Il presidente Donald Trump e lo sfidante Joe Biden tengono gli ultimi comizi negli stati cruciali per il voto. Intanto l’economia segna una netta ripresa e il voto anticipato raggiunge cifre record. Ma c’è il timore che per sapere il nome del vincitore dovremo attendere i tempi supplementari.
What’s up?
I numeri del rimbalzo dell’economia americana nel terzo trimestre, pari a +33,1% del Pil, irrompono su una campagna elettorale ormai alle battute finali in vista del voto di martedì 3 novembre. Quella di oggi, segnala il dipartimento del Commercio, è la maggiore espansione di sempre dell'economia Usa, accompagnata da un altro dato positivo: la flessione dei sussidi settimanali di disoccupazione che restano sotto quota 800.000 unità, calando oltre le attese. “I dati sul Pil sono i più grandi e i migliori della storia del nostro paese... il prossimo anno sarà fantastico", ha commentato entusiasta il presidente Donald Trump”. Gli effetti delle riaperture dopo i lockdown di aprile e maggio, che hanno risollevato l’economia, non tardano a vedersi però neanche in ambito sanitario: per la prima volta dall’inizio della pandemia, gli Stati Uniti registrano oltre 90mila casi di Coronavirus in 24 ore, attestandosi su quota 8,9 milioni di casi e 228mila morti complessivi.
Intanto, secondo i dati dell’Elections Project, il voto anticipato ha toccato un record senza precedenti e ha già superato il 60% del numero totale dei voti delle elezioni del 2016. L’enorme mole di voti per corrispondenza potrebbe richiedere giorni o settimane per essere conteggiata e la Corte suprema si è pronunciata in favore dell’istanza per accogliere in Pennsylvania e North Carolina, due stati chiave per l’elezione, le schede recapitate fino a diversi giorni dopo la chiusura dei seggi. In entrambi i casi la neoeletta giudice Amy Coney Barrett non ha partecipato alla votazione, poiché – ha spiegato un portavoce della Corte Suprema – non ha avuto modo di studiare nel dettaglio le questioni. Diversamente, per il Wisconsin, il massimo organo della giustizia americana ha deciso che le schede elettorali dovranno essere recapitate entro il 3 novembre per essere ritenute valide.
In base ai sondaggi nazionali, il candidato democratico Joe Biden resta in testa, ma il suo vantaggio su Donald Trump si assottiglia a 7,4 punti dai 10 di metà ottobre. In Florida è previsto un testa a testa, come in Georgia, Iowa, North Carolina, Ohio e Arizona. Mentre entriamo nell'ultimo fine settimana della campagna 2020, il presidente degli Stati Uniti affronta il rush finale a un ritmo di tre comizi al giorno. Il vicepresidente Mike Pence è protagonista di due manifestazioni in Arizona, mentre il suo compagno di corsa rivale, il senatore Kamala Harris, visita il Texas. Per non essere superato da Trump, lo sfidante democratico Joe Biden, fa tappe in Iowa, Wisconsin e Minnesota. Ma soprattutto, negli ultimi giorni, i due candidati si sono incrociati in Florida, a Tampa, segno di come entrambi siano ben consci di quanto l’esito della loro campagna sia legato alle sorti del voto nel ‘sunshine state’. E di come entrambi sappiano che qui non hanno ancora la vittoria in tasca. Se Biden pare aver guadagnato terreno tra gli elettori più anziani che un tempo facevano parte della base di Trump, il presidente è ancora molto popolare tra i conservatori repubblicani.
Se The Donald dovesse perdere in modo netto in questo stato, lo scenario di un lungo spoglio, inquinato da possibili contestazioni e tensioni, sarebbe ridimensionato. È quello che sperano i democratici, e anche per questo l’ex sindaco di New York Michael Bloomberg, ha deciso di investire cento milioni di dollari per sostenere la candidatura di Biden in Florida. Ma sulle aspettative grava il peso delle elezioni del 2000 dove, proprio in Florida per poche centinaia i voti e dopo una lunga battaglia legale, si infranse la campagna di Al Gore contro George W. Bush. Per questo l’ex vicepresidente di Obama punta al midwest e agli stati della Rust Belt che Trump ha sottratto nel 2016 a Hillary Clinton. Se vincesse in questi, Wisconsin, Michigan e Pennsylvania, gli basterebbe vincere in Arizona o Georgia, per arrivare al numero magico di 270 grandi elettori necessari a conquistare il collegio elettorale.
