Che tipo di politica economica cercherà di promuovere l’amministrazione Biden? Quanto sarà condizionata dall’emergenza Covid e dalla necessità di darvi una risposta immediata? E quali ostacoli, interni e internazionali, si frapporranno ai progetti del Presidente eletto?
Sappiamo che il programma di Biden è ambizioso e per certi aspetti radicale. Che esso riflette sì l’accresciuto peso della sinistra dentro il partito democratico, ma anche un mutamento più generale di paradigma (che a modo suo già l’amministrazione Trump esprimeva) e la necessità – di fronte al devastante combinato disposto della crisi sanitaria, di quella economica e di quella sociale – d’offrire risposte coraggiose e non convenzionali.
Mosse caute sulla fiscalità
Sulla fiscalità ci si muoverà con cautela. La riforma del 2017 ha costituito il più importante successo legislativo repubblicano durante i quattro anni di Trump. Ma non si è trattato di uno stravolgimento in stile neo-reaganiano: l’imposta sulle imprese (corporate tax) è stata sì ridotta in modo significativo (dal 35 al 21%); quelle sul reddito, e la loro articolazione in sette aliquote, hanno però visto solo un lieve ritocco al ribasso. Provvedimenti relativamente facili a prendersi, ma immensamente complicati da cancellare, come sappiamo bene dopo mezzo secolo di chiara egemonia di un discorso anti-tasse.
Visto il loro carattere non particolarmente radicale e il costo politico potenzialmente assai alto di un intervento atto a rovesciarli, è probabile che su questo l’amministrazione Biden agisca con prudenza e gradualità, riportando magari le aliquote ai livelli del periodo obamiano (quella sui redditi più alti si collocava al 39,6% contro il 37% di Trump) e ritoccando la corporate tax senza però ritornare al pre-2017 (nel suo programma elettorale Biden proponeva il 28%). Misure, queste, da accompagnarsi con provvedimenti mirati e ad hoc per finanziare progetti speciali o chiudere i tanti loopholes del codice fiscale statunitense.
Le priorità per l’economia e il commercio
Diverso è invece il discorso per quanto riguarda gli ambiti, strettamente intrecciati, delle politiche macroeconomiche e del commercio internazionale. Per quanto riguarda le prime, vi sarà ovviamente un’azione contingente ed emergenziale di stimolo di consumi e crescita in risposta alla crisi provocata dalla pandemia, da perseguirsi con assegni diretti, sgravi e crediti di varia natura. Le politiche di medio e lungo periodo si concentreranno invece sugli ambiti d’azione che hanno qualificato il programma di Biden: ambiente, sostegno alle imprese (e, probabilmente, a qualche programma di “buy American”), investimenti infrastrutturali, rafforzamento della sanità e tutele per i lavoratori. Su quest’ultimo punto è immaginabile un’azione rapida, centrata sul tentativo di potenziare l’offerta di sanità pubblica e aumentare il salario minimo federale, che attualmente è di 7,25 dollari all’ora, se indicizzato circa il 30% in meno rispetto a mezzo secolo fa (anche se molti Stati hanno un livello più alto che giunge fino ai 14 dollari della California).
Provvedimenti – quelli su sanità e retribuzioni – che possono peraltro godere di un sostegno ampio e trasversale, come dimostrano tra l’altro una serie d’iniziative referendarie che negli ultimi anni hanno visto ampie maggioranze votare a loro favore, anche in Stati tradizionalmente conservatori. E provvedimenti che rimandano a un’eredità, quella della riforma sanitaria di Barack Obama, più solida e duratura di quel che si pensasse, soprattutto per quanto riguarda l’ampliamento dell’accesso alla sanità pubblica, in particolare Medicaid, il programma destinato a famiglie e individui che si collocano sotto una determinata soglia di reddito, che con Obama fu fortemente esteso e rafforzato (a dispetto delle leggende, oggi più di un terzo degli americani accede a programmi di assistenza medica pubblica; percentuale che in molti Stati supera il 40% e – nel caso del New Mexico – addirittura la metà della popolazione).
Il rilancio delle infrastrutture (sostenibili)
L’investimenti in infrastrutture e in onerose (e ambiziose) politiche ambientali rappresenteranno gli altri ambiti primari d’azione interna dell’amministrazione. Nelle prime settimane successive all’insediamento del 20 gennaio è lecito aspettarsi una raffica di ordini esecutivi finalizzati a rovesciare la deregulation di Trump, riattivare molti degli elementi del vasto apparato regolatorio degli anni di Obama e sostenere programmi di di sviluppo di fonti energetiche pulite, da promuoversi prima di tutto nei trasporti pubblici e nell’edilizia, e da finanziarsi attraverso spese e trasferimenti federali oltre che con vari tipi d’incentivi fiscali.
