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Il mondo che verrà 2022

USA: ritorno a(l) Trump(ismo)?

Nadia Urbinati
22 Dicembre 2021

Il 2022 sarà l’anno del mid term, crocevia elettorale decisivo per il presidente Biden. Quanto è forte il trumpismo oggi?

 

L’anno statunitense era iniziato all’insegna di grandi preoccupazioni e grandi speranze. L’attacco al Campidoglio del 6 gennaio, fomentato dall’ex presidente Donald Trump che rifiutava (e ancora rifiuta) di riconoscere la sconfitta elettorale, era stato come un tonico per il neo-eletto presidente democratico Joe Biden, un candidato nato debole e che ha acquistato forza a causa prima della debolezza dei suoi avversari nelle primarie di partito e poi del rischio golpista. La virata di Trump verso un populismo pericolosamente vicino a una svolta dittatoriale ha contribuito a dare una fisionomia meno moderata ai primi mesi dell’amministrazione Biden, il cui progetto è stato da subito ispirato e sostenuto dall’ala sinistra della coalizione guidata da Bernie Sanders, coraggioso per necessità, in tempi di populismo e di pandemia, di forte crisi economica ed emergenza sanitaria.

Fin da subito, gli Stati Uniti di Biden hanno indicato una possibile via d’uscita dal populismo con una scelta coraggiosa e per molti inaspettata, proprio per la caratura tradizionalmente moderata dal neo-presidente, un veterano dell’establishment del Partito Democratico: proposta di un grande piano di rilancio dell’economia su base non liberista ma socialdemocratica, ovvero non reaganiana o con interventi pubblici che tagliano le tasse ai ricchi confidando che ciò li induca a investire e quindi creare lavoro.  La crisi del 2008 ha mostrato anche agli scettici che il “trickle down” non funziona con il capitalismo finanziario che comunque non intende investire e produrre. A differenza dei due piani di investimenti pubblici messi in atto dall’amministrazione Trump, quello proposto nel marzo scorso dal presidente Biden aveva una forte componente redistributiva verso il basso. Oltre ad un trasferimento diretto di contanti alle classi meno agiate, il progetto stimava che il credito fiscale offerto alle famiglie con bambini potesse arrivare, da solo, a ridurre la povertà infantile del 50%. Gli aiuti all’impiego di base avrebbero dovuto riportare la disoccupazione ai livelli pre-pandemia nel corso dell’anno successivo. In primavera, all’interno dell’amministrazione Biden si discuteva anche di un ulteriore piano di investimenti pubblici dell’entità di due mila miliardi di dollari, volto alla conversione verde dell’economia e al rinnovamento delle principali infrastrutture energetiche e commerciali del paese. Per finanziare queste spese, l’amministrazione Biden propose un impulso verso la progressività fiscale, alzando le tasse alle multinazionali e ai grandi ricchi – cosa che nessuna amministrazione americana aveva mai osato proporre dai tempi di Ronald Reagan. Anche rispetto ai diritti dei lavoratori, Biden si era dimostrato più progressista del previsto, prendendo esplicitamente posizione a favore dei sindacati nel conflitto in corso con Amazon in Alabama. Il campanello d’allarme trumpista ha scosso il centrismo e la dirigenza del partito nel tentativo di fermare la cavalcata di Trump e, in prospettiva, togliere i voti della classe operaia e medio-bassa ai repubblicani.

Tutto questo è stato bloccato per mesi e quel che sembrava possibile in primavera – superare le resistenze del mainstream del Partito Democratico – in autunno è stato avvertito come difficile. La situazione è cambiata nel corso dell’estate, quando l’ala moderata e reaganiana del Partito Democratico ha mostrato la sua ostilità alle proposte dell’amministrazione Biden e cominciato la melina congressuale che le stravolgerà. Cosa ha fatto Biden per vincere la resistenza del suo partito? Non molto sotto il profilo del potere decisionale e una volta che ha intrapreso la strada del coinvolgimento del Congresso, per avere tutto il partito dalla sua e per cercare anche di rompere l’unità del Partito Repubblicano. L’arma che ha avuto in mano e usato bene è stata quella della pressione sui rappresentanti o diretta o per mezzo dell’opinione pubblica. Biden ha fatto lo scorso ottobre un intervento importante in una Town Hall promossa da CNN, nel corso del quale ha fatto nomi e cognomi di quei democratici che sono contrari ad alzare le tassi alla piccola minoranza di ricchissimi – l’uscita è stata molto efficace e ha fatto sperare che la campagna sui media possa persuadere i rappresentanti a modificare le loro resistenze nell’attuare politiche sociali di assistenza all’infanzia e alle famiglie in difficoltà. A questo si è aggiunto il lavoro di compromesso e mediazione, cioè la politica parlamentare. La lotta cruenta nel partito e nel Congresso fa pensare che pochi ormai credono che le promesse ambiziose di marzo verranno onorate tutte. Non è improbabile che il negoziato estenuante renda questa presidenza una vera e propria fucina di delusioni, anche perché vista da fuori la politica dell’amministrazione democratica appare null’altro che una trattativa senza fine e al ribasso. Intanto, il flusso di migranti dal Messico rende il sud una polveriera che dà nuova linfa ai trumpisti; intanto, c’è ancora e sempre Trump. 

E il rischio maggiore per Biden e i democratici è che le policies e la politica parlamentare con le sue trattative estenuanti, ma necessarie, risultino poco accattivanti, che non riescano a muovere le emozioni e a portare gli elettori fuori dell’orbita trumpiana.

 

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AUTORI

Nadia Urbinati
Kyriakos Tsakopoulos Professor of Political Theory, Columbia University

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