Sempre nel Midwest, Trump proverà a ribaltare l’esito del 2016 in Minnesota, dove fu sconfitto di misura da Clinton, mentre sembra difficile che riesca a replicare la vittoria in Michigan e Wisconsin. Dal canto suo, se Trump dovesse aggiungere agli stati in cui è dato in grande vantaggio anche Florida e Ohio, per essere rieletto gli basterebbero pochi voti in più in alcuni stati in bilico.
Sarà battaglia all’ultimo voto, insomma, e una lunga notte elettorale che potrebbe durare giorni.
Il punto di Ipsos
Il commento di Nando Pagnoncelli
“Le presidenziali del 3 novembre sono state definite dal alcuni analisti “Covid-driven”. Anche questa settimana la preoccupazione per il virus si conferma al primo posto tra le issues dei cittadini e la gestione della emergenza sanitaria da parte di Trump continua a suscitare più dissenso (59%) che consenso (37%), toccando il divario più ampio tra detrattori e sostenitori. Non stupisce pertanto che Biden si porti a 11 punti di vantaggio (51% a 39%) sul presidente uscente tra gli elettori registrati e a 10 punti (52% a 42%) tra i likely voters.
Le stime comprendono anche il voto espresso dagli early voters che, come sappiamo, sono significativamente aumentati in questa tornata elettorale. Grande attenzione quindi viene riservata ai 6 swing States, dove lo sfidante fa registrare un vantaggio risicato in North Carolina (+1%), in Ariziona (+2%) e in Florida (+2%), mentre in Pennsylvania il vantaggio sale al 5% e nel Wisconsin e nel Michigan al 9%. Non ci resta che attendere, wait and see”
Temi caldi
Ad oggi, oltre 84 milioni di Americani hanno già espresso la propria preferenza con voto anticipato: una cifra epocale, più del 50% dell’affluenza totale nel 2016.
Una così alta partecipazione anticipata è vista con preoccupazione dai Repubblicani. Più votanti si esprimono prima del 3 novembre, meno margine di manovra rimane a Donald Trump per convincere elettori in dubbio con annunci e promesse elettorali. Inoltre, sembra che la maggior parte degli elettori registrati in swing states come la Florida risultino essere democratici. Dai sostenitori repubblicani ci si aspetta invece una forte partecipazione il 3 novembre, con Trump che ha annunciato via Twitter una red wave alle urne.
In alcuni Stati, il conteggio delle schede arrivate per posta continuerà per giorni e settimane dopo l’Election Day: in California – roccaforte democratica – sono ritenute valide tutte le schede recapitate entro il 20 novembre. Ma è agli stati in bilico che bisogna guardare per avere un’idea chiara di quando potremo avere un vincitore. Cominciamo da quelli in cui – a meno di contestazioni - già il 3 novembre dovremmo avere le idee chiare. In Florida, per esempio, non saranno contate le schede recapitate dopo l’Election Day. Le autorità hanno già iniziato a contare le schede del voto anticipato e probabilmente già la notte del 3 lo stato potrebbe essere ‘chiamato’. Anche dal Maine e dal Wisconsin ci si aspetta di ottenere dati ufficiosi già quella notte, proprio come in North Carolina. In Texas, invece, dovremmo essere in grado di farci un’idea la mattina del 4 novembre.
In Georgia, la corte suprema ha stabilito che saranno conteggiate solo le schede ricevute entro il 3 novembre; tuttavia, poiché non si può procedere con il conteggio dei voti anticipati prima dell’Election Day, il risultato potrà essere disponibile più tardi di martedì prossimo. In Pennsylvania, i voti postali saranno validi se ricevuti entro il 6 novembre: per questo motivo, i risultati definitivi non saranno disponibili prima di questa data. In Iowa saranno accettate le schede ricevute entro il 9 novembre: le autorità si aspettano di poter fornire dati affidabili molto prima, ma potremmo dover attendere questa data per gli esiti del voto. In Ohio, i risultati dei voti ricevuti entro l’Election Day saranno comunicati per le 8 di sera (fuso orario della costa est), mentre per quelli ricevuti entro il 13 potremmo dover attendere fino al 28 novembre.