La novità più forte rispetto all’epoca obamiana è che questo tipo di politiche è oggi chiaramente declinato in termini di giustizia sociale e “ambientale” (environmental justice): non solo come strumento nella lotta al cambiamento climatico o agente moltiplicatore della crescita economica, ma come correttore di diseguaglianze e squilibri sociali, da attivarsi in primo luogo destinando a comunità e aree svantaggiate il 40% degli investimenti in infrastrutture a energia pulita. Infrastrutture, peraltro, intese anche in un senso più classico e canonico come capitale fisso sociale degradato e obsoleto - si pensi solo alla disarmante rete stradale e ferroviaria degli USA – da modernizzare e trasformare, per stimolare la crescita e correggere una evidente fragilità sistemica del Paese.
America is back
Questa azione interna s’intreccia però strettamente con quella internazionale. Politiche ambientali d’investimento in fonti rinnovabili e riduzione delle emissioni nocive sono propedeutiche al rilancio di un impegno globale che l’amministrazione Biden promette con forza, a partire dal rovesciamento della decisione di Trump di uscire dagli accordi di Parigi del 2015. Questa interdipendenza tra la politica interna e quella estera assumerà quindi un tratto virtuoso che porterà gli USA a cercare di guidare una nuova iniziativa multilaterale (e la nomina di John Kerry come Rappresentante Speciale del Presidente sulle questioni climatiche punta decisamente in tale dimensione).
È ipotizzabile che, con meno fanfara, l’amministrazione Biden cerchi in parallelo di riavviare i negoziati commerciali con i partner atlantici e pacifici, che implosero cinque anni fa sotto la pressione di un’opinione pubblica statunitense sempre più diffidente verso queste forme d’integrazione economica e a causa dell’inattesa ascesa di Donald Trump. Se ciò dovesse avvenire, le motivazioni economiche saranno inestricabilmente legate a quelle politiche e geopolitiche.
Qualsiasi nuovo accordo commerciale dovrà rispondere a due condizioni fondamentali: essere costruito attorno a clausole che garantiscano le imprese statunitensi e i lavoratori dei Paesi coinvolti; e contenere meccanismi in grado di condizionare catene transnazionali di produzione nelle quali si punta a ridurre peso e influenza della Cina. Sotto Trump – e con il contributo fondamentale dei democratici al Congresso – è stato siglato un accordo che potrebbe servive da modello: la revisione del NAFTA con Messico e Canada (rinominato United States–Mexico–Canada Agreement, USMCA) entrata in vigore il luglio scorso. Revisione centrata sull’imposizione di tutele più stringenti dei lavoratori (e sull’obbligo di aumentare le retribuzioni di quelli occupati nel settore automobilistico), sull’aumento della percentuale totale di un dato bene prodotta nei tre Paesi necessaria per poter beneficiare di tariffe zero e sulla revisione di un sistema arbitrale che pareva favorire le compagnie private nelle loro vertenze con i governi. Un modello che, debitamente adattato, potrebbe essere riproposto nei negoziati con in partner europei e i cui principi debbono essere in una certa misura rispettati per poter trovare l’indispensabile sostegno interno, al Congresso e nell’opinione pubblica.
Gli ostacoli per la nuova Amministrazione
E questo ci porta però all’ultimo aspetto: i numerosi ostacoli che si frappongono ai progetti dell’amministrazione Biden. I democratici possono ancora sperare di conquistare una maggioranza al Senato che dipenderà dall’esito dei due ballottaggi in Georgia. Li vincessero entrambi, cosa possibile ma non probabile, il Senato sarebbe diviso con 50 senatori per parte e la maggioranza verrebbe garantita ai democratici dal voto della Vice-Presidente Kamala Harris. Una maggioranza che sarebbe fondamentale per poter definire l’agenda della Camera alta, ma di certo non sufficiente per promuovere un’ambiziosa agenda politica, soprattutto su questioni – come quelle economiche – che lacerano le diverse anime del partito del Presidente.
Biden sarà costretto quindi a governare primariamente per via esecutiva e burocratica, attraverso decreti e con indicazioni precise alle agenzie federali su come applicare una determinata legge. Un modello di governo, questo, problematico su diversi piani, che impedisce soprattutto di avere una solida codificazione legislativa capace di durare nel tempo e, anche, di permettere ambiziosi accordi con in partner stranieri. Un’opinione pubblica tentata dalle sirene protezionistiche condizionerà a sua volta i negoziati sul libero scambio ovvero imporrà che essi siano declinati secondo determinate direttrici. Infine, questione fondamentale, la relazione con la Cina – e il groviglio di contraddittorie interdipendenze sul quale essa si fonda – costituirà una variabile estremamente complessa. Tanti dei provvedimenti economici presi dalla futura amministrazione saranno influenzati dalla volontà di emancipare gli USA da questa strettissima relazione e dal desiderio contestuale di sanzionare Pechino per forme di competizione sleale su molteplici dossier – dai sussidi alle violazioni di brevetti e licenze.
È altamente probabile che, in linea con la sua sensibilità multilateralista, l’amministrazione Biden cerchi di riattivare l’Organizzazione Mondiale del Commercio come forum cruciale per gestire questa complessa partita e dirimerne le tante vertenze. Partita, però, che riguarda quella più ampia della globalizzazione, la cui governance va indubbiamente aggiornata ed espansa, ma che non può oggi sopportare un’escalation ulteriore delle tensioni tra i due giganti dell’ordine mondiale contemporaneo.