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Il commento

USA2020: nuova America, vecchie storie

Giampiero Massolo
27 ottobre 2020

“America first”. Che vinca Joe Biden, ora in vantaggio, o Donald Trump, impegnato a rimontare, non molto cambierà. Sicuramente muteranno toni e modi: i democratici, più inclusivi e dialoganti con gli alleati; i repubblicani, ancor più diretti e transazionali, a maggior ragione in caso di un secondo mandato presidenziale. Ma nella sostanza, il trumpismo, la priorità alle esigenze americane non tramonteranno e gli europei, al di là degli auspici contrari, dovrebbero prepararsi.

È frutto di una società americana profondamente divisa, confusa sul ruolo degli Stati Uniti nel mondo e intenta a guardarsi dentro. Di essa, il presidente Trump è il riflesso più che la causa. Ha interpretato, esasperandoli per il suo elettorato, sentimenti profondi dell’opinione pubblica americana: in maggioranza, attonita di fronte a una globalizzazione mal gestita e scopertasi improvvisamente debole perfino nelle forniture sanitarie più elementari, intimorita dall’avanzata dell’avversario strategico cinese, preoccupata per i deficit commerciali che erodono i redditi americani, testimone delle esitazioni europee ad agire nei teatri di crisi e a non lesinare nella spesa militare. Fattori, tutti questi, aggravati dalla pandemia e rispecchiatisi inevitabilmente negli umori del Congresso, condizionanti a loro volta per qualsiasi amministrazione. E non vi è alcun motivo di pensare che per i democratici di Joe Biden, buone intenzioni e maniere a parte, la situazione sarebbe diversa: impossibile tornare semplicemente al passato, inevitabile sviluppare una politica estera attenta più all’America che al mondo. Del resto, i democratici l’hanno nella loro tradizione e neppure Barack Obama ha fatto eccezione. Non che in Europa la situazione sia molto diversa: l’emergenza economica e sanitaria incalzante, con le opinioni pubbliche rese vieppiù esigenti dall’angoscia, portano i governi a concentrarsi sul cortile di casa. E anche nell’Unione europea, divenuta vulnerabile a causa di catene produttive troppo lunghe e spiazzata dal ripiegamento americano, scatta il riflesso all’introspezione, la pressione verso forme di autonomia strategica in materia di difesa, sicurezza, industria, tecnologie avanzate. Tutto ciò è comprensibile e probabilmente inevitabile in un futuro, nuovo assetto mondiale a più poli nel quale l’Europa ambisca ad essere protagonista e non mero oggetto.

E, tuttavia, quell’ordine mondiale non si è ancora materializzato, mentre l’Unione europea, dopo aver iniziato a ritrovare in questi mesi maggiore solidarietà e identità economico-finanziaria, stenta ancora a superare le sovranità nazionali in politica estera. La tentazione di andare in ordine sparso a confrontarsi con la potenza cinese e il movimentismo russo è stata dunque ritornante: il più delle volte con risultati fallimentari. Al tempo stesso però, la realistica consapevolezza dei limiti individuali ha portato a cercare di puntellare soprattutto dal versante europeo il rapporto transatlantico, parso affievolito sul lato americano.

In questo senso, le relazioni con la prossima amministrazione americana rappresenteranno per l’Unione europea una sorta di esame di maturità. Occorrerà acquisire tra europei l’unità d’intenti e l’autorevolezza necessarie a coinvolgere Washington in una partnership davvero paritaria: senza prestare il fianco al facile (e comodo) addebito americano di sfuggire spesso alle nostre responsabilità. Il campo di gioco saranno i rapporti con la Cina. Aspettiamoci, tra Trump e Biden, pari intransigenza.

La prova per l’Europa sarà di lavorare con Washington (e Biden in questo potrebbe dimostrarsi più inclusivo, rispetto all’individualismo trumpiano) per arrivare insieme alla conclusione che una logica meramente interdittiva non basta più; che la relazione con Pechino va condotta sulla base di regole e comportamenti concordati tra alleati, in grado di rendere più credibili le nostre richieste di reciprocità ai cinesi; che, infine, la battaglia per la supremazia tecnologica si vince dotando Europa e America di alternative valide e competitive con la concorrenza cinese e non con la pretesa di congelare il progresso.

La posta in palio giustifica la sfida: è la nozione stessa di Occidente e la sua capacità di restare compatto per influire sugli equilibri mondiali in divenire. È vitale affrontarla.

 

Una versione di questo articolo è apparsa sull'edizione cartacea di La Stampa il 26 ottobre 2020

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AUTORI

Giampiero Massolo
Presidente ISPI

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