Come detto, ci si attende una forte affluenza repubblicana martedì prossimo e una maggiore partecipazione anticipata tra i democratici. Per questo, eventuali ritardi nel conteggio dei voti potrebbero determinare una vittoria di Biden dopo un iniziale vantaggio trumpiano calcolato sul solo dato dei voti alle urne. Il presidente si è espresso per scongiurare ritardi nei conteggi e avere risposte sicure già la notte del 3. In Wisconsin, la Corte Suprema – a maggioranza repubblicana – ha determinato che non saranno ritenute valide le schede elettorali che arrivano dopo il 3 novembre. I Democratici hanno risposto invitando i propri elettori a smettere di votare per posta e di recarsi alle urne, in anticipo o meno. In Texas, il governatore repubblicano Greg Abbott ha ristretto i seggi elettorali a uno per contea, riducendo così le possibilità degli elettori di recarsi alle urne, chi per motivi sanitari, chi per motivi economici. Di fronte alle accuse degli attivisti per il diritto di voto, Abbott ha replicato dicendo che questo provvedimento è stato in realtà accompagnato da un rilassamento delle regole per il voto anticipato, che hanno fornito una settimana in più ai cittadini per esprimersi.
Le difficoltà legate al voto anticipato non sembrano però aver smorzato l’entusiasmo dei Democratici, che i sondaggi danno ancora favoriti (con Biden al 51,3% e Trump che insegue al 43,5%). Al vantaggio di Biden contribuisce la sua popolarità tra l’elettorato giovane (tra i 18 e 29 anni), gran parte del quale nel 2016 non si era potuto esprimere. Secondo un sondaggio dell’Harvard Public Opinion Project, il 63% degli elettori giovani preferisce il candidato democratico a quello repubblicano. Per i Repubblicani, invece, il problema è riuscire a riavvicinare l’elettorato conservatore moderato, tradizionalmente di fede cristiana. In questo senso, il vicepresidente Pence sta conducendo una campagna parallela a quella di Trump dai toni più disciplinati per riconquistare un elettorato che non apprezza le uscite eccessive e scorrette che arrivano dalla Casa Bianca. A questo scopo dovrebbe contribuire anche la recente nomina di Amy Coney Barrett alla Corte Suprema, approvata dal Senato per 52 voti a 48. Il suo ruolo sarà subito fondamentale nei futuri interventi della Corte riguardo alle regole elettorali che potrebbero determinare scadenze anticipate
per il conteggio delle schede per corrispondenza, come avvenuto in Wisconsin. Barrett si è immediatamente definita indipendente dal presidente, ma le sue posizioni sull’aborto e sull’Affordable Care Act (noto come Obamacare) preoccupano comunque i Dem.
Il personaggio
Lunedì scorso il Senato degli Stati Uniti ha confermato la nomina di Amy Coney Barrett alla Corte Suprema. Barrett è la 115esima giudice della Corte, nominata da Donald Trump dopo la morte della giudice progressista Ruth Bader Ginsburg lo scorso 18 settembre. È la terza giudice del massimo organo supremo scelta dal presidente americano, e la sua nomina sposterà decisamente a favore dei conservatori l’orientamento della Corte. Il suo arrivo alla corte suprema inoltre, è stato oggetto di un acceso dibattito tra Repubblicani e democratici, in cui questi ultimi sostenevano, anche in base ai precedenti, che non fosse corretto nominare un giudice della Corte Suprema così a ridosso delle elezioni.
Nata a New Orleans, Louisiana, nel 1972, Amy Coney Barrett è la più grande di sei sorelle e un fratello, figlia di un avvocato della compagnia petrolifera Shell e un’insegnante di francese. Fin da giovane si dimostra una studentessa brillante, ed entra con una borsa di studio al Rhodes College, e poi alla Notre Dame Law School, dove è premiata come migliore allieva in dieci corsi e da cui si laurea summa cum laude nel 1997. L’eccellenza accademica vale a Coney Barrett la selezione in un ristrettissimo gruppo di neolaureati a cui viene offerta la possibilità di lavorare come assistenti per i giudici della Corte Suprema degli Stati Uniti.
