a un livello tale che l’ultima opzione rimasta è quella militare, come fare a impedire che si arrivi davvero a questo?
Una soluzione ci sarebbe, ed è quella diplomatica. Negli scorsi giorni Trump ha dichiarato che vorrebbe ricevere una telefonata dall’Iran, e l’Iran nei mesi scorsi ha detto di essere disposto al dialogo, a patto di essere trattato con rispetto (l’esatto contrario di quanto la strategia di massima pressione sta mettendo in atto). Un ruolo di mediazione o quantomeno di facilitazione potrebbe essere svolto dalla Svizzera, paese che gestisce le pratiche consolari tra Teheran e Washington, attraverso la propria ambasciata a Teheran, in assenza di relazioni diplomatiche dirette tra i due. Forse non è un caso che il presidente della Confederazione elvetica Ueli Maurer si sia recato nelle scorse ore alla Casa Bianca, in una visita non precedentemente in programma. Anche paesi del GCC con un ruolo tradizionale di mediazione come Oman e Kuwait si starebbero adoperando per aprire canali di dialogo tra Washington e Teheran.
Per abbassare la tensione e scongiurare l’escalation, gli Usa dovrebbero però rivedere la propria strategia degli ultimi mesi. Quella di queste ore è infatti una crisi totalmente autoindotta da Washington, che con la decisione di ritirarsi unilateralmente dal JCPOA e di reintrodurre le sanzioni che impediscono l’adeguata implementazione dell’accordo da parte dei rimanenti membri, ha messo in fortissima crisi lo strumento a che permetteva davvero di dialogare con l’Iran anche su altre questioni. Tra queste, appunto, anche il programma missilistico. Inoltre, mettendo in crisi il JCPOA Washington ha messo in crisi la leadership moderata di Rouhani, fautrice dell’accordo, facendo il gioco dei falchi iraniani che a questa leadership si oppongono.
Per l’amministrazione Usa è giunto il momento di assumersi la responsabilità delle proprie azioni potenzialmente destabilizzanti per la sicurezza regionale e internazionale, oltre che per gli interessi dei propri alleati europei, e rivedere la propria strategia in un senso che riapra davvero il tavolo del negoziato. Questo comporterebbe in primo luogo riconoscere all’Iran dignità e sovranità, ovvero rivedere la propria politica sanzionatoria unilaterale. Donald Trump sarà all’altezza di questo compito?