Donald Trump silura il responsabile per la cybersicurezza, Chris Krebs, che aveva definito le elezioni 2020 “le più sicure della storia”, mentre Joe Biden, tra gli ostacoli, mette insieme i pezzi della sua nuova squadra.
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Donald Trump continua a rifiutarsi di riconoscere la sconfitta elettorale e dopo il Segretario alla Difesa Mark Esper silura anche il responsabile per la cybersecurity. Chris Krebs, che aveva definito le elezioni del 2020 “le più sicure della storia”, è stato smentito dal presidente che ha definito le sue dichiarazioni “molto inaccurate, in quanto ci sono state massicce irregolarità e frodi”, citando tra le presunte altre, il “voto di persone decedute”, i voti spostati “da Trump a Biden” e gli “osservatori non ammessi ai seggi”. Per questo – ha annunciato Trump in un tweet – “Krebs è licenziato da direttore della Cybersecurity and Infrastructure Security Agency (Cisa – agenzia del Dipartimento di sicurezza interna) con effetto immediato”. Nel mentre, spuntano informazioni sul fatto che il presidente abbia sondato l’ipotesi di attaccare l’Iran, ma che sia stato dissuaso dai suoi collaboratori, e l’annuncio di un ulteriore disimpegno militare da Iraq e Afghanistan. Intanto Joe Biden – che non ha ancora ottenuto l’accesso a fondi e informazioni riservate a causa dell’ostruzionismo del suo predecessore – ha annunciato i nomi dei membri dello staff che lo affiancherà alla Casa Bianca, e che sarà guidato dal capo di gabinetto Ron Klain.
Via da Iraq e Afghanistan?
Prima di andarsene dalla Casa Bianca, Donald Trump vuole mantenere la promessa di riportare a casa i soldati americani dall’Afghanistan e dall’Iraq. Entro il 15 gennaio 2021, cinque giorni prima dell’insediamento di Joe Biden (ormai lo sa anche lui), il presidente intende richiamare dai due fronti mediorientali circa 2500 soldati: un terzo di quelli attualmente dispiegati (4.500 in Afghanistan e 3000 in Iraq). Ad annunciarlo è stato stato Christopher Miller che ha sostituito la settimana scorsa il Segretario della Difesa Mark Esper, che aveva affidato a un memo interno le sue perplessità nei confronti di un ulteriore disimpegno Usa, in particolare dall’Afghanistan. Giudizio condiviso dalla catena di alti comandi militari del Pentagono con cui il presidente, dopo anni di relazioni tese, è ormai in totale rotta di collisione. E sulla questione del ritiro si è incrinato anche sodalizio con i repubblicani del Senato: il capogruppo Mitch McConnell ha sottolineato che una ritirata americana “incoraggerebbe” i talebani – che già starebbero contravvenendo all’accordo di pace negoziato all'inizio di quest’anno – e darebbe ad al-Qaeda “un grande rifugio sicuro per tramare nuovi attacchi contro l'America”. McConnell si è spinto oltre, sostenendo che le immagini di un ritiro dal paese in questo “ricorderebbero l'umiliante ritirata da Saigon nel 1975” e sarebbero accolte “con gioia da chi ci vuole del male e con sgomento dai nostri alleati”.
Una squadra tutta nuova?
Con i repubblicani favoriti per conservare la maggioranza al Senato, la nomina per il gabinetto di Biden si profila come il primo grande test per il neo-eletto presidente e la sua capacità di lavorare con i repubblicani alla camera alta. L'amministrazione entrante, infatti, ha più di 4.000 incarichi da riempire, di cui 1.200 circa richiedono la conferma del Senato. Nella squadra che affiancherà Biden oltre a Ron Klain, già suo braccio destro e che sarà capo dello staff, spicca un alto numero di donne, tra cui Jen O' Malley Dillon, prima manager donna di una campagna presidenziale, che ricoprirà il ruolo di vice di Klain, mentre Mike Donilon, stratega della campagna, sarà consigliere politico del presidente. Steve Ricchetti e Dana Remus, che hanno guidato il team legale della campagna Biden-Harris, saranno consulenti legali del presidente, mentre Annie Tomasini, capo dello staff della campagna, sarà il nuovo direttore delle operazioni dello Studio Ovale. Cedric Richmond, ex presidente del Black Caucus che raggruppa i membri del Congresso afroamericani, sarà invece il direttore dell’ufficio che si occupa degli impegni pubblici del presidente.
Corsa contro il tempo?
In questi giorni di transizione inverosimile c’è qualcosa che accomuna la ‘vecchia’ Casa Bianca con la ‘nuova’: entrambe sembrano essere in lotta contro il tempo. Per Biden e i suoi, si tratta aggirare gli ostacoli e schivare le trappole disseminate dai predecessori, per Trump e fedelissimi di arrivare al 20 gennaio portandosi via quanto più capitale politico da poter esibire nella rinnovata veste di opposizione. Donald Trump potrà dire di averci lavorato fino alla fine: è pronto ritirarsi dall’Iraq e dall’Afghanistan – ma non dallo Studio Ovale – e perfino a bombardare l’Iran. Si deve al Pentagono, stando alle notizie riportate dal Nyt, se al termine della staffetta presidenziale la nuova amministrazione non si troverà per le mani, invece del testimone, un candelotto dinamitardo pronto ad esplodere.
L’ultima corsa contro il tempo riguarda l’emergenza sanitaria. Il coronavirus negli Stati Uniti ha ormai superato gli 11 milioni di casi e l’assenza di una transizione ‘ordinata’ non aiuta il contenimento. “Prima avremo la transizione prima si potrà procedere con il vaccino”, avverte Biden, secondo cui più Trump e i repubblicani ostacoleranno il passaggio dei poteri “più persone continueranno a morire” a causa della pandemia. Un peso di cui il presidente uscente – che ha smesso di partecipare alle riunioni della task force – non vuole farsi carico. E che grava sulle spalle di un’America che, nonostante tutto, avanza tentoni verso la transizione.
Il commento
Di Mario del Pero, ISPI Senior Associate Research Fellow e Docente Sciences Po
Nella decisione di Donald Trump di ridurre ulteriormente la presenza militare statunitense in Afghanistan e Iraq convergono diversi elementi, legati anche alla sua sconfitta elettorale. Trump usa queste residue settimane di presidenza per realizzare uno degli obiettivi fondamentali della sua politica estera, in particolare nella regione mediorientale. Nel farlo, colpisce deliberatamente quei settori militari e del dipartimento della Difesa che hanno sempre osteggiato questa linea. Infine, lascia un’eredità forte al suo successore, che sappiamo essere contrario, e rafforza la sua immagine di presidente anti-interventista, nazionalista e unilateralista di fronte a un pezzo ampio d’America che da tempo sollecita un disimpegno globale del paese.
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A cura della redazione di ISPI Online Publications (Responsabile Daily Focus: Alessia De Luca, ISPI Advisor for Online Publications)