È proprio alla Corte Suprema che avviene l’incontro determinante della sua vita: tra il 1998 e il 1999, è infatti assistente nell’ufficio di Antonin Scalia, uno dei più famosi giudici conservatori della storia americana recente. Lavorando per Scalia, Coney Barrett consolida la propria visione della giurisprudenza, come quella del giudice italo-americano radicata in un approccio “testualista” e “originalista”: basato cioè sull’idea che la Costituzione vada interpretata soltanto sulla base del testo e del significato che le sue parole avevano per gli autori. L’influenza di Scalia risuonerà chiaramente lungo tutta la sua carriera tanto che, accettando la nomina di Trump alla Corte suprema, Coney Barrett spiegherà che la filosofia giuridica di Scalia “è anche la mia filosofia. Un giudice deve applicare la legge così come è scritta. I giudici non sono politici e devono essere determinati nel mettere da parte qualsiasi opinione politica possano avere”.
Dopo l’esperienza con Scalia, Coney Barrett inizia una carriera da docente accademica che la riporta alla Notre Dame Law School, dove insegna per 15 anni diventando una professoressa molto apprezzata dai suoi studenti, che la descrivono come acuta, gentile e alla ricerca del dibattito tra posizioni diverse. Intanto, Coney Barrett cresce una grande famiglia: sposa un altro laureato alla Notre Dame Law School, l’avvocato Jesse Barrett, con cui condivide la crescita di sette figli, di cui due adottati da Haiti. Da accademica, scrive ampiamente sul rapporto tra la coscienza individuale e il dovere professionale di un giudice e sul principio dello stare decisis, la norma che nei sistemi di common law (come quelli di USA e Regno Unito) prescrive che i giudici sentenzino rispettando l’interpretazione della legge data in simili casi precedenti. Sono proprio queste pubblicazioni che, quando Coney Barrett verrà nominata giudice federale e poi alla Corte Suprema, faranno nascere tra i progressisti la preoccupazione che possa esprimersi contro Obamacare e diritto all’aborto.
Nel 2017, il presidente Donald Trump nomina Coney Barrett alla Corte d’appello di Chicago. Nell’audizione di conferma davanti alla commissione giustizia del Senato, le sue pubblicazioni sul rapporto tra opinioni individuali, fede religiosa e dovere di giudice le vengono contestate dai senatori democratici. Le viene chiesto se la sua appartenenza a una comunità cristiana particolarmente conservatrice (i “People of Praise”) avrebbe influito sul suo lavoro in un tribunale federale. Coney Barrett garantisce che questo non è il caso e a sostegno della sua nomina arrivano le firme di tutti i 49 colleghi di facoltà e tutti gli assistenti che hanno lavorato con lei, nonché di 450 tra i suoi ex studenti. Alla fine, la sua nomina viene approvata dal Senato a maggioranza repubblicana e Coney Barrett diventa così giudice federale nel novembre 2017.
Già prima della nomina a giudice d’appello, molti si aspettavano che Coney Barrett potesse essere proposta dal presidente per la Corte Suprema. Trump, però, voleva tenerla “in riserva” per poter sostituire un eventuale giudice donna che avesse lasciato la corte. L’occasione è arrivata a settembre 2020, con la morte dell’87enne Bader Ginsburg.
A sostituire il volto dell’ala liberal della Corte Suprema, arriva così una giudice cattolica e conservatrice. Coney Barrett, però, si definisce erede di Scalia non solo in giurisprudenza: come Scalia e Bader Ginsburg, rivali sul lavoro ma uniti da una profonda amicizia, è convinta che visioni diverse possano dare il proprio contributo nel servire la Costituzione, senza che rispetto e affetto reciproco vengano meno. In un’America più divisa che mai, una speranza tutt’altro che scontata.
Per saperne di più
The most important election ever
Michael Hirsh, Foreign Policy
Anne Applebaum, The Atlantic
What’s next
- 4 giorni alle elezioni (3 novembre 2020)